Stato della nostra Giurisprudenza nel fine di questo XVI Secolo, e principio del seguente, così nell'Accademie, come ne' Tribunali; e de' Giureconsulti, che vi fiorirono.
Non deve recarci maraviglia, se nel decorso di questo secolo e più verso il suo fine, la Giurisprudenza del Foro fosse cotanto presso noi esercitata e rialzata cotanto, quanto dimostrano il numero delli Professori e delle loro opere, e l'ingrandimento indi seguito de' nostri Tribunali. Le nuove Leggi, i tanti nuovi istituti; la varietà di tante nuove cose incognite a' Romani, nuovamente stabilite, la resero assai più vasta e sterminata; i tanti nuovi affari, che doveansi quivi trattare, resero i Tribunali molto più ampj e frequentati. Niente dico del nuovo diritto Canonico stabilito nell'Imperio, che portò seco tanta ampia materia di disputare sopra i confini dell'una e l'altra potestà, onde sursero le tante controversie giurisdizionali e la maggior occupazione del Collateral Consiglio, il quale inteso al governo del Regno, bisognò attendere non meno a quello, che a regolare e soprantendere in queste cose, affinchè l'una potestà stesse ristretta ne' suoi limiti e non facesse delle sorprese sopra l'altra: niente dico della nuova materia beneficiaria, delle elezioni, collazioni, resignazioni, translazioni, juspatronati, decime e tante altre quistioni attinenti allo Stato e Gerarchia Ecclesiastica.
La nuova materia Feudale incognita a' Romani, cotanto presso di noi esercitata per li tanti Feudi, e di così varia natura, de' quali il Regno abbonda, multiplicati in questo secolo molto più di prima, quante contese doveano recare, e quanto pascimento per ciò portare agli ingegni dei nostri Professori? Per ciò sopra questo soggetto i Napoletani s'hanno lasciato indietro tutti li altri Professori d'altre Nazioni. Un Regno da' Spagnuoli diviso in tante nuove investiture, tanti Baroni multiplicati, non potevano non accrescere lo studio feudale, e non empire i Tribunali di nuove dispute e quistioni.
La dottrina delle Regalie, poco nota agli antichi, e li diritti di quelle, cotanto stese da' nostri Principi, sopra le cacce, fodine, tesori, foreste e sopra tante cose, quanto s'è potuto vedere ne' precedenti libri di quest'Istoria: i tanti nuovi dazj e le tante nuove dogane e gabelle, le alienazioni, le pignorazioni di quelle: le nuove collette e fiscali, e tanti altri nuovi jus prohibendi introdotti a quasi tutte le cose, onde la vita umana si conserva, somministrarono abbondante materia al Tribunale della Regia Camera per tener occupati i suoi Ufficiali, tanto che non bastando il numero prima stabilito, bisognò accrescerlo, e farne degli altri in numero maggiore, e somministrarono ancora a' Professori nuova materia a' loro scritti ed a' lor volumi, che vi composero, ed a multiplicarsi per la abbondanza delle liti, che ne sursero, e a far sì che la gente s'applicasse molto più, che prima a questo mestiere.
I tanti nuovi Ufficiali, introdotti a questi tempi, non meno nel nostro Reame, che in quello di Francia; tanto che quivi, per lo lor eccessivo numero, fu nel 1614 lungamente dibattuto di levarne un numero grande, del che il Savarone ne stese una dotta scrittura: le tante contese per ciò insorte per regolare le giurisdizioni, le loro precedenze, i loro diritti ed emolumenti; e perciò stabiliti tanti nuovi Ufficj, la multiplicità di quelli, e la loro varietà, esercitarono molto più le penne dei nostri scrittori.
Ma sopra tutto furono aperti al Tribunal del S. C. abbondantissimi fonti, onde la sua applicazione fosse maggiore, e per conseguenza s'accrescessero le sue Ruote, si moltiplicassero i suoi Ufficiali, ed il numero degli Avvocati si rendesse più ampio. La materia de' testamenti, delle successioni, delle detrazioni di legittima, e suoi privilegj, e le loro solennità: il nuovo modo introdotto di testare, spiegato sotto nome di testamenti nuncupativi impliciti, di testamenti canonici, non conosciuti dagli antichi; di ridurgli insieme con l'altre ultime volontà, vivente anche il testatore, in forma pubblica: i nuovi testamenti ordinati avanti il Parroco: le disposizioni fatte a cause pie, e tante altre novità sconosciute dalle leggi de' Romani, introdussero nuove altercazioni e contese agli antichi ignote.
I Fedecommessi, ancorchè noti a' Romani, ricevettero presso noi notabilissime alterazioni per le tante quistioni svegliate da' nostri Interpreti, da poi che per lo spazio di sei secoli e più, stati in tenebre sepolti, risorsero, e 'l lor uso si fece più frequente e comune, tanto che non si leggeva testamento, nel quale non si ordinassero. I maggiorati, e le primogeniture, quasi che incognite agli antichi, si resero così frequenti, che la lor materia cotanto diffusa empì la Giurisprudenza di nuovi termini, di nuove dispute e nuovi trattati.
I Legati ricevettero non minor alterazione, così a riguardo della moderazione dell'antico rigore del S. C. Liboniano, e della proibizione della Falcidia, come per quelli lasciati a cause pie, già sottratti dalle comuni regole e dalle solennità della ragion positiva.
La successione intestata molto diversa, e da' suoi principi pur troppo lontana, in altra guisa vien regolata dal Diritto Canonico, di altra maniera la dispongono li particolari Statuti, ed altrimente le Consuetudini proprie di ciascheduna Città e Regione.
Non minore alterazione si vide nei contratti, e molto maggiore incremento per altri, o nuovamente inventati, o più di prima frequentati. L'enfiteusi, ancorchè nota a' Romani, cotanto da poi presso noi praticata, che diede ampia materia a' nuovi trattati e volumi. Li censi, che diciamo consegnativi, cotanto ora frequentati, o sian vendite d'annue entrate, incognite, non meno alle Romane leggi, che agli antichi canoni, e da Martino V e dagli altri suoi successori stabiliti per mezzo delle loro Costituzioni; poichè i Pontefici Romani abbominando il nome d'usure, cercarono questo manto per covrirle, e dar loro un più spezioso aspetto: condennando l'usure de' Romani, ma in effetto permettendole, quando s'usino i modi da essi prescritti nelle loro Costituzioni, con assegnare un corpo certo e fruttifero, e la sorte facendola irrepetibile.
I cambj cotanto ora diffusi per la scissura dell'Imperio, e per la varietà de' nuovi Dominj in Europa stabiliti, ancorchè fosser noti a' Romani, nulladimeno sotto un Imperio, che tutto ubbidiva ad un solo, dove il commercio era più facile, i viaggi più sicuri, il valore del denaro era lo stesso in tutte le province dell'Imperio, non eran molto usati. Il lor uso si rese da poi necessario e più frequente, perchè il valor della moneta non essendo in tutte le Nazioni uguale, i traffichi e commercj per le continue guerre impediti, i viaggi non troppo sicuri, gli spinse a maggior perfezione; e con più sottil industria, con modi pur troppo ingegnosi ed utili, l'uso delle lettere di cambio si rese più frequente e comodo: tanto che questa dottrina de' cambj riputata come nuova, esercitò l'ingegno di più Giureconsulti a comporne particolari commentarj e trattati; e ad esser riputata una delle principali parti della nuova Giurisprudenza del Foro.
Per quest'istessa cagione del più facile e sicuro commercio, furono frequentati i contratti delle assicurazioni, de' cambj marittimi e le tante altre convenzioni, che vengono regolate dal moderno uso e da' proprj Statuti di ciascuna Regione, o da particolari leggi, agli antichi affatto ignoti.
Questi particolari Statuti, ovvero Consuetudini, introdussero ancora con tanta varietà il diritto del ritratto, o sia del congruo. Questi regolano le servitù ne' poderi, così rustici, come urbani; e tante altre materie, delle quali troppo nojosa cosa sarebbe farne qui un più lungo catalogo.
La dottrina delle doti pur troppo dagli antichi trattata, non è però, che presso i moderni non avesse ricevuta grandissima alterazione, per ciò che riguarda a' lucri dotali, diversi dall'antiche donazioni propter nuptias; onde nuovi nomi d'antefato, di donativi, di meffio e catameffio, ed altri strani vocaboli, con nuove dispute s'intesero.
Gli sponsali, i matrimonj, sono affatto, così nelle solennità, come nella forma, difformi dagli antichi: non vien più richiesto consenso di padre o avo, nella cui potestà sono gli sposi; non que' riti; ma tutti altri dal Concilio di Trento sono stati prescritti.
Le Tenute, le donazioni, compre, vendite, e le altre alienazioni in gran parte alterate, ed altre nuove introdotte, agli antichi ignote. Le leggi civili non trattano delle donazioni, introdotte per contemplazione del matrimonio, in quella forma, nella quale oggi cotanto sono in uso. Quelle proibivano le donazioni e gli altri contratti tra' conjugi, tra' padri e figliuoli; ed ora per diritto canonico, quando siano giurate, si convalidano e restano ferme.
I concorsi così frequenti de' Creditori sopra la roba del comun Debitore, e le tante discussioni sopra ciò insorte, per le anteriorità e poziorità de' loro crediti hanno reso inestricabili molti giudizj, e tenuti occupati non meno i Tribunali, che i nostri Professori.
La nuova materia delle Renunzie, nella forma, che furono da poi praticate da' moderni, fu anche a' primi nostri Interpreti ignota; ma poi cotanto agitata, che se ne composero ben ampj discorsi e trattati.
I rigori della legge civile intorno a' patti, ed altre convenzioni, fur tutti, o tolti, o in parte moderati: non reca ora stranezza di pattuire sopra l'eredità d'un vivente, di contrattare sopra gli altrui ufficj, aspettando la morte dell'Ufficiale: saldarsi ogni patto irregolare coll'apposizione del giuramento, e tante altre novità ed esorbitanze.
In fine per tralasciarne innumerabili, l'ordine dei Giudicj non pure è tutto altro, ma in tanti Tribunali tutto diverso, e fra se medesimo vario, così nelle accusazioni criminali, come nelle azioni civili: altre leggi, nuovi stili, nuovi riti, altre pratiche ricevute, altre andate in disuso: onde sursero tanti nuovi trattati e commentarj attenenti a questo soggetto.
Essendosi cotanto, per sì varj e nuovi affari ampliata la Giurisprudenza del Foro, portò in conseguenza l'ingrandimento de' nostri Tribunali, l'accrescimento degli Ufficiali e 'l numero maggiore de' Professori. Siccome si è veduto nel XXVI Libro di quest'Istoria, il Tribunale del S. C. fu dall'Imperador Carlo V accresciuto di maggior numero di Consiglieri, e vi aggiunse un'altra Ruota. Nel Regno di Filippo II per la multiplicità di negozj, fu duopo aggiungervi la terza; ma in discorso di tempo, nel fine di questo secolo e de' di lui giorni, per le cagioni di sopra narrate, l'ampiezza degli affari fu tanta, che la città di Napoli ne' Parlamenti tenuti negli anni 1589 1591 e 1593 chiese al Re Filippo II, che per la maggior espedizion delle cause aggiungesse alle tre Ruote del S. C. la quarta, con crear nuovi Consiglieri, e dal suo Patrimonio assegnar loro il salario. Ed il Re si compiacque ordinarlo per sue lettere spedite nel Monastero di S. Lorenzo, sotto li 3 settembre del 1597, che si leggono nel volume delle nostre Prammatiche; onde furono eletti cinque altri Consiglieri, distribuendosi cinque per Ruota.
Parimente l'istesso Re Filippo, considerando, come s'esprime in una sua regal carta spedita in Madrid a' 24 Dicembre del 1596, la moltitudine de' negozj, che si trattavano nel Tribunale della Regia Camera, per essere il Regno cresciuto, e vie più le rendite del suo Regal Patrimonio, ordinò al Conte d'Olivares allora nostro Vicerè, che dividesse il Tribunale in due sale; affinchè in due Ruote distinte, con maggior agio e sollecitudine s'attendesse alla pronta spedizione delle cause. Lo stesso fece del Tribunal della Vicaria Civile, che lo divise per l'istessa cagione in due sale, ad esempio, com'egli dice, del Consiglio regale di Castiglia, Que se divide por salas, y quando se offrece alcun negocio grave, se juntan todas, come sono le parole della sua regal carta rapportata dal Toppi. Accresciuti in cotal guisa i Tribunali ed i Ministri, non tralasciava il Re Filippo II, per la loro retta amministrazione, d'invigilarvi; ed introdusse le Visite, mandando di volta in volta di Spagna Visitatori per correggere gli abusi, e, quando bisognasse, deporli dai loro posti; e vi mandò successivamente il Quiroga, ed il Gusman; onde s'introdussero appresso di noi i Visitatori .
Moltiplicarono in conseguenza gli Avvocati, i Proccuratori e tanti altri Curiali in numero infinito. Narrava Fabrizio Sammarco celebre Avvocato di que' tempi, secondo che rapporta il Toppi, che quando il Tribunal del S. C. si reggeva in S. Chiara bastavano poche stanze, ed il solo Cortile di quel Convento si riputava capacissimo per i litiganti, per i Proccuratori, de' quali non arrivava il numero che a cinquanta, e per gli Avvocati, che non erano più che venti. Ma nel decorso di questo XVI secolo, e principio del seguente, appena bastavano per li litiganti. Avvocati e Proccuratori, e per tanti Curiali, quell'ampie sale del magnifico Palazzo di Capuana. Per queste cagioni, sin da questi tempi, si diedero quasi tutti allo studio delle leggi, come quello, ch'era favorito dagli Spagnuoli, con gli onori delle Toghe, e che nelle famiglie recava non pur splendore, ma utile grandissimo.
Sursero per ciò appo noi tanti Dottori, i quali dopo i primi anni de' loro studi s'applicavano al Foro, e dopo averne consumati molti nell'Avvocazione (nel qual tempo davano saggio de' loro talenti e dottrina) erano poi assunti al Magistrato; e si rendevano illustri, non meno per le Toghe, che per le opere, che davano alle stampe. Gli Avvocati di questi tempi non collocavano molto studio nell'arte oratoria, sì che i loro arringhi comparissero al Foro luminosi e pomposi: si studiavano ricavar l'eloquenza più dalle cose, che dagli ornamenti dell'arte, trascurata tanto, che solamente le orazioni del Cieco d'Adria erano lette, riputandole per norma del ben dire. Per ciò i loro discorsi in Ruota erano corti e tutto sugo, non curandosi delle lunghe dicerie e di tanti pampani: dove abbondavano i negozj, si tralasciavano volontieri i preamboli e le apostrofi. Il principale loro studio era nel porger con metodo ed energia i fatti, e negli articoli di ragione che proccuravano esaminarli con dottrina ed esattezza.
Questa comune applicazione alle leggi del Foro, fece, che fiorissero in questi tempi tanti Giureconsulti che lasciarono a' posteri molte loro opere legali, dei quali tediosa cosa sarebbe, se si volesse qui tesserne lungo catalogo, e per ciò ci contenteremo di nominar solamente i più celebri, le cui opere per essere vulgatissime e che corrono per le mani di tutti, non fa mestieri qui registrarle.
I più rinomati furono i Reggenti Salernitano, Villano e Revertera, il Reggente Camillo de Curtis, figliuolo di Giannandrea, il Reggente Giannantonio Lanario, il Reggente Annibale Moles, e poi i Reggenti Carlo Tappia e Fulvio di Costanzo. Rilussero ancora per dottrina Prospero Caravita d'Eboli, Camillo Borrello, Cesare Lambertino, Gianvincenzo d'Anna, Fabio Giordano, Giacomo d'Agello, Gaspare Caballino, Giovanni de Amicis, Giannantonio de' Nigris, Fabio d'Anna, figliuolo di Gianvicenzo, Marcantonio Surgente, Marcello Cala, Roberto Maranta, e per tralasciar gli altri che possono vedersi presso Toppi, così nella sua Biblioteca, come ne' tre volumi dell'Origine de' nostri Tribunali, Niccolò Antonio Gizzarello, il quale ancor egli si distinse per le sue Decisioni, che compilò. Ma sopra tutti costoro rilusse a questi tempi il famoso Vincenzo de Franchis, il quale per la sua probità ed eminente dottrina legale, fu dal Re Filippo II nel 1591 creato Consigliere, e poco da poi eletto Reggente nel supremo Consiglio d'Italia, ed indi Presidente del Consiglio di S. Chiara e Viceprotonotario. Le sue cotanto rinomate Decisioni lo resero illustre per tutte le nazioni d'Europa, e non fu suo picciol pregio nell'Escurial di Spagna, nel Tempio di S. Lorenzo, vedersi collocato il suo ritratto tra gli altri degli uomini più illustri e rinomati d'Europa. Bernardino Rota non si dimenticò ne' suoi Epigrammi d'altamente celebrarlo, e dalle fatiche, che sopra le sue decisioni v'impiegarono, non pur i nostri, ma gli esteri, si vide quanto fosse luminosa la sua fama. Morì egli in Napoli a' 3 d'aprile dell'anno 1600, e giace sepolto in S. Domenico Maggiore, dove si vede il suo tumulo con iscrizione.
La copia così abbondante di tanti Professori, e le tante loro opere, che pubblicarono alle stampe, empirono le nostre Biblioteche di infiniti libri. Nè essendo minore il lor numero nelle altre Città d'Italia, si videro crescere in immenso i volumi legali. Le tante compilazioni delle decisioni di vari Tribunali e sopra tutto della Ruota Romana e del nostro Sagro Consiglio. I tanti Trattati, ed i libri delle Quistioni e Controversie: ma quello, che si rese più insopportabile, fu la gran copia de' Consigli ed Allegazioni, dove non già si scrivea per la ricerca della verità, ma, secondo che facevano alla causa, s'empivano di citazioni e di conclusioni generali più tosto per adombrarla. Quindi si rese più laboriosa e difficile la profession legale; poichè non bastando la perizia delle leggi comuni così civili, come canoniche, delle leggi Feudali, delle nostre Costituzioni, Capitoli, Riti e Prammatiche: delle consuetudini e stili di tanti Tribunali sì vari e diversi: a tutto ciò s'aggiunse, non meno a' Professori, che a' Giudici, un'altra obbligazione vie più maggiore e pesante, di dover sapere l'autorità delle cose giudicate, e le opinioni di tanti Interpreti e Scrittori: quali di quelle fossero le più comuni e vere, e le più ricevute nel Foro: quali di quelle antiquate e non ammesse.
E per ciò, che riguarda l'autorità delle cose giudicate, essendo stato ricevuto, che le sentenze de' supremi Senati, ne' Dominj dove sono profferite, ancorchè non siano leggi, abbiano però forza non inferiore a quelle, spezialmente quando siano d'un costante tenore e di continuo profferite uniformi: s'impose perciò obbligazione a' Giudici di doverle seguire, non per forza di legge, ma di consuetudine, particolarmente negli atti ordinatorj de' giudizj. Ed intorno alle opinioni de' Dottori, fu duopo usare maggior diligenza e scrutinio, e si prescrissero molte regole e cautele, delle quali si fece memoria nel fine del XXVIII libro di quest'Istoria, ed il Cardinal di Luca ne trattò pure diffusamente ne' suoi Discorsi.
§ I. Stato dell'Università de' Nostri Studi a questi tempi.
In tale stato ed accrescimento fu veduta in questi tempi la nostra Giurisprudenza nel Foro; ma nell'Accademia non ebbe pari fortuna. Nelle altre Università d'Europa, e particolarmente in quelle di Francia si videro fiorire assai più nelle Cattedre, che ne' Tribunali: in Parigi, in Tolosa, in Bourges, in Caors, in Valenza, in Turino, ed altrove, lo studio delle leggi romane era ridotto nella sua maggior politia e nettezza; l'erudizione, l'istoria (che non devono andar disgiunte per conseguirne i loro veri sensi) non eran in questi tempi cotanto da noi coltivate. Stando noi sotto il governo degli Spagnuoli, a' quali era sospetta ogni erudizione, che veniva di là da' Monti, ed ogni novità, che volesse introdursi nelle Scuole, fece che siccome nell'altre facoltà, così nella Giurisprudenza si calcassero le medesime pedate de' nostri antichi: erano mal sofferti e come Novatori riputati coloro, che si volessero ergere sopra l'usate forme, e trattar di altra maniera, contra l'usato stile, queste materie.
Per ciò nelle Cattedre fu continuato il medesimo istituto d'impiegare i Lettori sopra la Glossa e Bartolo: sopra il sesto volume, e trattare l'altre facoltà alla Scolastica. E quantunque nel governo del Conte di Lemos e del Duca d'Ossuna suo successore l'Accademia Napoletana si fosse veduta in maggior splendore, con tutto ciò, come diremo a suo luogo, non prima degli ultimi anni del precedente secolo, si vide nelle Cattedre fiorire l'erudizione, e trattare le scienze con altro metodo e politia. Con tutto ciò, per quanto comportava la condizione di questi tempi, rilussero pure in quella alcuni Cattedratici, che ora si nominano per le loro opere date alle stampe. Alessandro Turamino è il più rinomato. Questi ancorchè Sanese d'origine, fu Napoletano, ed ebbe nel 1594 nelli nostri Studi la Cattedra primaria vespertina del jus civile, con provvisione di ducati 680 l'anno; e nel 1593 diede alle stampe le sue opere legali. Francesco d'Amicis, di Venafro, che vi spiegò i Feudi, e nel 1595 stampò in Napoli un libro In usibus Feudorum . Annibale di Luca d'Airola, che vi spiegò il primo e terzo libro delle Istituzioni. Antonio Giordano di Venafro Lettore della prima Cattedra vespertina, di cui il Toppi rapporta le onorevoli cariche, che occupò, e l'iscrizione del suo tumulo, che si vede nella Chiesa di S. Severino. Giovanni di Caramanico, Giovanni de Amicis, di Venafro, che stampò un volume dei Consigli; e per tralasciarne altri rapportati dal Toppi nella sua Biblioteca, il famoso Giacomo Gallo, il quale ottenne la Cattedra primaria vespertina del jus civile: celebre per l'opera, che compose, Juris Caesarei Apices, e per li suoi Consigli .
La Teologia, la Morale e lo studio delle cose Ecclesiastiche non erano niente rialzate: si trattavano all'uso delle Scuole; e più ne' Chiostri, tra' Frati, favoriti dagli Spagnuoli, che nell'Università tra Cattedratici, erano esercitate secondo l'antico stile.
La Filosofia e la Medicina furono per rialzarsi, ma vinte dalla colluvie di tanti Professori Scolastici e dai Galenisti, fu duopo cedere all'usanza, e rimanersi come prima negli antichi sistemi e metodi. Erano surti fra noi in questo secolo ingegni preclari, che rompendo il ghiaccio tentarono far crollare l'autorità d'Aristotele e di Galeno, e la Filosofia delle Scuole farla conoscere vana ed inutile. I primi fra noi, come si disse, furono Antonio e Bernardino Telesii Cosentini: Ambrogio di Lione da Nola, Antonio Galateo di Lecce, e Simon Porzio Napoletano, le cui opere (delle quali lunghi cataloghi leggiamo presso il Toppi, ed il Nicodemo) dimostrano, che calcando nuovi sentieri, benchè molto travagliassero per abbattere gli errori comuni delle Scuole, niente però prevalsero, nè poterono soli far argine ad un così ampio, ed impetuoso fiume; quindi il Cavalier Marino, parlando di Bernardino Telesio, disse, che se ben egli si fosse armato contro l'invitto Duce de la Peripatetica bandiera, e non n'avesse riportata vittoria, dovea bastargli d'averlo sol tentato; poichè la gloria e la vittoria vera delle imprese sublimi ed onorate, è l'averle tentate.
Ma nella fine di questo secolo discreditarono questa onorata impresa due Frati Domenicani, li quali non tenendo nè legge, nè misura, ed oltrepassando le giuste mete, siccome maggiormente accreditarono gli errori delle Scuole, così posero in discredito coloro, che volevano allontanarsene. Questi furono i famosi Giordano Bruno da Nola, e Tommaso Campanella di Stilo di Calabria. Giordano Bruno disputò sì bene contra li Peripatetici, e si rese assai celebre per le sue dotte opere, delle quali il Nicodemo fece lungo catalogo: ma essendogli troppo piaciuti gli sogni di Raimondo Lullo, diede ancor egli nelle stranezze. Ma quello, che discreditò l'impresa di deviare da' comuni e triti sentieri, fu d'essersi avanzato ad insegnare la pluralità de' Mondi (donde si crede, che Renato des Cartes avesse appreso il suo sistema), e d'essersi ancora inoltrato in cose assai più gravi e pericolose; imputandosegli avere insegnato, che li soli Ebrei discendessero da Adamo ed Eva: che Mosè fosse stato un grande Impostore e Mago: le Sagre lettere essere un sogno, e molte altre bestemmie, onde fece in Roma nell'anno 1600 quell'infelice fine, che altrove fu da noi narrato.
(Di Giordano Bruno è stata a' nostri tempi data fuori una dissertazione da Carlo Stefano Giordano, impressa nell'anno 1726 col titolo: de Jordano Bruno Nolano Primislaniae Literis Ragoczyanis. Narra i suoi viaggi, e i varj avvenimenti da Nola; dove gli fa lasciar l'abito di Domenicano, e lo fa passar in Genevra. Quivi narra aver trovato Calvino, con cui ebbe gravi contese e brighe; onde di là cacciato, passò a Lione, indi a Tolosa, e da poi a Parigi, ove dimorò per più anni. Da Parigi, passò in Londra, indi in Germania a Wittemberg. Lasciata questa città passò a Praga, indi ad Elmstad, dove dal Duca di Brunswick fu caramente accolto. Da poi passò in Francfort ad Maenum, indi a Venezia. Quivi fu arrestato e condotto prigione in Roma, fu miseramente condennato al fuoco, ed arso. Mostra questo scrittore non aver letto l'Aggiunta del Nicodemo alla Biblioteca Napolitana del Toppi, il quale l'avrebbe somministrati maggiori lumi intorno alla dottrina del Bruno, e più diffuse notizie intorno alle opere che lasciò).
Tommaso Campanella ancor egli si pose ad abbatter li comuni errori delle Scuole, ma non tenne nè modo, nè misura. Scrisse infiniti volumi, ancorchè non tutti furono impressi, de' quali pure il Nicodemo tessè lunghi cataloghi, ne' quali siccome s'ammira una gran vastità d'ingegno e di varia dottrina, così lo dimostrano per un gran imbrogliatore, per un fantastico e di spirito inquieto e torbido. Fu per porre sossopra le Calabrie, ideando libertà e nuove Repubbliche. Pretese riformar Regni e Monarchie, e dar leggi, e fabbricar nuovi sistemi, inviluppandosi in una congiura, nella quale scovertosi, che vi avesse la maggior parte, si discreditò maggiormente; poichè preso, e lungamente detenuto nelle carceri di S. Ermo, fu condennato a starvi perpetuamente. Le tante cose che disse e scrisse, alla fine lo liberarono da quella prigione, e ricoveratosi poi in Parigi, accolto da' Franzesi con molta stima ed onore, finì poi i suoi giorni nella maniera, che accennammo di sopra.
(Di Tommaso Campanella pure a dì nostri fu che volle prendersi cura di tesserne vita, e darci conto dei suoi scritti così di Filosofia, come di Astronomia, di Politica, e di che no? Ernesto Salomon Cipriano nato nella Franconia Orientale nell'anno 1705 fece imprimere in Amsterdam un libricciuolo in ottavo sotto il titolo: Vita et Philosophia Thomae Campanellae: ma passati quindici anni, Giacomo Echardo Monaco Dominicano del Convento dell'Annunziata di Parigi, riputando non avere Ernesto dato al segno, volle egli dar fuori un'altra vita del Campanella, che fece imprimere nel Tomo II. Scriptor Ordinis Praedicator. A. 1721 pag. 505, seqq., dove manifesta, intanto egli aversi presa questa cura, perchè il Cipriano, come e' dice, plura refert, vel non satis firma, vel etiam explodenda; ideo ne in his quis fallatur, ad censuram revocanda visa sunt. Ma il Cipriano non fece passar tanto tempo: che per rintuzzar la costui audacia, fece nell'anno seguente 1722 nuovamente in Amsterdam stampare la Vita di Campanella, con prefazione, dove si purga dalle imputazioni fattegli da Eccardo; ed aggiunge, come per appendice, così i giudicj di varj scrittori intorno alla vita e gli scritti del Campanella, come la vita istessa scritta da Eccardo. Veramente non meritavano gli scritti del Campanella che sopra i medesimi s'impiegassero tanti preclari ingegni per rintracciarne sistema alcuno di Filosofia o di Politica e d'altre scienze, delle quali niuna seppe a fondo, ed apprese con diritto giudicio e discernimento, avendo il capo sempre pieno di varie fantasie, che più tosto lo rendevan fecondo di portentosi delirj le sorprendenti illusioni, che di sodi e ben tirati raziocinj. Meglio di tutti perciò fece l'incomparabile Ugo Grozio; il quale scrivendo a Gerardo Gio. Vossio, nell'Ep. 87 in due parole si sbrigò dandone al medesimo il suo giudicio, dicendogli: legi et Campanellae somnia. A questi due può aggiungersi Giulio Cesare Vanino della Provincia di Otranto, nella sorte uguale al Bruno in vita ed in morte, ed al Campanella nelle stravaganze, illusioni, misterj ed arcani. Nacque egli in Taurisano, terra del Conte Francesco di Castro Duca di Taurisano da Otranto non molto lontana, da Gio. Battista Vanino e Beatrice Lopez de Noguera; a cui fu imposto il nome di Lucilio, che mutò poi in quello di Giulio Cesare. Fu mandato da' parenti a studiare in Napoli, dove fece notabili progressi, frequentando l'Academia degli Oziosi, allora in Napoli celebratissima. Passò poi in Padova ed in altre città d'Italia, nelle quali acquistò l'amicizia di Pietro Pomponazio Mantuano e del Cardano, allora vecchissimi. Nell'Imperio di Rodolfo II passò in Germania, indi a Boemia in Praga; dalla qual città passossene poi in Olanda, ed in Amsterdam per qualche tempo dimorò. Nel 1614, si portò a Parigi. Ritornò poi in Genevra, e si trattenne per qualche tempo anche in Genova ed a Nizza di Savoia. Nel 1616 diede fuori l'ultimo suo libro de Arcanis Naturae; nel quale dice averlo composto mentre appena avea toccato l'età di trenta anni. Ma il suo destino lo portò poi ad infelicissimo fine; poichè non sapendosi contenere nelle brigate di francamente parlare delle strane sue fantasie, compiacendosi d'aver circoli d'auditori avidi di novità, essendo passato in Tolosa, trovò quivi per sua disavventura un uomo non ignobile di Franconia il quale l'andò ad accusare a quel Magistrato per Mago, e disseminatore d'empia e perversa dottrina. Il Parlamento di Tolosa nel mese di novembre dell'anno 1618, avendogli presa tutta la sua suppellettile, scritture e libri, lo fece imprigionare, e fabbricato il processo sopra i delitti de' quali veniva accusato, fu per sentenza del medesimo condennato ad esser con suoi libri bruciato. Fu nel mese di febbraio del nuovo anno 1619 posto sopra un carro, e portato nel luogo del supplicio, non mostrò quella costanza d'animo che prometteva. Quivi giunto gli fu tagliata prima la lingua, da poi fu gettato co' suoi libri nelle fiamme divoratrici, le quali avendolo ridotto in ceneri, furon anche queste sparse nell'aria e portate dal vento. Scrisse ultimamente la di lui Vita Gio. Maurizio Schrammio; il quale nell'istesso tempo che lo porta reo, per le arti magiche che professava, e che gli fa raccontare un miracolo accaduto in Presivi terra vicina a Taurisano, lo riputa per un famoso Ateo nel frontispizio del suo libro, stampato nell'anno 1715 in Custrino con questo titolo: De Vita et scriptis famosi Athei Julii Caesaris Vanini, Custrini, An. 1715, in 8).
La Poesia però, e sopra tutto l'Italiana, si vide in buono stato per li non meno eccellenti, che nobili uomini, che la professarono: si distinsero fra' Nobili Ferrante Caraffa, Alfonso e Costanza d'Avalos, Giangirolamo Acquaviva, Angelo di Costanzo, Bernardino Rota e Dianora Sanseverino, Galeazzo di Tarsia Cosentino. Rilussero ancora Antonio Epicuro, Niccolò Franco di Benevento, Lodovico Paterno Napoletano, Antonio Minturno di Trajetto, il famoso Luigi Tansillo di Nola ed alcuni altri, che non meno in rime, che in versi latini si resero chiari ed illustri. Ma sopra tutti costoro nella fine di questo secolo s'innalzò l'incomparabile Torquato Tasso, di cui tanto si è parlato e scritto, il quale morto in Roma nell'an. 1595 al suo cadere, cadde ancora presso noi la poesia; poichè nel nuovo secolo XVII surti Giambattista Marini, lo Stigliano e Giuseppe Battisti, prese altre strane e mostruose forme, fin che nel declinar del secolo non la restituissero, nell'anno 1678, Pirro Schettini in Cosenza, e nel 1679 Carlo Buragna in Napoli.