CAPITOLO V.

Contese insorte intorno all'Exequatur Regium delle Bolle e rescritti del Papa, ed altre provvisioni, che da Roma vengono nel Regno.

È veramente da notare la provida mano del Signore, come nel Pontificato di Pio V con pari compenso, al soverchio zelo ed arditezza di quel Pontefice abbia voluto contrapporre la vigilanza e fortezza in resisterlo del Duca d'Alcalà, perchè nel nostro Regno fosse eseguito ciò che di sua propria bocca prescrisse di doversi rendere a Cesare ciò ch'è di Cesare ed a Dio, quel ch'è di Dio. La Bolla in Coena Domini come si è veduto, proibiva a' sudditi di pagare i tributi a' Re, se nell'imporli non si fosse prima ottenuta licenza dalla Sede Appostolica; ma il Duca non fece valere la Bolla, e fece pagare come prima le gabelle e le collette legittimamente imposte con decreto ed assenso Regio. Si toglievano per quella a' Principi i diritti più supremi della loro potestà regale, ma non si permise un attentato sì scandaloso, e cotanto a lor pregiudiziale: si proccurava in breve sottoporre interamente l'imperio al Sacerdozio, ma poichè Iddio non mai ciò volle, s'eseguì il suo Divin volere. Ma la Corte di Roma non perciò arrestandosi, e sempre più vigilante ed attenta alle sorprese, cercava togliere a' nostri Re una prerogativa cotanto lor cara, ch'è riputata la pupilla de' loro occhi, e 'l fondamento principale della loro regal giurisdizione: questo è l'Exequatur Regium, che si ricerca nel Regno alle Bolle e Rescritti del Papa, e ad ogni altra provvisione, che viene da Roma, senza il quale non si permette, che si mandino in esecuzione. Il Pontefice Pio V, sopra gli altri suoi predecessori, l'ebbe in tanta abbominazione, che qualificandolo come disautorazione della dignità ed autorità Appostolica, fece ogni sforzo per toglierlo e distruggerlo: vi s'impegnarono poi, seguendo le sue pedate, gli altri Pontefici suoi successori, e non men la Corte di Roma, che i Prelati del Regno con varj modi, tentando ogni via, cercarono abbatterlo. In contrario si rese commendabile la costanza de' nostri Re, che sempre forti resisterono con vigore alle loro intraprese, tanto che ci rimane ora vie più stabile e fermo che mai. Racconteremo per tanto, seguendo il nostro istituto, la sua origine, come fossesi nel Regno mantenuto sotto tutti i Principi che lo ressero, le contese perciò avute colla Corte di Roma, che cercava abbatterlo e particolarmente nel Viceregnato del Duca d'Alcalà, e per quali ragioni, e come in fine restasse sempre fermo e saldo.

Gli Scrittori Ecclesiastici, per appoggiare come meglio possono la pretensione della Corte di Roma, oltre alle generali ragioni rapportate di sopra, che le Bolle e Rescritti del Papa non abbiano bisogno d'accettazione o pubblicazione alcuna fuor di quella che essi fanno in Roma, ne adducono una particolare per questo Reame; e confondendo l'Assenso Regio, che prima i nostri Re davano alle elezioni di tutti i Prelati del Regno, coll'Exequatur Regium, che si dà a tutte le Bolle e Rescritti del Papa, ed a qualunque altra provvisione, che ci viene da Roma, pretendono, che siccome quello per l'investiture, che si cominciarono a dare a' Re della Casa d'Angiò e poi continuate sino al presente, fu tolto, così ancora debba levarsi l'Exequatur. Così il Cardinal Alessandrino, mandato dal Pontefice Pio V suo zio Legato in Madrid al Re Filippo II, fra le altre cose, che espose nel memoriale datogli, diceva querelandosi, che nel Regno di Napoli in moltissimi capi non s'osservava il Concilio Tridentino; ed in infinite maniere s'impediva l'esecuzione delle lettere ed espedizioni Appostoliche: a quali abusi, e particolarmente a quello dell'Exequatur Regio, è obbligata la M. V. per proprio giuramento a rimediare e rimovere, come potrà vedere dalle clausole dell'Investitura di Giulio II in persona di Ferdinando il Cattolico, e di Giulio III in persona della M. V. da lei giurata.

A questo fine gli diedero una origine assai favolosa, dicendo che fosse introdotto nel Regno, e cominciò a praticarsi nelle proviste de' Prelati delle Chiese Cattedrali, solo per sapere, prima che si eseguisse la provista delli Prelati eletti, se fossero nemici e mal affetti del Re, ed acciocchè dentro lo Stato non si ricevesse persona di cui potea aversi sospetto di dover portare in quello macchinazioni, tumulti e rivoluzioni; e ciò s'introdusse quando il Regno era tutto sconvolto per le contese de' Principi pretensori, e quando ogni dì, guerreggiandosi spesso, l'uno cacciava l'altro. Quest'origine appunto gli diede Papa Clemente VIII, in una lettera scritta a' 5 di ottobre del 1596 di sua propria mano al nostro Vicerè Conte di Olivares, per la quale pretendeva farlo togliere dal Regno in que' tempi pacati senza guerre e senza sospetti.

Ma confondere due cose, che sono pur troppo diverse, e che l'una ha principio totalmente dall'altra diverso, dar quella origine all'Exequatur Regium, che nacque ne' Dominj de' Principi Cristiani insieme col Principato e colla loro potestà regia, o è pur troppa simplicità, ovvero sottil malizia.

L'Assenso Regio, che prima si richiedeva in tutte le elezioni de' Prelati del Regno, non nacque principalmente per la cagione di sopra rapportata; ma da un altro principio, cioè d'avere prima avuto i Principi parte nell'elezione di quelli, o sia, come dice Duareno, perchè rappresentando le ragioni del Popolo, il quale al Principato trasferì tutta la sua potestà, siccome prima il Popolo nell'elezione ci avea insieme col Clero gran parte, così fossesi ciò trasferito al Principe: ovvero dall'avere essi da' fondamenti erette le Chiese, o ristorate, o arricchite d'ampj poderi e ricchezze, in maniera, ch'essi si riserbarono questa ragione, anzi s'attribuirono d'investire i Prelati col bastone e coll'anello, non già per la spirilualita della carica, che non si apparteneva a loro, ma per le temporalità, che alle Chiese essi, o loro maggiori aveano donate. Così nel Regno de' Normanni, che furono cotanto liberali e profusi in dotar le Chiese, non vi era elezione senza il lor consenso; così ancora praticossi nel Regno dei Svevi, insino che Carlo I d'Angiò, avendo acquistato il Regno per l'invito e favore del Papa, questi, che riconosceva da lui cotanto beneficio, non ebbe riparo nell'investitura, che gli fece di quello, di contentarsi di non doversi per l'avvenire nell'elezione de' Prelati richiedere il suo assenso: ciò, che però non tolse il Regio Exequatur: nè di non poter rimediare alle provvisioni, che si facevano da Roma, nel caso il provvisto fosse nemico o al Re sospetto, perchè questa ragione dipende da altro principio; anzi Papa Niccolò IV lo dichiarò in una sua Bolla istrumentata a' 28 luglio del 1288 in tempo del Re Carlo II d'Angiò, dicendo che non potevano in modo alcuno essere assunti a dignità Arcivescovile, Vescovile, o altra Dignità o Prelatura del Regno, coloro, che saranno sospetti al Re. Nè parimente tolse le ragioni di presentare o nominare le persone in quelle Chiese, che fondate da' nostri Re, o loro maggiori, ovvero ampiamente dotate, erano di Patronato Regio; onde poi per togliere li continui contrasti, che sopra di ciò insorgevano per le Chiese Cattedrali colla Corte di Roma, nacque tra Clemente VII e l'Imperador Carlo V quel concordato, di cui altrove fu da noi lungamente discorso.

L'Exequatur Regium, che si dà nel Regno, non pure alle proviste, che si fanno in Roma delle Prelature ed altri Beneficj del Regno, ma a tutte le Bolle e rescritti del Papa, anche a' Brevi di giubileo e d'indulgenze, ed a qualsivoglia provvisione, che ci venga da Roma, non dipende da questo principio, nè nacque ne' turbolentissimi tempi di guerra, per sospetto che forse s'avesse del provvisto, d'esser poco amico dei Principi contendenti, quando l'uno spesso cacciava l'altro. La sua origine è più antica, nacque non pur nel Regno di Napoli, ma in tutti i Dominj de' Principi Cristiani col Principato istesso, e s'appartiene ad essi, titulo sui Principatus, ovvero jure Regaliae, come ben pruova Van-Espen dotto Prete e gran Teologo di Lovanio. Nacque per la conservazione dello Stato, e perchè in quello non siano introdotti da straniere parti occasioni di tumulti e disordini; onde fu sempre mai lecito a' Principi, e proprio della loro commendabile vigilanza, capitando ne' loro Regni scritture di fuori, per le quali si pretenda in quelli esercitar giurisdizione o sia spirituale o temporale di riconoscerle prima che quelle si mandino in esecuzione: tanto maggiormente, che la Corte di Roma da molto tempo aveasi arrogata molta autorità, che eccedeva il confine di un potere spirituale, e sovente si metteva a decider punti, che non le appartenevano, e toccavano la potestà temporale de' Principi: onde fu introdotto stile, che se le provvisioni venute di Roma dovranno eseguirsi contra Laici, si abbia a domandar da' Magistrati l'implorazione del braccio, i quali non come semplici esecutori, ma ritrattando l'affare ed esaminandolo, se conoscono essere a dovere, lo fanno col loro braccio eseguire, altrimente niegano l'esecuzione: se la scrittura contenerà il solo affare degli Ecclesiastici, o si tratterà di cose meramente spirituali e di cause Ecclesiastiche, se le dà l'Exequatur dal Re ed in suo nome dal Vicerè, se però conoscerà coll'eseguirsi, niente ridondare in pregiudizio delle sue preminenze e Regalie dello Stato e de' suoi sudditi, nè contrastare agli usi e costumi del paese; ond'è, che per ciò non si pretende di volere avvalorare o disfare ciò, che il Papa ha fatto, quasi ch'egli nelle cause Ecclesiastiche e spirituali abbia bisogno della potestà del Principe Secolare; ma unicamente vien richiesto, perchè il Principe, che deve vigilare e star attento, acciocchè il governo de' suoi Regni non sia perturbato, sappia, che cosa contiene ciò, che da fuori viene nel suo Dominio e Principato, affinchè sotto questo colore o pretesto non s'introduca cosa, che possa nuocere alla quiete e tranquillità del suo Stato ed al governo della Repubblica; e questo è il fine perch'è ricercato, siccome ben a lungo dimostrò Van Espen nel suo trattatoDe Placito Regio ; ciò che ben intesero il Vescovo Covarruvias, Belluga, ed il Cardinal di Luca, il quale scrisse, che a questo fine si praticava nel nostro Regno l'Exequatur Regium.

Quindi deriva, che niuna Bolla, Breve, Rescritto, Decreto o qualunque altra scrittura, che venga a noi da Roma, sia esente da quello: si ricerca eziandio per questo fine alle Bulle dei Giubilei e dell'Indulgenze; anzi, secondo che con più argomenti pruova Van-Espen, può ancora ricercarsi alle Bolle istesse dogmatiche, non già, che s'appartenga al Principe diffinire, o trattare cose di fede; ma perchè le clausole, che si sogliono apporre in quelle, e delle quali, secondo il moderno stile di Roma, soglion esser vestite, il modo, il tempo, le congiunture e l'occasioni di pubblicarsi tali Bolle, devono essere al Principe note e palesi. Forse, se oltre al dogma in quelle diffinito ed alle pene spirituali, si volesse metter anche mano alle temporali: forse, perchè non convenisse per altri motivi rilevanti di Stato, pubblicarsi allora, ma aspettarsi tempo più congruo, e per altri rispetti e cagioni, le quali furono ben a lungo esaminate da quello Scrittore. Quindi vien ricercato ancora il Regio Exequatur a tutti i Decreti, che si fanno in Roma nelle Congregazioni del S. Ufficio, e dell'Indice intorno alla proibizione de' libri, di che altrove fu da noi lungamente ragionato. E quindi deriva ancora, che nell'interposizione, di quello non si proceda per via di cognizione ordinaria, ma per via estragiudiziale e secondo le regole di Stato e di Governo, non già secondo quelle del Foro; onde si vede quanto di ciò poco s'intendano e Casuisti e Canonisti, i quali credendo, che questo esame si abbia a fare con termini forensi, gracchiano per ciò ne' loro volumi, e scrivono, che non possono le Bolle ed i Rescritti del Papa ritenersi, o esaminarsi dai Giudici Laici, perch'essi non han giurisdizione sopra le cause Spirituali ed Ecclesiastiche, trattando questa materia al modo loro, e con termini d'immissione, di giurisdizione e con altre inezie forensi.

Da ciò parimente deriva, che non ogni Tribunale di Giustizia, ancorchè supremo, abbia facoltà di concedere questo Placito Regio. Ma ciò è solo riserbato a' Consigli supremi del Re istituiti per lo Governo, ed a' Consiglieri, che sono al suo lato e che hanno l'economia. Così presso di Noi è del solo Collateral Consiglio, il cui capo è il Vicerè, di concederlo, non già d'altro Tribunale di giustizia, supremo che fosse. E negli altri Dominj de' Principi Cristiani d'Europa, siccome in Ispagna ed in Francia, è solo ciò riserbato a' Consiglj Supremi del Re; siccome in Fiandra al supremo Consiglio di Brabante ed agli altri Supremi Consiglj di quelle province. Per questa cagione furono nel 1551 meritamente dal Vicerè Toledo ripresi il Reggente ed i Giudici della Vicaria, li quali s'avanzavano a concedere tali Placiti, con ammonire ed ordinar loro, che per l'innanzi più non gli spedissero, perchè questa preminenza era del solo Vicerè e suo Collateral Consiglio, non già de' Tribunali di Giustizia.

Nè questa è solamente prerogativa del nostro Regno e de' nostri Re, come altri forse crede: ella è comune a tutti i Principi, i quali ne' loro dominj praticano lo stesso. In Ispagna, come ci testificano Covarruvias, Belluga, e Cevallos, le Bolle e tutte le provvisioni che vengono di Roma, prima di pubblicarsi s'esaminano nel Consiglio Regio, e sovente quando non vogliono eseguirsi, si ritengono; onde Salgado per giustificar questo stile ed inconcussa pratica, compose quel trattato, che per ciò ha il titolo De Retentione Bullarum; e quell'altro. De Supplicatione ad Sanctissimum etc., ed il medesimo praticarsi in Portogallo testifica Agostino Manuel nell'Istoria di Giovanni II.

In Francia e nella Fiandra è cosa notissima, che non si pubblica cosa che venga di Roma, se prima non sia stata quella esaminata per gli Ufficiali del Re; anzi essi non si vagliono di questa, per altro assai modesta e rispettosa parola exequatur (ancorchè pure si fosse preteso di mutarla in Obediatur) ovvero, come si pratica in Milano, di Pareatis, ma di Placet, e quando le provvisioni non piacciono, si ributtano. Lo stesso s'osserva nel Ducato di Brettagna secondo l'Argentreo, e nel Ducato di Savoja, siccome ce ne rende testimonianza Antonio Fabro. In Sicilia si pratica il medesimo, e Mario Catello rapporta lo stile e le formole di quel Regno intorno a ciò. In Italia, siccome in Venezia, lo testifica il P. Servita: nel Ducato di Fiorenza, Angelo, ed in tutte le altre Regioni d'Italia, Antonio d'Amato.

Nel nostro Regno di Napoli non solo sotto i Principi Normanni e Svevi fu inalterabilmente ciò praticato, ma anche sotto i Re medesimi della Casa d'Angiò, ligj de' Romani Pontefici; e coloro eziandio, che nell'investiture si contentarono di spogliarsi dell'Assenso nell'elezioni de' Prelati. Ciò che maggiormente convincerà, non aver niente di comune l'Assenso prima ricercato, col Regio Exequatur sempre ritenuto e non mai interrotto.

angioini.

Carlo II d'Angiò, essendo stato eletto per Vescovo di Melito Manfredi di Gifuni, Canonico di quella Chiesa, non volle a verun patto alle di lui Bolle dare il suo beneplacito; gl'impedì il possesso, perchè egli era sospetto d'infedeltà, e la carta del Re data a Napoli l'anno 1299 vien rapportata dall'Ughello. Gli altri Principi di questa Casa, quando all'incontro conoscevano niente esservi d'ostacolo, lo davano; anzi presentate ad essi le Bolle e' Brevi, o altre provvisioni provenienti da Roma, non solo lo concedevano, ma vi prestavano anche il lor favore ed ajuto, perchè tosto s'eseguissero.

Carlo Duca di Calabria primogenito e Vicario Generale del Re Roberto, all'Arcivescovo di Siponto, che gli avea presentate alcune lettere Appostoliche di Papa Giovanni XXII spedite per una causa pendente in Roma sopra l'unione del monastero di S. Giovanni in Lamis della Diocesi di Siponto col monastero di Casanova della Diocesi di Penna, non solo alle medesime concedè il suo beneplacito, ma a primo agosto del 1321 scrisse a' Giustizieri ed altri Ufficiali della provincia di Capitanata, che prontamente le facessero eseguire.

Il Re Carlo III, avendo Urbano VI conferito a Fra Girolamo di Pontedattilo la Badia di S. Filippo di Gerito della Diocesi di Reggio, fece lo stesso, e scrisse a' 18 novemb. del 1382 a' Capitani di quella città, che gli prestassero ogni favore ed assistenza circa la possessione che dovea prendere della Badia.

Il Re Ladislao, essendo stato un tal Fra Elia creato da Bonifacio IX Archimandrita del Monastero di S. Adriano della Diocesi di Rossano, volle prima informarsi de' suoi costumi, e trovatolo di sufficienza diè l'Exequatur alla Bolla, ed ordinò a' 6 gennajo del 1403 a' suoi ufficiali in Calabria, che lo favorissero a pigliar la possessione, siccome quest'istesso Re, particolarmente in tempo dello Scisma, ne impedì ad altri il possesso.

La Regina Giovanna II, avendo il Papa conferito a Cicco Guassarano la Badia di S. Maria di Molocco nella Diocesi di Reggio, avendo questi presentate nella sua Reginal Corte le Bolle originali speditegli dal Papa, che furon vedute e lette, diede il suo assenso, ed ordinò a' 20 aprile del 1419 a' suoi ufficiali di Calabria, che le facessero dar esecuzione.

aragonesi.

Non meno che in tempo degli Angioini, fu ciò praticato co' Re Aragonesi. Re Alfonso I espose ad Eugenio IV, da poi ch'ebbe dal medesimo ricevuta l'investitura colle solite clausole, che nel Regno v'era consuetudine di non riceversi i Prelati provvisti da Roma senza il suo beneplacito; ed il Papa non v'ebbe difficoltà alcuna, che per l'avvenire potesse valersi di questa prerogativa. Per ciò, essendo stato nel 1451 provveduto il Vescovado di Marturano in Calabria, il Re Alfonso diede al provvisto l'Exequatur, come dal suo diploma, rapportato dall'Ughello. Il medesimo Re, avendo Papa Calisto III conferita la Badia di S. Pietro in Pariete fuori le mura del Castello di Cilenza dell'Ordine di S. Benedetto della Diocesi di Vulturara a Fr. Baldassare di Montauro, monaco del Monastero di S. Pietro della Canonica fuori le mura d'Amalfi dell'Ordine Cisterciense, diede l'Exequatur alle Bolle, che gli furono da costui presentate, ed ordinò a 29 luglio del 1457 al Conte di Termuto che si eseguissero. Lo stesso fece alla concessione, che il Gran Maestro di Rodi dell'Ordine Gerosolimitano avea fatta a Filippo Ruffo di Calabria, figliuol naturale di Carlo Ruffo Conte di Sinopoli, del Priorato e Governo della Chiesa di S. Eufemia di detto Ordine, situata nella Provincia di Calabria, dandogli l'Exequatur, ed ordinando a' suoi ufficiali che l'assistessero nel pigliar il possesso, ed alla percezione de' frutti.

Morto il Re Alfonso, e succeduto nel Regno Ferdinando I suo figliuolo, questi, nel Pontificato di Sisto IV, seguitando le medesime pedate de' Re suoi predecessori, non ebbe chi tal prerogativa gli contrastasse; anzi nel 1473 ne stabilì Prammatica, al cui esempio il Duca d'Alcalà ne promulgò poi un'altra nel 1561, della quale si dirà più innanzi; egli per ciò alle Bolle, ed altre provvisioni, che venivano da Roma, quando non poteva considerarsi inconveniente, dava l'Exequatur, ed avendo il Pontefice suddetto conferito il Vescovado di Capaccio a Lodovico Fonellet Arcivescovo di Damasco per Bolle Appostoliche dei 20 marzo 1476, presentategli le Bolle, assenti, ed a' 13 maggio del medesimo anno scrisse al Capitano di Capaccio ed a' suoi Ufficiali, che l'eseguissero.

Assunto che fu poi al Pontificato Innocenzio VIII, portando la condizione di que' tempi, che la corruzione in Roma arrivasse insino all'ultima estremità, si vide non meno in lui (ma più ne' Pontefici, che gli successero) una ambizione così sregolata, che niente altro si studiava, che per ogni via rendersi assoluti Monarchi sopra i Principi della Terra; cominciò a dispiacer loro quest'Exequatur, ovvero Placet, che praticavasi in tutti i Dominj de' Principi Cristiani di Europa.

Innocenzio VIII adunque fu il primo, che per mezzo d'una sua Costituzione cercò toglierlo a tutti, e tentò la prima volta contrastarlo al nostro Re Ferdinando: ma siccome la sua Bolla non ebbe alcun seguito, e fu riputata inutile e vana negli altri Regni, così ancora nel nostro: si continuò per tanto l'Exequatur, e Ferdinando istesso, avendo il medesimo Pontefice conferito il Vescovado di Sessa ad un tal Fr. Ajossa Napoletano, non si fece eseguir la Bolla, se non presentata a lui, il quale, a' 3 aprile del 1487 concedè l'Exequatur .

Succeduto, ad Innocenzio Alessandro VI Pontefice dotato di tante belle doti e virtù, quante il Mondo sa; costui per le cagioni rapportate nel lib. 29 di questa Istoria, essendo molto avverso al nostro buon Re Federico, fra l'altre cose gli contrastò l'Exequatur con maggiore ostinazione e vigore; e vedendo che tutti i suoi sforzi gli riuscivan vani, lo portò tanto innanzi la sua stizza, che non ebbe punto di difficoltà nel 1500 a' 25 giugno di deporlo dal Regno, e fra l'altre colpe che gl'imputava, per le quali veniva a dare tal passo, era questa ancora, ohe aveva in più modi impedite le provvisioni Appostoliche, eziandio quelle fatte in favore de' Cardinali, e voleva che le Bolle di Roma non si mandassero in effetto, senza il Regio Exequatur . Ma altronde, che dalla collera di Alessandro e dalla sua vana deposizione vennero le disgrazie a questo infelice Principe, il quale in tutto il tempo che proseguì a regnare fra noi, non soffrì, che le Bolle si ricevessero senza l'Exequatur: anzi ora vie più forte che mai, a' 3 di luglio del medesimo anno 1500, scrisse una molto grave lettera al Vescovo di Carinola, dicendogli, che in tempo de' Re suoi progenitori e massime del Re Ferdinando suo padre, era stato da antichissimo tempo e continuamente osservato nel Regno, che niuna provvisione venuta da Roma, o da altro luogo straniero, era stata ammessa, letta, nè pubblicala senza licenza del Re: e così ancora erasi osservato da' successori di Ferdinando dopo la sua morte, e che tutto ciò erasi da' predecessori Pontefici sopportato; ma che presentemente scorgendosi, che alcuni, per la revoluzione de' tempi, sogliono scusarsi non avere di ciò notizia, perciò avea egli voluto farlo intendere a tutti i suoi sudditi, con incaricar loro, che niuna Bolla, Breve o Scomunica e qualsivoglia altra sorta di provvisioni, che venga da fuori del Regno, si debba leggere, ammettere e pubblicare per persona del Mondo, senza sue lettere esecutoriali, osservando detta antica consuetudine, e non faccia il contrario se ama la sua grazia. In esecuzione del quale stabilimento, avendo inteso, che al Maestrodatti del Vicario Capuano era stata presentata inibitoria di Roma senza Exequatur; scrisse a' 3 dicembre del medesimo anno 1500 al Capitano di Capua, che proccurasse aver nelle mani detta inibitoria, e la mandasse a lui, per provedere a ciò che stimerà necessario.

Ma in niun tempo fu ciò con maggior rigore fatto osservare, quanto nel Regno di Ferdinando il Cattolico, e negli anni che fu il Regno governato dal Gran Capitano, e dopo la sua partita, da' Vicerè suoi successori.

In tempo del Gran Capitano leggonsi presso il Chioccarello molti ordini da lui dati, affinchè non si desse la possessione a' Vescovi ed Abati senza Exequatur; e di vantaggio si è proceduto al sequestro delle rendite, nel caso si fosse presa senza di quello, e questo medesimo fu praticato ancora nelle Badie concedute a' Cardinali, i quali nè tampoco ne sono in ciò esenti, e per ciò non ebbero ripugnanza di cercarla, siccome fece il Cardinal d'Aragona per la Badia di S. Maria dello Mito posta in Provincia di Terra d'Otranto, concedutagli da Papa Giulio II nel 1505. Così ancora quando dal detto Papa, per resignazione fattane dal Cardinal Oliviero Caraffa Arcivescovo di Napoli, fu dato il Vescovado di Chieti a Gianpietro Caraffa, poi Cardinale e Papa, detto Paolo IV, fu la Bolla spedita a' 30 luglio del detto anno 1505 presentata al Gran Capitano, il quale a' 22 settembre del medesimo anno, vi diede l'Exequatur.

Parimente procedè il Gran Capitano con gran rigore contra coloro, i quali ardivano di servirsi di qualunque scrittura, anche di scomunica, o interdetto, venuta di Roma senza il Placito Regio. Così avendo con grandissimo rincrescimento inteso, ch'erano state poste nella porta della Chiesa Metropolitana di Cosenza alcune scomuniche, o interdetti contra Suor Arcangela Ferraro Monaca dell'Ordine di S. Bernardo, senza essersi ottenuto prima Regio Exequatur, scrisse a' 23 dicembre del detto anno 1505 una molto grave lettera al Governadore di Calabria, ordinandogli che ne prendesse informazione, e trovando le suddette censure essere state affisse da persona laicale, la castighi severamente, ed esemplarmente: se poste da persona Ecclesiastica ne gli dia avviso, acciò che possa procedere a quello sarà di dovere. E non pure nelle provvisioni di beneficj, o censure venute da Roma, ma anche di commessioni venute dalla Sede Appostolica vi si cercava il Placito Regio. Così avendo il Papa mandata commessione a D. Nicolò Panico Commessario Appostolico, che insieme col Vescovo di Melito avea da far inquisizione e castigare alcuni Preti delinquenti della Chiesa di Melito, fu detta Commessione presentata al G. Capitano, il quale a' 20 giugno del seguente anno 1506 vi diede il Regio Exequatur.

Partito che fu Consalvo da Napoli per Ispagna col Re Ferdinando il Cattolico, il Re lasciò in suo luogo il Conte di Ripacorsa Castellano d'Emposta, Aragonese e glie ne spedì commessione nel Castel Nuovo sotto li 5 giugno del 1507, nella quale lo chiama suo nipote. Rimasero parimente in Napoli la Regina Giovanna vedova del Re Ferdinando I d'Aragona, sorella di Ferdinando il Cattolico; l'altra Regina Giovanna la giovane, che fu moglie del Re Ferdinando II, Beatrice Regina d'Ungheria, figliuola del Re Ferdinando I, ed Isabella Duchessa di Milano, figliuola del Re Alfonso II, la quale, per la morte del Duca Giovanni Galeazzo suo marito, succeduta nel tempo che passò in Italia il Re di Francia Carlo VIII, fu scacciata da quel Ducato da Lodovico il Moro. Ferdinando il Cattolico vietò che a questo Principe si desse la minima molestia intorno alla possessione delle Città e Terre che possedevano, assignate loro in tempo de' Re Aragonesi per loro doti ed appannaggi, e confermate nel trattato di pace, che Ferdinando conchiuse col Re di Francia, quando si divisero il Regno, nel quale fra gli altri patti si legge, che queste Regine dovessero durante la loro vita, tenere e quietamente possedere tutti i Dominj, Terre e rendite che per cagione di dette loro doti possedevano nel Regno così in Napoli, Terra di Lavoro, ed Apruzzi, (metà assegnata al Re di Francia) come ne' Ducati di Calabria e di Puglia, altra metà appartenente al Re Ferdinando. In esecuzione di che Ferdinando trattò sempre la Regina Giovanna vedova del Re Ferdinando I sua sorella con sommo rispetto, e la mantenne nella possessione de' suoi Stati con tutte le preminenze regali, che vi esercitava, come se di quelli fosse libera ed indipendente Signora.

Possedeva questa Regina la città di Lucera di Puglia, ovvero de' Saraceni, la città di Nocera detta dei Pagani, la città di Sorrento, la città della Cava, e, come Principessa di Sulmona, la città di Sulmona, colle loro appartenenze. Il nuovo Vicerè Conte di Ripacorsa rispettava questa Regina come Padrona, nè si impacciava nel governo di quelle città dove ella esercitava assoluto ed indipendente imperio. Osserviamo per ciò in questi tempi, spediti alle scritture provenienti da Roma, più Regii Placiti, non meno dal Conte di Ripacorsa nel Regno, che dalla Regina Giovanna nelle sopraddette città a lei appartenenti. Tutti con più chiarezza dimostranti l'inconcussa pratica di tal requisito, e reputato allora grave eccesso e delitto il trascurarsi.

Ma niun più chiaro documento conferma questo rigore, quanto una lettera, che il Re Ferdinando il Cattolico scrisse a' 22 di maggio dell'anno 1508 a questo Vicerè piena di minacce e molto terribile, per aver il Conte, forse a riguardo della Regina Giovanna, rilasciato alquanto il rigore in una occasione, che saremo a riferire. Essendo insorta una controversia nella città della Cava, nella quale la Regina come città sua vi avea parte, avea il Papa mandato un Corriere Appostolico con un Breve, il quale ebbe ardimento di valersene senza il Placito Regio, e di notificarlo allo stesso Vicerè; ciò che partorì gravi disordini. Il Conte di Ripacorsa con sue lettere ne avvisò Ferdinando, il quale risedeva allora a Burgos. Rispose il Re con tal risentimento e tanta alterazione, che fra l'altre cose gli scrisse, che egli era rimaso molto mal contento di lui, che non avea in affare cotanto grave proceduto con quel rigore, che meritava, con aver permesso un pregiudizio di tanta importanza contra la sua dignità Regale e sue preminenze, e come abbia potuto soffrire quell'atto del Corriero Appostolico, senza farlo tosto impiccare: che questo era un attentato contra il diritto, e che non vi era memoria, che contra un Re, o Vicerè di questo suo Reame, si fosse altre volte ardito tanto, ch'egli voleva far valere questa sua ragione nel Regno di Napoli, siccome nelli Regni di Spagna, e siccome praticavasi ancora in quelli di Francia; che questi attentati del Papa, siccome l'esperienza ha fatto conoscere, non eran ad altro drizzati, che ad augumentare la sua giurisdizione; onde aveano fortemente scritto al suo Ambasciadore residente in Roma, affinchè portasse al Papa le sue querele, con dimostrazioni forti, poich'egli era risoluto, se non rivocava il Breve, e si cassassero tutti gli atti, ch'erano seguiti, di sottrarre dalla sua ubbidienza tutti i Reami della Corona di Castiglia e d'Aragona: facesse avvertita bene la Regina di questa sua fermezza e proposito, ed egli invigilasse, che nel Regno non entrasse Bolla, Breve o altra scrittura Appostolica contenente interdetti o altra provvisione toccante quell'affare direttamente o indirettamente, nè permetta, che qualsivoglia altre scritture di tal natura siano quivi rappresentate, o pubblicate.

Questa lettera del Re, ancorchè non rapportata dal Chioccarello, fu tutta intera impressa nel suo idioma Spagnuolo dall'autore del Trattato de Jure Belgarum circa Bullar. receptionem ; e viene ancora rapportata in idioma franzese da Van-Espen nel suo Trattato De Placito Regio nell'Appendice, dove allega questa pratica del nostro Regno per inconcussa e non mai interrotta.

Il Conte di Ripacorsa, atterrito da questo risentimento del Re, non tralasciò in tutto il tempo del suo governo invigilare più di quello, che avea fatto per lo passato, che non si ricevesse scrittura alcuna di Roma senza il Placito Regio, e di punire i trasgressori, siccome avea già fatto nell'occasione del possesso dato senza Exequatur d'una Rettoria, con farne carcerare molti, e ad un Prete, che per la stessa cagione era parimente stato carcerato, obbligollo a dar malleveria di presentarsi, e così lo fece rilasciare.

Parimente essendo stato avvisato, che s'era presentata nella Corte di Cività Ducale un'inibitoria del Papa, onde il Giudice non voleva in quella causa procedere, scrisse egli a' 7 aprile di questo medesimo anno 1508 al Governadore di quella Terra, che restava di ciò molto maravigliato, perchè dovea sapere, che in questo Regno tutte le provvisioni Appostoliche non si possono presentare senza Exequatur: ed essendo stata presentata quell'inibitoria senza tal atto non ne dovea fare alcuna stima, e per ciò gli ordinava, che dovesse in quella causa procedere, non ostante detta inibitoria, e che questo praticasse nell'avvenire, quando occorrerà, in simiglianti casi. Ed a' 30 giugno del medesimo anno diede ordine all'Arcivescovo di Nazaret RegioCappellan Maggiore di non dar licenza, senza cognizione di causa, di far citare per Roma i Possessori dei beneficj, e senza che egli ne stia inteso. E nel seguente anno 1509 fece condur prigione con buona custodia in Napoli un tal D. Felice, della Diocesi di Nola, per essersi servito di certe provvisioni di Roma senza il dovuto Exequatur Regium .

Non meno che il Conte di Ripacorsa, la Regina Giovanna d'Aragona serbò questo istituto nelle Città del suo Dominio. Come padrona di Lucera de' Saraceni, a primo giugno del 1510 concedè il suo Regio Exequatur ad un ordine venuto di Roma contra il Patriarca d'Antiochia, Vescovo di quella Città. Come Principessa di Sulmona a' 8 maggio del 1512, concedè il suo Placito Regio a Prospero de Rusticis per lo Vescovado della Città di Sulmona conferitogli da Papa Giulio II con Bolle Appostoliche de' 30 aprile del 1512. Come Signora della città di Nocera de' Pagani, a 30 giugno del medesimo anno concedè Exequatur a Domenico de Jacobaccio per lo Vescovado di detta città, conferito dal medesimo Pontefice; siccome a' 12 febbrajo del 1515, lo concedè a D. Pietro Jacopo Veneto di Napoli per la Chiesa Parrocchiale di S. Matteo di Ancipontico di detta città di Nocera conferitagli dal Papa. Come padrona della città di Sorrento lo concedè a 8 ottobre del 1514, al Reverendo Messere Alberto fratello del Cardinal di Sorrento per l'Arcivescovado di Sorrento, che il Papa glie lo avea conferito per resignazione fattagli dal detto Cardinal suo fratello. E finalmente, come Signora della Cava concedè l'Exequatur ad una Bolla del Pontefice Lione X il qual Pontefice, ancorchè avesse promulgata una terribile Costituzione contra gl'Imperadori, Re ed altri Principi, che pretendevano doversi ricercar il loro Placito o sia Exequatur alle provvisioni di Roma; non fu però quella accettata da niun Principe, ma rimase vana ed inutile e senza effetto veruno.

austriaci.

Nel principio del Regno di Carlo V fu da' suoi Luogotenenti, mandati da lui a governar questo Regno, costantemente serbato questo medesimo istituto. Il Vicerè D. Carlo di Lanoja concedè l'Exequatur alle Bolle spedite da Adriano VI a Gianpietro Caraffa Vescovo di Chieti, per l'Arcivescovato di Brindisi. Ed il Vicerè Conte di S. Severina scrisse al Capitano della città dell'Aquila, che compliva al servizio di S. M. che il Cardinal di Siena non pigliasse possessione di quella Chiesa, senza espresso suo ordine, e che debbia stare in questo con grandissima avvertenza, dandogli di tutto ragguaglio, in modo che la possessione non si abbia a dare a persona alcuna, senza espresso ordine d'esso Vicerè.

Questo costume, senza minima contraddizione, serbossi inviolabilmente nel Regno di Carlo V infino che assunto al Papato Clemente VII non venisse a costui in pensiero di usar ogni sforzo per toglierlo. Seguitando le pedate de' suoi predecessori promulgò una Costituzione, a quella di Papa Lione X consimile, nel dì primo gennajo dell'anno 1533 ed acciocchè venisse ubbidita nei Regno di Napoli, fece scrivere all'Imperadore da Antonio Montalto Promotor Fiscale del Regno di Sicilia, che facesse abolire in Napoli l'Exequatur Regium, come dalle sue lettere in data de' 20 dicembre 1533, dove si legge; Ricerca ancora Sua Santità da Vostra Maestà, che levi dal Regno di Napoli quella servitù del Regio Exequatur, imposto alle lettere Appostoliche, siccome Vostra Maestà è obbligato di levarla per le condizioni dell'investitura, che ha di quel Regno, e del giuramento prestato in essa etc..

Ma non meno l'Imperadore, che D. Pietro di Toledo, che si trovava allora Vicerè nel Regno, non vi diedero orecchio, e seguitossi come prima il medesimo istituto; anzi il Toledo, perchè fosse a tutti nota la costanza del suo Principe, a' 3 aprile del 1540, scrisse una lettera Regia a tutti i Governadori delle province del Regno, nel quale ricordava loro quest'antico costume del Regno, che qualunque provvisione, che veniva da fuori, non si potesse eseguire senza sua saputa, e licenza: che per ciò gli ordinava, che così dovessero eseguire e far osservare nelle loro province: e se si facesse il contrario, ne pigliassero informazione, e subito glie la mandassero; e contra i Notari e Laici procedessero alla loro carcerazione: e se fossero Cherici si facci ordine, che vengano fra certo tempo a Napoli ad informare il Vicerè, acciò si possa per esso procedere, come conviene.

Ed il Vicerè Francesco Pacecco a' 16 giugno del 1557, scrisse parimente al Governadore di Benevento ordinandogli, che non facesse pubblicare in detta città provvisione alcuna venuta da Roma senza licenza d'esso Vicerè in scriptis col Regio Exequatur . Così furono repressi i pensieri di Clemente VII, nè sino al Pontificato di Pio V si tentò altro dalla Corte di Roma.

Ma sopra tutti questi Pontefici, niuno più ardentemente combattè questo Exequatur, quanto Pio V, il quale voleva, che in tutti i modi si abolisse nel Regno; ed avendo l'Ambasciador del Re Filippo II in Roma voluto da ciò ritrarlo, egli rispose, secondo che rapporta Girolamo Catena, il preteso Exequatur Regio, o alcuna licenza de' Secolari, non aver luogo nell'esecuzione di alcun ordine Ecclesiastico. Ciò essere chiaramente decretato da' Sacri Canoni e Concilj, e non dissimile dalla predicazione della parola di Dio, della quale chiedere alcuna licenza a' Secolari, intollerabil cosa sarebbe, etc. E conchiuse non intendere sì gravi abusi in disonor di Dio e della Santa Sede tollerare. Che gli Ufficj erano distinti; e però i Principi conservassero il loro, e lasciassero alla Chiesa quel ch'è di Dio, replicando spesso quelle parole; Reddite quae sunt Caesaris, etc.

Al Cardinal Alessandrino suo nipote, figliuolo di sua sorella, che mandò a Madrid, fra le altre istruzioni dategli, fu questa, e le dimande, che costui fece al Re Filippo II furono: Col quale abuso furono accumulati quelli di Napoli, ove in moltissimi capi non si osserva il Concilio Tridentino, ed in infinite maniere s'impedisce l'esecuzione delle lettere, ed espedizioni Appostoliche, a quali abusi, e particolarmente a quello dell'Exequatur Regio, è obbligata la Maestà Vostra per proprio giuramento a rimediare e rimovere, come potrà vedere dalle clausole dell'investitura di Giulio II in persona di Ferdinando il Cattolico, e di Giulio III in persona della Maestà Vostra da lei giurata .

Il Duca d'Alcalà nostro Vicerè, che il buon destino lo portò al governo di Napoli in questi tempi appunto, ove vi era maggior bisogno della sua fortezza e vigore per resistere a' sforzi del Pontefice Pio, per combatterlo alla prima, non si contentò di seguitare lo stile degli altri Vicerè suoi predecessori; ma imitando il Re Ferdinando ed il costume degli altri Reami, dove i Principi con perpetue e perenni leggi ed editti, aveano ciò stabilito ne' loro Stati per via di legge scritta, così volle far egli ancora nel Regno di Napoli.

In Francia è pur troppo noto, che vi sono molti editti de' loro Re, come di Lodovico XI del 1475, e di molti altri suoi successori, che possono vedersi ne' volumi delle Pruove delle libertà della Chiesa Gallicana. Parimente nelle province della Fiandra se ne leggono moltissimi di Filippo il Buono Duca del Brabante del 1447, degli Arciduchi Massimiliano e Filippo del 1485 e 1495, e di altri rapportati da Van-Espen. E così nella Spagna ancora, secondo ci testifica Salgado, da cui il nostro Vicerè Duca d'Alcalà prese l'esempio.

Perciò egli a' 30 agosto del 1561 fece promulgare Prammatica, colla quale ordinò, che non si pubblicassero Rescritti, Brevi ed altre provvisioni Appostoliche senza Regio Exequatur e licenza sua in scriptis obtenta, a fine che quelli, che usassero tale temerità, si possano castigare; e se si pubblicasse alcuno di detti Rescritti, Brevi, o altre provvisioni Appostoliche senza sua licenza e consueto Regio exequatur, se ne pigli diligente informazione, e subito se gl'invii, acciò si possa procedere a severo castigo contra coloro, che presumeranno d'usare tal temerità.

Questa Prammatica la vediamo oggi il giorno impressa nelle volgari edizioni sotto il titolo De Citationibus , la quale fu sottoscritta anche da' famosi Reggenti Villano e Revertera; e si legge parimente nel 4 volume de' M. S. Giur. del Chioccarello, fu anche impressa nell'antiche, e viene allegata da molti Scrittori. Nella Consulta che fece il Consiglio del Brabante nell'anno 1652 all'Arciduca Leopoldo, che vien rapportata da Van-Espen nell'Appendice, si cita questa Prammatica del Duca d'Alcalà con queste parole: Quant au Royaume de Naples, il y a Ordonnance expresse in Pragmatica Regni Neapolitani, tit. De Collation. prag. 6 (volendo dire De Citationib. prag. 5). Viene anche allegata da Van-Espen e de' nostri Italiani lungo catalogo ne tessè il Reggente Rovito ne' suoi Commentarj.

In esecuzione di questa legge furono da poi da lui dati varj ordinamenti, perchè esattamente s'osservasse. Nel 1566 scrisse una lettera a tutti gli Arcivescovi del Regno, anche a quello di Benevento, coll'occasione d'una Bolla fatta trasmettere dal Papa nel Regno, con seriamente esortarli, che sapendo, che simili Bolle, o altre provvisioni di Roma non possono essere pubblicate ed eseguite senza il Placito Regio, avvertissero molto bene a non farla in modo alcuno pubblicare, e che a tal fine ordinassero a' Vescovi loro suffraganei ed altri Prelati, che facessero il medesimo. E ne' seguenti anni, particolarmente nel 1568, castigò con carceri e più severamente coloro, che trasgredendo la legge, ardivano valersi di scritture di Roma senza Exequatur.

Dall'altro canto il Pontefice Pio gridava ad alta voce col Commendator Maggiore di Castiglia, Ambasciador del Re Filippo II in Roma: che questi erano gravi abusi in disonor di Dio e della Santa Sede, e ch'egli non poteva tollerarli; siccome in fatti dal Cardinal Alessandrino suo nipote nell'istesso anno 1568 fece scrivere in suo nome una lettera a tutti i Vescovi e Prelati del Regno, nella quale diceva loro che la mente di Sua Santità era, che le Bolle ed altri rescritti, che erano da lui mandati nel Regno, avvertissero a non sottoporli ad alcuno Exequatur Regium, ma che prontamente li eseguissero. Ma il Duca d'Alcalà, avvisato di tutto ciò dal Commendator Maggiore, il quale gli mandò copia di questa lettera, proseguì costantemente il medesimo tenore, e fattane di tutto ciò Consulta al Re, egli intanto invigilava con sommo rigore, che non fosse ricevuta o pubblicata in Regno scrittura alcuna senza prima presentarsegli, e senza che, prima esaminata, non fosse a quella dato l'Exequatur.

Ed è notabile insieme e commendabile la sua vigilanza, che insino a' Giubilei, che venivano da Roma era da' Nunzi richiesto il Regio Exequatur; ond'è, che a' 14 e 15 decembre del medesimo anno mandò lettere circolari a tutti i Governadori delle province del Regno ed altri Capitani d'alcune città principali, facendoli consapevoli, come il Nunzio di sua Santità residente in Napoli gli avea presentato memoriale, dimandandogli il Regio Exequatur ad un Giubileo mandato dal Papa nel Regno, acciò che lo potesse pubblicare, e che da lui gli era stato conceduto; per ciò ordinava, che con tal notizia permettessero per le città e luoghi delle dette province la pubblicazione di quello.

La Corte di Roma, usando delle solite arti, vedendo che gli ufficj e minacce col Duca d'Alcalà erano senz'alcun frutto, tentò la via della Corte di Spagna: onde diede incombenza al Nunzio residente in Madrid presso la persona del Re Filippo, che proccurasse a drittura col Re far argine al rigore del Duca, mandandogli tre Brevi intorno alla riforma de' Frati Conventuali di San Francesco, che intendeva far pubblicare nel Regno, affinchè non ne fosse dal Duca impedita l'esecuzione. Ma il Re Filippo scrisse sì bene al Duca, che il suo desiderio era, che s'adempisse a quanto si conteneva in quelli Brevi; ma nell'istesso tempo, con ammonimento scritto di sua propria mano in una postdata, gl'insinuò, che facesse eseguire i Brevi colla solita forma dell'Exequatur .

Si tentò parimente dal Nunzio in Ispagna doversi togliere quest'uso in Napoli, così perchè erano cessate le cagioni, perchè prima ne' tempi turbolenti di guerra, quando l'un pretensore cacciava l'altro, era forse necessario, come anche perchè presentemente non serviva per altro, se non per estorquer denari nell'interposizione di quello. Il Re nel seguente anno 1569 ne diede al Duca per sua lettera di tutto ciò ragguaglio, dimandando da lui esserne informato, con avvisargli quanti denari si esigono per la spedizione di quello ed a chi toccano, affine di potersi trovar modo, che si spedissero gratis, e con ciò serrargli totalmente la bocca. Il Duca d'Alcalà, con sua Consulta fece accorto il Re di quanto era stato sinistramente informato dal Nunzio: che questo Exequatur era la maggior prerogativa e preminenza, che tenevano i Re in questo Regno: che per costume antichissimo, avvalorato anche per Prammatica fatta dal Re Ferdinando I nel 1473, era stato in tutti i tempi osservato che non s'estorquon denari per la spedizione di quello, ma alcuni pochi diritti, de' quali (per sua istituzione) ed a chi si pagassero ne gli mandava per ciò notamento particolare e distinto: anzi, per togliergli ogni pretesto, ordinò, che gli diritti, che spettavano al Cappellan Maggiore, suo Consultore e Maestrodatti non si esigessero dalle Parti, ma che si ponessero a conto della Regia Corte per la vita di quelli, che tenevano questi Uffici, e di vantaggio diede provvidenza, che il tutto si spedisse tosto e senz'alcuna dilazione e tedio delle Parti.

Al Duca d''Alcalà finalmente noi dobbiamo, che l'animo del Re Filippo II già dubbio e vacillante per le continue istigazioni e sinistri informi del Nunzio del Papa residente in Madrid, si rassodasse e stesse fermo e costante, e finalmente ributtasse pretensione cotanto fastidiosa ed insolente. Il Duca non tralasciava con sue Consulte spesso avvertirlo, che non cedesse a questo punto, ch'era il fondamento della sua regal giurisdizione e la maggior prerogativa, ch'egli tenesse in questo Regno, per la qual cosa il Re ebbe da poi sempre questa avvertenza, quando vedeva drizzati a lui questi ricorsi insino a Spagna, di mettersi in sospetto, e di non risolvere cos'alcuna, ma rimetter l'affare al Vicerè di Napoli e suo Collateral Consiglio.

Si vide ciò nella promulgazione della Bolla De Censibus, stabilita in quest'anno dal Pontefice Pio V, dove regolava a suo talento questo contratto, e pre tendeva che dovesse quella osservarsi, non meno nello Stato della Chiesa Romana, che in tutti i Dominj dei Principi Cristiani. Non istimò la Corte di Roma tentar questo a dirittura col Duca d'Alcalà, ma fece dall'Arcivescovo di Napoli mandar al Re a dirittura la Bolla, dimandandogli, che la facesse eseguir ciecamente nel Regno. Ma il Re sospettando quel ch'era, e riputando l'affare di molta importanza, non volle risolver da se cos'alcuna; onde a' 3 marzo del 1569, scrisse una lettera drizzandola al Duca Vicerè, al suo Collaterale ed al Presidente del S. C, nella quale dava loro notizia della dimanda fattagli dall'Arcivescovo, e che riputando egli l'affare degno di matura riflessione e di molta importanza, voleva per ciò, che esaminassero e discutessero questa Bolla, nella discussione della quale intervenissero non solo i Reggenti della Cancelleria, ma anche Giannandrea de Curtis, Antonio Orefice e Tommaso Altomare allora Regj Consiglieri; affinchè, quella esaminata, lo avvisassero di ciò, che poteva occorrere sopra di quella, e se v'era alcuno inconveniente, affine di poter pigliare la risoluzione, che conviene; replicando il medesimo in un altra sua regal carta de' 13 luglio del medesimo anno.

Il Duca d'Alcalà, in esecuzione di questi ordini regali, fece esaminar la Bolla, e si vide, che in quella il Papa s'arrogava molte cose, ch'eccedevano la sua potestà spirituale, e si metteva a decider quistioni, che non s'appartenevano a lui, ma s'appartenevano alla potestà temporale de' Principi: che quella conteneva alcuni capi, che volendoli eseguire portavan degl'inconvenienti, e sopra tutto si notò, che facendosi quella valere nel Regno, si sarebbe impedito il libero contrattare de' sudditi; onde, sebbene l'Arcivescovo di Napoli avesse nell'istesso tempo presentato altro memoriale al Vicerè, dimandando sopra la suddetta Bolla l'Exequatur Regium, si stimò bene non concederlo, e che per ciò quella non si dovesse ricevere, nè presso noi eseguire, come pregiudiziale al pubblico bene, ed al commercio. Anzi avendo l'Arcivescovo di Chieti l'arto intendere al Governadore d'Apruzzo, che il Cardinal Alessandrino aveagli scritto, che facesse pubblicare nella sua Diocesi la Bolla, e che per ciò egli intendeva pubblicarla, il Governadore ne avvisò il Duca, il quale a' 7 aprile del medesimo anno 1569, scrissegli una lettera Regia, incaricandogli, che parlasse all'Arcivescovo con farlo intero, che contenendo quella Bolla alcuni capi, li quali eseguendosi, saria l'istesso, che levare il contrattare, per ciò quella si stava esaminando, per potersi pigliare resoluzione; e quando quella sarà presa in Napoli, se ne darebbe notizia per tutto il Regno: e che intanto l'esorti da sua parte, che non voglia a patto veruno pubblicarla, o farla da altri pubblicare; e ch'egli stesso avvertito a non consentire, che si pubblichi, così questa, come altra Bolla, o provvisione di Roma senz'il solito e consueto Exequatur, con avvisarlo di quanto sarebbe occorso. Nè durante il suo governo la fece egli qui valere; ed il Cardinal di Granvela successore all'Alcalà ne fece ancor egli, a' 31 luglio del 1571, Consulta al Re, con avvertirlo, che quella eseguendosi nel Regno partorirebbe di molti e gravi inconvenienti. Quindi è che presso di Noi non fu giammai questa Bolla ricevuta, nè praticata, siccome ora non si pratica nè ne' Tribunali, nè altrove; ed osservasi la Bolla del Pontefice Niccolò V, come quella che fu dal Re Alfonso I inserita in una sua Prammatica, perchè acquistasse fra noi forza di legge, altrimente nè meno avrebbe potuto obbligarci all'osservanza; poichè dar regola e norma a contratti è cosa appartenente alla potestà temporale de' Principi, ed è cosa appartenente ali Imperio, non già al Sacerdozio; e consimili Bolle avranno tutta l'autorità nello Stato della Chiesa di Roma, ma non già fuori di quello ne' Dominj degli altri Principi d'Europa.

L'ordine del tempo richiederebbe, che si dovesse finir qui di parlare di questo Exequatur Regium; ma io reputo serbarne uno migliore, se per non esser obbligato a venire di nuovo a parlare di questa materia, con proseguirla dopo la morte del Duca d'Alcalà nei tempi degli altri Vicerè suoi successori insino ad oggi, perchè tutta intera, quanto ella è, sia collocata sotto gli occhi di tutti, e particolarmente di coloro, che avranno parte nel governo di questo Reame, acciò che conoscendo per tanti successi, quanto fosse stato questo Exequatur sempre odioso alla Corte di Roma, e che non si tralasciò pietra, che non fu mossa per abbatterlo, comprendano all'incontro, che tanti sforzi non si facevano per altro, che per isvellere il principal fondamento della Giurisdizione Regale e la maggior preminenza, che tengono i Principi ne' loro Reami; donde sia loro un solenne documento di dovere invigilar sempre, che non sia quello in minima parte tocco; ma proccurino, tenendo innanzi gli occhi il vigore e la costanza del Duca d'Alcalà, far in modo, che rimanga quello per sempre saldo e vie più fermo e ben radicato, a tal che qualunque furia d'impetuoso vento non vaglia a farlo un punto crollare.

Morto il Pontefice Pio V, i suoi successori seguitando, come per lo più sogliono, le medesime pedate contrastarono non meno di lui l'Exequatur. Infra gli altri, que' che più si distinsero, furono Papa Gregorio XIII e Clemente VIII.

Papa Gregorio, riputandolo come una disautorazione della Sede Appostolica, non meno che reputollo il Pontefice Pio, l'ebbe sempre in orrore, e pose ogni studio ed opera col Re Filippo II, perchè affatto si levasse dal Regno. Trovando però durezza nel Re, fece che la cosa si ponesse in trattato, e che il Re destinasse suoi Ministri in Roma per trovare almeno qualche onesto temperamento e moderazione, già che tentare di levarsi affatto, vedeva essere impresa, non che dura e malagevole, ma affatto disperata ed impossibile. Fu lungamente trattato in Roma fra i Ministri del Re e del Papa, infra l'altre differenze giurisdizionali, di questo punto; ma toltone le promesse de' nostri Ministri, che si sarebbe usato un modo più pronto, affinchè il medesimo, senza molta cognizione di causa, si spedisse tosto, e senz'alcuna dilazione e con poca spesa e tedio delle Parti, i Ministri del Papa non ne avanzarono altro. Qualunque Bolla, o altra provvisione, che veniva di Roma, si esponeva all'esame, nè si eseguiva, se non con permissione regia. Questo Pontefice, a cui dobbiamo la riformazione del nuovo Calendario, sperimentò ancora, che dal Principe di Pietra Persia D. Giovan di Zunica, il quale si trovava allora nostro Vicerè, non si volle permettere mai la pubblicazione ed accettazione di quel Calendario nel Regno, sino che il Re con sua particolar carta scrittagli a' 21 agosto del 1582 non glie lo ordinasse: nè si fece eseguire assolutamente, ma con alcune riserbe e moderazioni, come diremo nel libro seguente, quando ci toccherà più diffusamente ragionare di questa nuova Riforma del Calendario, fatta da Gregorio.

Il Duca d'Ossuna nel 1584 ripresse l'arroganza ed ardire de' Vescovi di Gravina, di Ugento e di Lecce, il primo de' quali avea avuto ardimento di pubblicare alcuni monitorj venutigli da Roma senza Exequatur; e gli altri due d'aver parimente pubblicate due Bolle senza questo indispensabile requisito. Gli chiamò tutti tre in Napoli, e ne fece due Consulte al Re, rappresentandogli, come perniciosi abusi questi attentati, a' quali dovea dar presto ed efficace rimedio per ovviare maggiori pregiudicj e disordini; perchè s'era la Corte di Roma avanzata sino a spedir da Roma un Cursore ad intimare un monitorio a Madama d'Austria senza Exequatur .

Non minor vigilanza ebbe sopra di ciò il Conte di Miranda successore dell'Ossuna, al quale avendo, nel 1587, scritto l'Ambasciador di Roma sopra il darsi l'Exequatur ad una Bolla del Papa, per la quale volendo formare in Roma un Archivio, pretendeva, che si dovessero mandare dal Regno Inventarj e tutte le scritture de' beni, rendite e giurisdizioni di tutte le Chiese ed Ospedali di esso: gli fu dal Conte risposto, che quello non poteva concedersi, mandandogli una relazione degl'inconvenienti che ne sarebbon seguiti, dandosi a quella Bolla esecuzione.

Nel Pontificato di Clemente VIII essendo Arcivescovo di Napoli il Cardinal Gesualdo si ripresero col medesimo vigore le contese, coll'occasione che diremo. Questo Pontefice nel 1596 avea drizzato al Cardinale un Breve, per cui ordinava, che tutti i Monasterj di Monache di S. Francesco dell'Osservanza non stassero più sotto la sua immediata protezione, ma riconoscessero gli Ordinarj, levando i Monaci, che vi erano, ed assistevano ne' Divini ufficj, con ponervi de' Preti: nel qual Breve erano anche inclusi i Monasterj di S. Chiara, dell'Egiziaca e della Maddalena di Napoli, che sono di patronato regio: il Cardinale avea fatto intimare il Breve a' Monaci e Monache senza Exequatur; onde il Vicerè Conte d'Olivares mandò il Segretario del Regno a fargli ambasciata regia, perchè s'astenesse d''eseguire il Breve, e fece poner le guardie a' Monasterj; e nell'istesso tempo ne fece Consulta al Re, ne avvisò il Duca di Sessa Ambasciadore in Roma, e volle anche scriverne egli a dirittura al Papa. Poteva ben il Conte antivedere qual risposta dovesse aver da Clemente, il quale non meno che i suoi predecessori, avea in odio l'Exequatur. La risposta del Papa, oltre di distendersi a biasimare i rilasciati costumi di que' Monaci e Monache, conteneva che l'Exequatur era un abuso, introdotto nel Regno ne' tempi turbolenti di guerra, quando l'un pretensore spesso cacciava l'altro: che ora non ve ne era più bisogno, lodando perciò la condotta del Cardinale, che, senza ricercarlo, avea intimato il suo Breve. Il Vicerè replicò al Papa con altra sua lettera, facendogli vedere quanto giusto fosse e quanto non men antico, che non mai interrotto quest'uso dell'Exequatur nel Regno: ch'essendo una delle maggiori prerogative del Re e 'l principal fondamento della sua regal giurisdizione, non avrebbe permesso, che in conto veruno vi si pregiudicasse. Scrissene anche al Duca di Sessa, risoluto di venire a' rimedj più estremi per ripulsare ogni altro attentato, ed in gennajo del seguente anno 1597 ne fece altra Consulta al Re.

Il Cardinal Gesualdo, come Prelato di molta prudenza, prevedendo, che continuandosi la via intrapresa, era per capitar male, pensò un espediente per togliere ogni briga: fece che i Monaci rinunziassero il governo di que' Monasterj in sue mani, e da lui, come Ordinario, fu la rinunzia ricevuta, eccettuati però i Monasterj, ch'erano di patronato regio: fatta questa rinunzia per pubblico istromento, il Cardinale scrisse due biglietti al Vicerè, ne' quali dandogli di tutto ciò ragguaglio, dichiarava, ch'egli come Ordinario, senza aver bisogno del Breve di Roma, e con ciò d'Exequatur, intendeva governarli; e che perciò, esclusi i Monasteri, ch'erano di protezione regia, nelli quali non pretendeva innovare cos'alcuna, volendo visitare, ed entrar di persona ne' Monasterj del Gesù, di San Francesco, di S. Girolamo e di S. Antonio di Padova, pregava il Vicerè, che restasse servito comandare, che se gli dasse ogni ajuto e favore, acciò, come Ordinario, potesse fare l'ufficio suo senz'impedimento alcuno. Il Vicerè in vista di questi viglietti, ordinò al Reggente della Vicaria, che subito facesse levare le guardie poste di suo ordine in que' quattro Monasteri, e diedegli licenza, che potesse entrarvi: ed in cotal guisa fu terminato quest'affare con molta lode, non meno del Vicerè, che del Cardinale.

Questo tenore fu da poi costantemente tenuto dagli altri Vicerè, che al Conte d'Olivares successero: e finchè regnò Filippo II, fece valere nel Regno questa sua preminenza, come in tempo di tutti gli altri suoi predecessori.

Nel Regno di Filippo III, non si permise sopra ciò novità alcuna, e questo Exequatur, reso ormai celebre per le tante contese sopra di quello insorte, era costantemente ritenuto e riputato tanto caro e prezioso, che si stimava, il volersi volontariamente cedere a questo punto, uno de' più segnalati e preziosi doni, che da Re di Spagna potesse farsi giammai alla Corte di Roma; la quale l'avrebbe riputato d'un valore infinito. Tanto che Tommaso Campanella in que' suoi fantastici discorsi, che compose sopra la monarchia di Spagna, che M. S. vanno per le mani di alcuni, volendo aggiustar con nuovi e strani modi quella Monarchia, dice, che il Re di Spagna per togliere al Papa ogni sospezione, potrebbe cedere al punto dell'Exequatur in qualche parte, e mandar Vescovi e Cardinali alli governi di Fiandra e del Mondo Nuovo, e che in cotal guisa le cose riuscirebbero a suo modo; poichè (e' soggiunge) si vede, che il Papa con la indulgenza della Cruciata, gli dona più guadagni, ch'egli non spende a regalare Cardinali, Vescovi ed altri religiosi, e dove si pensa perdere, guadagnerebbe. Ed altrove ne' medesimi discorsi, dice, che potrebbe farsi un cambio tra 'l Re ed il Papa; il Re, che gli ceda l'Exequatur, ed all'incontro il Papa gli doni l'autorità dell'ultima appellazione, sì che possa comporre un Tribunale, dove egli come Cherico sia il Capo, ed unito a due Vescovi, siano Giudici d'ogni appellazione. Ma lasciando da parte stare questi sogni, nel nostro Reame, non meno nel Regno di Filippo III, (dove per tralasciar altri esempj a' Brevi che spediva il Papa di Conti Palatini e di Cavalieri aurati, non si dava l'Exequatur, se non ristretto, che potessero solamente portare torquem, seu habitum Equitis aurati ) che nel Regno di Filippo IV suo figliuolo, e di Carlo II, ultimo degli Austriaci di questa discendenza, non vi è scrittura, che venga da Roma, che non sia ricercato l'Exequatur. S'espongono tutte all'esame, siano Commessioni e patenti del Nunzio Appostolico e de' Collettori: siano Brevi, Decreti o Editti attenenti al S. Ufficio, ovvero al Tribunale della Fabbrica di S. Pietro: siano per proibizioni di libri, per Indulgenze e Giubilei: siano in fine monitorj e citazioni: ed in breve di qualunque provvisione, che di Roma ci venga, non si permette la pubblicazione, e molto meno l'esecuzione senza questo indispensabile requisito. Il Vicerè col suo Collaterale Consiglio commette l'esame della scrittura al Cappellan Maggiore e suo Consultore, il quale ne fa a quel Tribunale relazione, da cui non vi essendo inconvenienti, nè pregiudizio, si concede l'Exequatur, e sovente anche si niega. Questo è l'inveterato ed antico stile introdotto nel Regno, fin da che in quello si stabilì il Principato mantenuto nella serie di tanti secoli, da tutti i Principi, che lo ressero; ed a' dì nostri maggiormente stabilito dal nostro Augustissimo Principe, il quale, negli anni 1708 e 1709, residendo in Barcellona, con più sue regali carte dirette al Cardinal Grimani nostro Vicerè, comandò, che in tutte le provvisioni, che ci vengono da Roma, si fosse inviolabilmente osservato; in guisa che al presente dura vie più stabile e fermo, che mai.

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