CAPITOLO IV.

Della disposizione e politia di queste regioni, che oggi compongono il Regno di Napoli: e della condizione delle loro città.

Questa parte d'Italia adunque, che ora appelliamo Regno di Napoli, non era partita in Province; come fu fatto da poi ne' tempi d'Adriano.

Ella fu divisa in Regioni e da varj popoli, che in esse abitarono presero insieme, o diedero il nome agli abitatori. Abbracciava i Campani, i Marrucini, i Peligni, i Vestini, i Precuzj, i Marsi, i Sanniti, gl'Irpini, i Picentini, i Lucani, i Bruzj, i Salentini, gli Japigi, ed i Pugliesi.

Ciascuna di queste regioni ebbe città per loro medesime chiare ed illustri, le quali secondo la varia lor condizione eran da' Romani amministrate, e secondo le leggi de' medesimi viveano. Vi furon di quelle, che sortirono la condizione di Municipj, le quali, oltre alle leggi romane, potevan anche ritener le proprie e municipali. Di questa condizione nella Campania furono Fondi e Formia, la quale da poi fu da' Triumviri fatta Colonia; Cuma, ed Acerra, altresì da Augusto renduta Colonia; Sessa, ed Atella, le quali parimente lo stesso Augusto in Colonie da poi mutò: Bari in Puglia, e molte altre città poste in altre regioni.

Ma più numerose furon in queste nostre regioni le Colonie, che da tempo in tempo, e nella libera Repubblica, e sotto gl'Imperadori furono successivamente accresciute.

Colonie nella Campania furon Calvi, Sessa, Sinvessa, Pozzuoli, Vulturno, Linterno, Nola, Suessula, Pompei, Capua, Casilino, Calazia, Acquaviva, Acerra, Formia, Atella, Teano, Abella, e poscia la nostra Napoli ancora, la quale da Città Federata fu trasformata in Colonia.

Colonie parimente furono nella Lucania Pesto, Buxento, Conza ed altre città. Nel Sannio, Saticula, Casino, Isernia, Bojano, Telese, Sannio, Venafro, Sepino, Avellino, ed altre.

Nella Puglia, Siponto, Venosa, Lucera, che da città federata passò ancor ella in Colonia; e, per tralasciar l'altre, Benevento che ne' tempi d'Augusto, come rapporta Plinio, non già alla Campania, come fu fatto da poi, ma alla Puglia appartenevasi.

Colonie anche furono Brindisi, Lupia, ed Otranto, ne' Salentini. Valenzia, Tempsa, Besidia, Reggio, Crotone, Mamerto, Cassano, Locri, Petelia, Squillace, Neptunia, Ruscia, e Turio, ne' Bruzj ; alcune delle quali avvegna che prima godessero il favor di Città Federate, furon quindi in Colonie mutate; siccome Salerno, Nocera, ed altre città, ne' Picentini; ed alcune altre poste nell'altre regioni, che non fa mestieri qui tesser di loro un più lungo catalogo.

In tutte queste città si viveva conforme al costume, alle leggi ed agl'istituti dell'istessa Roma. A somiglianza del Senato, del Popolo, e de' Consoli, aveano ancor'esse i Decurioni, la Plebe, e i Duumviri. Avean similmente gli Edili, i Questori, e gli altri Magistrati minori in tutto uniformi a quelli di Roma, di cui erano piccioli simulacri ed immagini: quindi è che si valevan de' nomi di Ordo, ovvero di Senatus Populusque . E per questa ragione in alcuni marmi, che sottratti dal tempo edace son ancora a noi rimasi, veggiamo, che indifferentemente si valsero di questi nomi. Moltissimi possono osservarsi in quella stupenda e laboriosa opera di Grutero, ove fra l'altre leggiamo più inscrizioni poste da' Nolani ad un qualche loro benefattore, che tutte finiscono: S. P. Q. Nolanorum. Anche i Segnini nel Lazio ad un tal Volumnio dirizzarono un marmo, che diceva così.

L. VOLVMNIO

L. F. POMP

JULIANO . SEVERO

IIII . VIRO . COL . SIGN

PATRONO . COLONIAE . SUAE

S. P. Q. SIGNINUS

E Minturno pure ad un tal Flavio eresse quell'altro

M. FLAVIO. POSTU

C. V. PATR. COL

ORDO. ET POPV

MINTVRNEN

Furonvi in queste nostre regioni eziandio le Prefetture. Erano in Italia, secondo il novero di Pompeo Festo ventidue Prefetture. A dieci città, che tutte eran in questo Reame, cioè Capua, Cuma, Casilino, Volturno, Linterno, Pozzuoli, Acerra, Suessola, Atella, e Calazia, si mandavan da Roma dieci Prefetti dal Popolo romano creati, a' quali il governo e l'amministrazione delle medesime era commessa. A dodici altre, i Prefetti mandavansi dal Pretor Urbano, e secondo il costui arbitrio si destinavano: queste città eran Fondi, Formia, Cerri, Venafro, Alife ed Arpino, tutte nel Regno; Anagni, Piperno, Frusilone, Rieti, Saturnia e Nurcia, nell'altre regioni d'Italia.

La condizione di queste Prefetture, come s'è detto, era la più dura; non potevano aver proprie leggi, come i Municipj: non potevan dal Corpo delle loro città creare i Magistrati, come le Colonie: ma si mandavan da Roma per reggerle. Sotto le leggi de' Romani vivevano, e sotto quelle condizioni, che a' Magistrati romani loro piaceva d'imporre.

Non mancaron ancora in queste regioni, che oggi formano il nostro Reame, le Città Federate. Queste toltone il tributo, che per la lega e confederazion pattuita co' Romani pagavan a' medesimi, erano reputate nell'altre cose affatto libere: avevano la loro propria forma di Repubblica, vivevano colle leggi proprie: creavan esse i Magistrati, e spesso ancora valevansi de' nomi di Senato e di Popolo. Di tal condizione ne fu per molto tempo la nostra città di Napoli, furon i Tarentini, i Locresi, i Reggioni, alcun tempo i Lucerini, i Capuani, ed alcun altre delle città greche, le quali eran in Italia, che tali furono, e Napoli, e Taranto, e Locri, e Reggio, le quali per molto tempo non solo nelle leggi e ne' costumi e negli abiti non s'allontanarono da' Greci, onde ebbero la lor origine, ma nè tampoco nella lingua. Queste città da' Romani furon sempre trattate con tutta piacevolezza e riputate più tosto per amiche e federate, che per soggette, e toltone il tributo, che in segno della confederazione esigevan da esse, lasciavanle nella loro libertà; tanto che, come se queste città fossero fuori dell'Imperio, era permesso a gli esuli Romani in quelle dimorare.

I. DI NAPOLI,

Oggi capo e metropoli del Regno.

Napoli, ancorchè piccola città, ritenne tutte queste nobili prerogative: ebbe propria politia, proprj Magistrati, e proprie leggi. Ma quali queste si fossero, siccome dell'altre Città Federate, ben dice il Sigonio, esser impresa molto malagevole in tanta antichità, e fra tante tenebre andarle ricercando. Pure per essere stat'ella città greca non sarà fuor di ragione il credere, essersi ne' suoi principj governata colla medesima forma di Repubblica e di leggi, che gli Ateniesi. Ella ebbe i suoi Arconti, ed i Demarchi, Magistrati in tutto conformi a que' d'Atene. L'autorità degli Arconti prima non durava più, che un anno, come quella de' Consoli in Roma: da poi fu prorogata infino al decim'anno. Essi erano dell'ordine Senatorio, ed equestre: siccome i Demarchi, a somiglianza dei Tribuni romani, appartenevano al Popolo. Quindi non senza ragione i nostri più accurati Scrittori, la divisione, che oggi ravvisiamo in questa città tra i Nobili, ed il Popolo, la riportano fin'a questi antichissimi tempi. Altra congettura ancora ci somministra di ciò credere, dal veder, ch'essendo stata questa città greca, anzi con ispezialità così chiamata dagli antichi Scrittori, siccome dimostra Giano Dousa per quel luogo di Tacito, dove di Nerone scrisse, Neapolim quasi Graecam urbem delegit, avea altresì, come Atene, le sue Curie, che i Napolitani con greco vocabolo chiamavano Fratrie.

Fu solenne istituto de' Greci distribuire i cittadini in più corpi, ch'essi appellavano File; e quelli sottodividere in altri corpi minori, che chiamavano Fratrie. Così in Atene il popolo era diviso in File, e le File in Fratrie; non altrimenti che i Romani, i quali anticamente erano distribuiti in Tribù, e le Tribù in Curie. Ma non in tutte le città greche eravi questa doppia distribuzione: alcune aveano solamente le File; altre le Fratrie; ond'è che i Grammatici spiegano l'un per l'altro, e danno l'istessa potestà così all'uno, che all'altro vocabolo. Napoli certamente ebbe distribuiti i cittadini in Fratrie, nè vi furon File.

Queste Fratrie, o sian Curie non eran altro che confratanze, o vero corpi, ne' quali si scrivevano e univano non già soli i congiunti o fratelli d'un'istessa famiglia, ma molt'insieme della medesima contrada; e per lo più la Fratria si componeva di trenta famiglie. Il luogo ove univansi era un edificio, nel quale oltre a' portici ed alle loro stanze, v'ergevano un privato tempio, che dedicavano a qualche loro particolar Dio, o Eroe; e da quel Nume, a cui essi dedicavan la Confratanza, si distingueva l'una dall'altra Fratria. In questo luogo celebravano i loro privati sacrificj, i conviti, l'epule, e l'altre cose sacre, secondo i loro riti e cerimonie distinte e particolari e convenienti a quel Dio, o Eroe, a cui era il tempio dedicato. Eranvi i Sacerdoti, i quali a sorte dovean eleggersi da questa, o da quella famiglia; e poichè regolarmente le Fratrie si componevano di trenta famiglie, da ciascheduna s'eleggevano a sorte i Sacerdoti. Convenivano quivi costoro, ed i primi della contrada; e non solamente univansi per trattar le cose sacre, i sacrificj e l'epule, ma anche trattavano delle cose pubbliche della città, onde presero anche nome di Collegj.

In Napoli vi furon molte di queste Confratanze dedicate a loro particolari Dii. Fra i Dii de' Napoletani i più rinomati e grandi furono Eumelo, ed Ebone: onde quella Fratria, che adorava il Dio Eumelo, fu detta Phratria Eumelidarum. Così l'altra, ch'era dedicata al Dio Ebone, era nominata Phratria Heboniontorum. Fra gli Dii Patrii che novera Stazio, ebbe ancor Napoli Castore e Polluce, e Cerere; onde varj tempj a costoro furon da Napoletani eretti, de' quali serba qualche vestigio ancora. Quindi la Fratria dedicata a questi Numi fu detta Phratria Castorum: intendendo per questo dual numero così Castore, come Polluce, siccome l'appellavan gli Spartani, onde i loro giuramenti, per Castores; e quella dedicata a Cerere chiamossi perciò Phratria Cerealensium. N'ebbero ancora un'altra dedicata a Diana, della Phratria Artemisiorum, poichè presso a' Greci Artemisia era chiamata la Dea Diana. Non pur agli Dii, ma anche agli Eroi solevan i Greci dedicar le Fratrie; così parimente Napoli oltre a quelle, che consecrò a' suoi patrii Dii, n'ebbe anche di quelle dedicate agli Eroi; ed una funne dedicata ad Aristeo, onde fu detta Phratria Aristeorum. Fu Aristeo figliuolo d'Apolline, e regnò in Arcadia: vien commendato per essere stato egli il primo inventore dell'uso del mele, dell'olio, e del coagulo: non fu però avuto per Dio, ma per Eroe. Delle Fratrie de' Napoletani Pietro Lasena avea promesso darcene un compiuto trattato, ma la sua immatura morte, siccome ci privò di molt'altre sue insigni fatiche, le quali non potè egli ridurre a perfezione, così anche ci tolse questa. Da tali Fratrie, siccome fu anche avvertito dal Tutini, nelle quali s'univano i primi e i più nobili della contrada, non pur per le funzioni sacre, ma anche per consultare de' pubblici affari, hanno avuto origine in Napoli i Sedili de' Nobili, i quali ne' monumenti antichi di questa città da' nostri maggiori eran chiamati Tocchi, ovvero Tocci, dal greco vocabolo θω̃κος, che i latini dicono Sedile, ed oggi noi appelliamo Seggi, de' quali a più opportuno luogo ci tornerà occasione di lungamente favellare.

Questi greci instituti si mantennero lungamente in Napoli; e Strabone, che fiorì sotto Augusto, ci rende testimonianza, che fino a' suoi tempi eran quivi rimasi molti vestigi de' riti, costumi ed instituti de' Greci, il Ginnasio, di cui ben a lungo ed accuratamente scrisse P. Lasena; l'Assemblee de' giovanetti, e queste Confratanze, ch'essi chiamavano Fratrie, e cent'altre usanze: Plurima, e' dice, Graecorum institutorum ibi supersunt vestigia, ut gymnasia, epheborum Coetus, Curiae (ipsi Phratrias vocant) et graeca nomina Romanis imposita; e Varrone che fu coetaneo di Cicerone, pur lo stesso rapporta: Phratria est graecum vocabulum partis hominum, ut Neapoli etiam nunc.

Egli è però vero, che tratto tratto questa città andava dismettendo questi usi proprj de' Greci, ed essendo stata lungamente Città Federata de' Romani, e da poi ridotta in forma di Colonia, divenendo sempre più soggetta a Romani, cominciò a lasciare i nomi de' suoi antichi Magistrati, come degli Arconti e dei Demarchi, de' quali par che si valesse infino a' tempi d'Adriano, giacchè Sparziano rapporta, parlando di questo Imperadore, che fu Demarco in Napoli; poichè era costume d'alcuni Imperadori romani volendo favorire qualche città amica, d'accettare, quando si trovavan in quella, i titoli e gli onori de' Magistrati municipali. Ma da poi divvezzandosi col correr degli anni dagl'istituti greci, e divenuta Colonia de' Romani, seguì in tutto l'orme di Roma, con valersi de' nomi di Senato, di Popolo, e di Repubblica, e de' Magistrati minori a somiglianza degli Edili, Questori, ed altri Ufficiali di quella città, non altrimenti che usavan tutte l'altre Colonie romane, come di qui a poco diremo.

Sono alcuni, che credono non esser mancati affatto in Napoli, non ostante il lungo corso di tanti secoli, questi istituti, ed alcune sue antichissime leggi; ma che ancora parte delle medesime durino fra noi, e sian quelle, che furon registrate nel libro delle consuetudini di questa città, che sotto Carlo II. d'Angiò si ridussero in iscritto, traendo quelle consuetudini (che non può dubitarsi essere antichissime) origine da queste leggi, le quali se bene dalla voracità del tempo furon a noi tolte, lasciarono però ne' cittadini, come per tradizione, quegl'instituti e costumanze, che nè il lungo tempo, nè le tante revoluzioni delle mondane cose, poteron affatto cancellare. Ma questo punto sarà meglio esaminato quando della compilazione di quel libro ci toccherà di ragionare.

Riguardando adunque ora questa città, come federata a' Romani, non può negarsi, che innanzi e dopo Augusto toltone il tributo, che pagava a' Romani, fu da essi trattata con tutta piacevolezza, e lasciata nella sua libertà, con ritener forma di Repubblica, e riputata più tosto amica, che soggetta. Chiarissimo argomento della sua libertà è quello, che ci somministra Cicerone; poich'e' narra, ch'essendo stata per la legge Giulia conceduta la cittadinanza romana all'Italia, fuvvi fra que' d'Eraclea, e nostri Napoletani gran contrasto e grandissimi dispareri, se dovessero accettare, o rifiutare quel favore da tutti gli altri popoli d'Italia molto avidamente bramato; e reputando alla perfine esser loro più profittevole rimanere nella lor antica libertà, che soggettarsi, per quest'onore della cittadinanza, a' Romani, anteposero la libertà propria alla romana cittadinanza. In brieve, toltone il tributo, che in segno della sua subordinazione pagava a' Romani, nel resto era tutta libera, siccome eran ancora tutte l'altre Città Federate, e si reputavano come fuori dell'Imperio romano; tantochè come s'è veduto, gli esuli de' Romani potevan in quelle soddisfar la pena dell'imposto esilio.

Ma a qual tributo fosse obbligata Napoli non men che Taranto, Locri e Reggio città anch'esse Federate, ben ce lo dimostran due gravissimi Scrittori, Polibio, e Livio. La lor obbligazione era di prestar le navi a' Romani nel tempo delle loro guerre. Queste città come marittime abbondavan di vascelli, e gli studj de' Napoletani furon più, che in altro, nelle cose di mare, come ben a proposito notò Pietro Lasena; onde a quello gli obbligarono, che potevan esse somministrare; come in fatti nella lor prima guerra navale, ch'ebbero co' Cartaginesi, i Napoletani, i Locresi ed i Tarentini mandaron loro cinquanta navi. E Livio introducendo Minione rispondente a' Romani, i quali eran venuti a dissuadergli la guerra che in nome d'Antioco intendeva fare ad alcune città greche, le quali stavan alla loro divozione, in cotal guisa lo fa parlare: Specioso titulo uti vos, Romani, Graecorum Civitatum liberandarum, video; sed facta vestra orationi non conveniunt, et aliud Antiocho juris statuistis, alio ipsi utimini. Qui enim magis Smyrnaei, Lampsacenique Graeci sunt, quam Neapolitani, et Rhegini, et Tarentini, a quibus stipendium, a quibus naves ex foedere exigitis?

I Capuani, secondo che suspica l'accuratissimo Pellegrino, quando la loro città era a' Romani federata, non dovettero pagar tributo di navi, ma d'eserciti terrestri; perciocchè dominando eglino una fecondissima regione, dovevan i loro eserciti militari esser di fanteria, e di cavalleria; ed è ben noto, che i Capuani militarono in gran numero negli eserciti terrestri de' Romani. Ma siccome l'infedeltà de' Capuani verso i Romani portò la ruina della loro città, poichè ridotta in Prefettura, rimase senza Senato, senza Popolo, senza Magistrati, ed in più dura condizione, e servitù; così all'incontro Napoli perseverando con molta costanza nella medesima amicizia co' Romani in ogni loro prospera e contraria fortuna, e singolarmente nel tempo della seconda guerra Cartaginese, quando le frequenti vittorie, che di coloro ottenne Annibale, avean riempiuta tutta l'Italia e la medesima Roma di confusione e di terrore, fu loro sempre fedele, e costante. Fu ancora questa città gratissima a' Romani per gli piacevoli costumi ed esercizj dei suoi Greci, e per l'amenità del suo clima, ond'i Romani d'ogni grado e d'ogni età, non che i men robusti ed i consumati dalle fatiche e dagli anni quivi solevansi condurre a diporto. Meritarono perciò i Napoletani, che nella lor città non si mandasse alcun presidio, siccome all'incontro per la loro infedeltà meritaron i Capuani, che nella loro Città continuamente dimorasse presidio di soldati Romani, eziandio cessato il timore delle guerre co' prossimi Sanniti, giacchè la sua incostanza così richiedeva. Ma in Napoli non fu mandato tal presidio, nè men in quel pericoloso tempo della sudetta guerra Cartaginese, fuorchè a richiesta de' medesimi Napoletani.

Così ancora per la loro intera fede meritarono, che niente si fosse scemato dell'altra condizione della loro confederazione, per la quale agli esuli Romani era permesso di potersi ricovrare in Napoli, e dimorarvi senza timore; dove condurre volevasi a questo fine lo scelerato Q. Pleminio, quando fra via fu fatto prigione da Q. Metello. Nè è leggiero argomento, ch'una tal franchigia non fosse giammai violata, l'essersi anche in Napoli salvato Tiberio Nerone allorchè nell'Imperio romano per le lunghe guerre civili e per le fazioni, nè le pubbliche leggi, nè altra cosa eran più rimase salve. In questa guisa adunque fu da' Romani premiata la fedeltà napoletana; e finchè si mantennero nella medesima città i suoi antichi usi, e costumi greci; ella quasi sola di tutte l'altre città di queste regioni non provò mutazione; avendo solamente avute per compagne, Reggio, Taranto e Locri.

II. Napoli non fu Repubblica affatto libera,

ed indipendente da' Romani.

Ma tutte queste prerogative furon de' Romani in premio della sua fedeltà, e per la vita gioconda, che in questa città solevan essi menare; non già che Napoli fosse affatto libera da ogni servitù, e totalmente independente Repubblica, anche a dispetto e contra i sforzi de' Romani, come alcuni dall'amor della patria pur troppo presi, non si ritennero di dire. Potrà alcun forse persuadersi mai, che i vittoriosi e trionfanti Romani, avidissimi d'imperio, dopo aver fatto acquisto, non solamente di tutta l'Italia, ma quasi dell'intera terra nel loro tempo conosciuta, avendo soggiogati Re potentissimi e bellicosissime Nazioni, con lunghissimi terrestri e marittimi viaggi, e con faticosissime imprese per lo corso di molti secoli; non avessero avute forze bastanti a conquistare una città sola, che pur era su gli occhi loro? Mostrano ben costoro non avere nè pur piccola contezza delle romane istorie, e molto meno della generosità Romana. È egli cosa nuova avere i Romani in varj modi fatto dono della libertà a molti popoli, ed a molte città, e singolarmente alle greche dopo averne fatto acquisto, e talora d'avernele private in pena d'alcun lor fallo? Ne sono pieni d'esempj i libri d'Appiano Alessandrino, di Livio, di Svetonio, di Strabone, di Tacito, di Dione di Vellejo, de' due Plinj, di Diodoro Siculo, di Giustino, di Plutarco, e d'altri assai; e per non andar raccogliendo ogni detto di sì gravi Autori intorno a questo non mai dubitato punto, potrassi apprender da quello, che della romana Monarchia, come in un epilogo, raccolse un solo Strabone nel fine de' suoi libri della Geografia, cioè che fra le varie condizioni de' Regi, e delle province, le quali ubbidivano a quell'Imperio, eran ancora alcune città libere, o rimase in libertà per aver durato nell'antica loro confederazione; o fatte nuovamente libere in premio della lor fede: le sue parole in latino sono queste: Eorum, quae Romanis obediunt, partem Reges tenent, aliam ipsi habent, provinciae nomine, et Praefectos, et Quaestores in eam mittunt. Sunt et nonnullae Civitates liberae conditionis: aliae ab initio per amicitiam Romanis adjunctae: aliae ab ipsis honoris gratia libertate donatae. Sunt et principes quidam sub eis, et Reguli, et Sacerdotes: his permissum est patria sectari instituta.

Erano adunque tutte queste prerogative loro doni; e dalla forma del dire del romano Publio Sulpicio rispondente a Minione sul fatto di sopra recato, quae ex foedere debent, exigimus ben si dinota aversi i Romani riserbato il tributo delle navi per una certa spezie di servitù: tanto è lontano, ch'essi all'incontro ne' bisogni de' Napoletani dovessero anche scambievolmente contribuir le navi, come pure alcuni hanno sognato. Cicerone ne somministra un simigliantissimo esempio di Messina, città parimente confederata coll'obbligo di dare una nave, declamando contra Verre, che per doni l'avesse fatta franca di quel tributo nel tempo della sua siciliana Pretura, e con ciò avesse diminuita la maestà della Repubblica, l'ajuto del Popolo romano, e tolto il jus dell'imperio. Pretio, atque mercede minuisti majestatem Reipublicae; minuisti auxilia P. R. minuisti copias, majorum virtute, ac sapientia comparatas. Sustulisti jus imperii, conditionem Sociorum, memoriam foederis; soggiungendo appresso: inerat nescio quomodo in illa foedere societatis, quasi quaedam nota servitutis. Oltre che i romani anche sopra i Napoletani sovente s'assumevan certa potestà di comporre i loro litigi co' popoli vicini, onde si legge appresso Valerio Massimo, che il Senato mandò Q. Fabio Labeone come arbitro a stabilire i confini fra' Nolani e Napoletani, per li quali erano venuti in contesa. In breve, queste città quanto ritenevan della loro franchigia e libertà, tutto lo riconoscevano dalla moderazione e dalla generosità romana: e sovente molte città, che di questo lor dono abusavansi, n'eran esse private: all'incontro alcune, le quali sapevan adoperarlo in bene, erano profusamente di maggiori prerogative ed onori arricchite. In fatti i Massiliesi furono liberati anche dal tributo; e Strabone oltre all'esempio di Massilia, aggiunge anche quello di Neumasio. Cicerone ancor rapporta, che per decreto del Senato fu conceduta, oltre a Massilia, e a Neumasio, anche ad alcune altre cittadi, l'immunità dalla giurisdizione de' Romani, e rendute esenti da ogni potestà di qualunque lor Magistrato.

Essendo tale il costume e tanta la generosità dei Romani, potè credere con fondamento quel diligentissimo investigatore delle nostre antichità Camillo Pellegrino che i Romani in decorso di tempo avesser anche fatti liberi i Napoletani non solamente dall'obbligo delle navi, ma anche d'ubbidire a qualunque lor Magistrato, sì per gli meriti della loro costante fedeltà, come per gli piacevoli diporti, che in Napoli prender solevano: onde, ei dice, che non sarebbe da riputarsi cosa strana, che questa città cotanto lor cara fosse stata da essi renduta franca del tributo delle navi nella universal pace del Mondo, imperando Augusto, e che l'avesser anche sottratta da ogni potestà di qualunque lor Magistrato. Cesare ben alcun tempo ebbe a sdegno i Napoletani, come scrisse Cicerone; forse perch'essendosi in Napoli gravemente infermato Pompeo nel principio della lor gara, i Napoletani per la sua salute offerirono molti sacrificj, e col lor esempio mossero l'altre città d'Italia, e grandi e piccole a far perciò molti giorni feriati. Ma Augusto all'incontro gli ebbe molto cari; e che d'alcun segnalato privilegio avesse lor fatto nobil dono, può esserne manifesto argomento, ch'essi in onor suo dedicaron e celebrarono un nobil giuoco d'Atleti, in cui egli stesso bramò d'esser presente. La sua Livia, la quale condottavi dal suo primo marito Tiberio ne' loro maggiori perigli, vi si era ricoverata; il suo Virgilio, cui piacquer tanto gli ozj napoletani; tutte queste cose dovettero essere stati soavi mantici d'un tant'amore; ond'è che non senza ragione s'attribuisca ad Augusto d'aver accresciuta questa città d'altre nuove prerogative, e d'averla prosciolta dall'obbligo delle navi, e sottratta dalla potestà di qualunque romano Magistrato. E per questa ragione alcuni, su la falsa credenza, che Napoli fosse interamente divenuta cristiana, sin dal primo giorno della predicazione, che si narra essersi quivi fatta da S. Pietro Apostolo, allorchè da Antiochia venendo a Roma, vi ordinò il primo Vescovo Aspreno: tennero fermamente, che in Napoli non vi fossero stati martirj di Cristiani; siccome quella, che non soggetta a' Principi gentili, nè ad alcun altro lor Magistrato, non permise quel macello in sua casa. Ma quanto ciò sia dal ver lontano, ben fu avvertito da Pietro Lasena e ben a lungo fu dimostrato dal P. Caracciolo, e da noi sarà esaminato, quando della politia ecclesiastica di queste regioni farem parola.

Duraron in Napoli lungo tempo sotto i successori d'Augusto queste belle prerogative e queste piacevoli condizioni. Ma dappoichè i Napoletani cominciaron pian piano a svezzarsi da' costumi natii, e dagli usi de' Greci, e a quelli de' Romani accomodarsi, e finalmente ad imitare in tutto i costoro andamenti: prese la lor città nuovo aspetto e nuova forma di Repubblica. Fulvio Ursino credette, che Napoli da Augusto fosse stata renduta Colonia insieme coll'altre, che dedusse in Italia; ma da quanto si è finora detto e da ciò che ne scrive il P. Caracciolo, riprovando l'opinione di quest'Autore, si conosce chiaro, che non da Augusto, ma in tempi posteriori o di Tito, o di Vespasiano Napoli fu renduta Colonia. Che che ne sia, nè perchè passasse nella condizione di Colonia, perdè quella libertà e quella politia intorno a' Magistrati, che prima avea: non essendo a lei intervenuto, come a Capua, che da Città Federata passò in Prefettura. Ella come Colonia latina ritenne quel medesimo istituto di poter dal suo corpo eleggere i magistrati: non si mandavan da Roma i Prefetti per governarla: ritenne ancora il Senato, il Popolo: ebbe i Censori, gli Edili, ed altri Magistrati a somiglianza di Roma. Se le permise valersi de' nomi di Senato e di Popolo e di Repubblica: e molti marmi perciò leggiamo co' nomi di S. P. Q. N. e fra gli altri quei trascritti da Grutero, che i Napoletani ad un tal Galba Bebio Censore della Repubblica dirizzarono.

S . P . Q . NEAPOLITANVS

D . D . L . ABRVNTIO . L . F .

GAL BAEB CENSORI ·

REIPV . NEAP .

e quell'altro,

S . P . Q . NEAPOLITANVS

L . BAEBIO . L . F . GAL .

COMINIO PATRONO COLONIAE .

Il qual nome di Senato mutaron poscia in quello d'Ordine, onde in molti marmi si legge O. P. Q. N. scambiandosi regolarmente questi nomi, come osserviamo indifferentemente in altri marmi d'altre Colonie.

Nè fu detta Colonia, perchè da Roma, o altronde fossero stati in lei mandati nuovi abitatori, ma rimanendo gli antichi, se le concedettono le ragioni del Lazio, siccome a tutte l'altre Colonie latine, le quali e della Cittadinanza e di molte altre prerogative erano fregiate; e per questa cagione potè ritenere, a differenza dall'altre Colonie, le leggi patrie e municipali, senza avere in tutto a dipendere e a reggersi colle sole leggi romane, siccome in fatti molte patrie leggi e molti riti grecanici ritenne, i quali mai non perdette, e d'alcuni d'essi tuttavia ne serba oggi vestigio.

Grave adunque è l'error di coloro, che riputaron Napoli Repubblica totalmente libera ed indipendente dall'Imperio romano, solamente perchè si legge il nome della napoletana Repubblica in più d'una antica inscrizione, ed in più d'un antico Autore. Non avendo avvertito, che ne' tempi d'Adriano, e molto più di Costantino M. e degli altri Imperadori suoi successori fu città, come tutte l'altre, al Consolare di Campagna sottoposta, siccome appresso mostreremo.

Molto maggiore fu l'error di coloro, i quali dieronsi a credere, che infin a' tempi di Rugiero I. Re Normanno, non fu ella in alcun modo soggetta a gl'Imperadori romani, nè da poi a' Goti Re d'Italia, e molto meno agi Imperadori d'oriente, tanto che Alessandro Abate Telesino nell'istoria sua Normanna, parlando di Napoli soggiogata da Rugiero, preso da quest'errore, non potè contenersi di dire, che questa città, la quale vix unquam a quoquam subdita fuit. nunc vero Rogerio, solo verbo praemisso, submittitur; imperciocchè non perchè Napoli, come Città d'origine greca fosse da' Romani così benignamente trattata coll'onore di Città Federata; nè perchè, eziandio dopo divenuta Colonia latina, ritenesse lo stesso antico aspetto di Repubblica di poter dal suo corpo creare i Magistrati, e le propie leggi servare, delle dure condizioni dell'altre Prefetture non aggravata, dovrà dirsi, che fosse stata esente dal roman Imperio; e molto meno, che non fosse da poi sottoposta a' Goti, ed agl'Imperadori greci. Conciosiacchè ella certamente in potestà di costoro, non solamente per forza d'armi, ma per antichissima soggezione coll'Italia passò, ed a' medesimi ubbidì; come nel proseguimento di quest'istoria si farà manifesto; e se dagli Scrittori vien nominata Repubblica, fu perchè ritenne quella forma di governo, che nè da Romani, nè da' Goti le fu vietata.

Nè veramente dovrà muovere tanto cotali Autori quella parola Repubblica; poichè nella latina favella quel vocabolo denota la comunità, non la dignità delle pubbliche cose, e sovente è usata per denotare qualche forma d'amministrazione, o di governo pubblico; anzi nelle Prefetture ancora, le quali eran prive d'ogni pubblico consiglio, erat, come disse Festo, quaedam earum Resp. neque tamen Magistratus suos habebant; a questo lor modo sarebbero state Repubbliche, nel tempo di Seneca, Capua ancora, e Teano, ovvero Atella. Il medesimo potrebbe anche dirsi di Nola, di Minturno, di Segna, e di molte altre Colonie, che pur si chiamaron Repubbliche, e ne' loro marmi mettevano parimente a lettere cubitali quel S. P. Q. Ne' tempi più bassi ancora ve ne sono ben mille esempj appresso buoni Autori, ed infiniti ce ne somministra il Codice di Teodosio.

Molto meno dovean cadere in quest'errore, traendo argomento dal dominio ch'ebbe Napoli dell'isola di Capri, e poi dell'isola d'Ischia, con cui quella permutò, per piacere a Tiberio; poichè, come ben loro risponde l'accuratissimo Pellegrino, senza che fossero andati molto lontano, avrebbon potut'osservare, che Capua altresì, mentr'era Colonia, possedeva nell'isola di Creta la regione Gnosia. E se questo lor argomento, aver Napoli avuta signoria di quell'isola, fosse bastante a riputarla libera Repubblica, nè men sarebbe da dubitarsi, che questa prerogativa non l'avesse ancora ritenuta per molti secoli seguenti sotto i Goti, sotto gl'Imperadori d'Oriente, e sotto altri Principi; perciocchè ritenne delle sue vicine isole il dominio, anche nel tempo di S. Gregorio M., e più innanzi nel tempo ancora del Pontefice Giovanni XII. e similmente nel Pontificato di Benedetto VIII, ed eziandio in tempi meno a noi lontani, ne' quali, come si conoscerà chiaro nel corso di quest'istoria, sarebbe follia il credere, che fosse stata libera Repubblica ed indipendente da qualsivoglia altra dominazione.

III. Delle altre città illustri poste in queste regioni.

Ecco in brieve l'aspetto e la politia che avevan nell'età, di cui si tratta, quelle regioni, che oggi compongon il Regno. Non era allora diviso in province, come fu fatto da poi, ma in regioni: ciascheduna delle quali aveva città, che secondo le loro condizioni, o di Municipio, o di Colonia, o di Prefettura, o di Città Federata, si governavano. Si viveva generalmente colle leggi de' Romani, siccome quelle, che per la loro eccellenza eran venerate da tutte le genti, come le più giuste, le più sagge, e le più utili all'umana società. Solamente si permise, che i Municipj, e le Città Federate potessero ritener le proprie e le municipali, ma queste mancando, si ricorreva a quelle, come a' fonti d'ogni divina ed umana ragione. Eran i governi secondo le condizioni di ciascheduna città: molte venivan rette da Prefetti mandati da Roma, moltissime da' Magistrati, che dal proprio seno era lor permesso d'eleggere, e quasi tutte si studiavano d'imitare il governo di Roma lor capo, della quale erano piccoli simulacri ed immagini.

Non, come ora, tutte le bellezze, tutte le magnificenze e le ricchezze, stavan congiunte in una città sola, che fosse capo e metropoli sopra l'altre: ciascuna regione avea molte città magnifiche ed illustri per se medesime, Capua solamente un tempo innalzò il suo capo sopra tutte le altre: già così chiara ed illustre, Lucio Floro attesta essere stata anticamente paragonata a Roma ed a Cartagine, le più famose e stupende del Mondo: città così numerosa di gente e di traffico, ch'era riputata l'emporio d'Italia; in guisa, che i nostri Giurisconsulti l'agguagliavan sempre ad Efeso, e quasi tutti gli esempj, che recano, o di casi seguiti per contrattazioni, o di rimesse di pagamenti promessi farsi in Capua da luoghi remotissimi, o di traffichi tra famosi mercadanti, non altronde sono tolti, che da Capua, e da Efeso.

Ebbe la Puglia quella famosa e per gli scritti di Livio, e d'Orazio cotanto celebrata Luceria: ebbe Siponto che per antichità non cedette a qualsivoglia altra città del Mondo: ebbe Venosa cotanto chiara ed illustre per gli natali d'Orazio: ebbe Benevento la più famosa e celebre Colonia de' Romani: ebbe Bari, ed altre Città per se medesime rinomate ed illustri.

Ebbero i Salentini Lupia, Otranto, e la vaghissima e deliziosa Brindisi, città anche celebre per lo famoso suo porto, e sovente da' nostri Giurisconsulti rinomata a cagion delle spesse navigazioni, che regolarmente quindi s'intraprendevano per oriente. Ebbero i Bruzj tante altre chiare ed illustri città, Taranto, Crotone, Reggio, Locri, Turio, Squillace: città feconde e produttrici di tanti chiari ed insigni Matematici e Filosofi, onde ne sorse una delle più nobili Sette della filosofia, detta perciò italica, ch'ebbe per Capo e Gonfaloniere Pitagora, il qual in esse visse ed abitò per lunghissimo tempo, ed in Crotone ebbe tal volta fino a secento discepoli, che l'ascoltarono.

Ebbero i Lucani Pesto, e Bussento: i Picentini Salerno, e Nocera: i Sanniti Isernia, Venafro, Telese, e Sannio cotanto chiara, che diede il nome alla regione. Ove lascio Sulmona ancor famosa per gli natali d'Ovidio, Nola, Sorrento, Pozzuoli, e quell'altre amene ed antiche città, Cuma, Baja, Miseno, Linterno, Vulturno, Eraclea, Pompei, e le tante altre, che ora appena serban vestigio delle loro alte rovine?

IV. Scrittori illustri.

E chi potrebbe annoverare i tanti chiari e nobili spiriti, che in sì illustri città ebbero i natali, i Filosofi, i Matematici, gli Oratori, e sopra tutto i tanti illustri e rinomati Poeti? In breve. Quanto degli antichi oggi abbiamo di più rado e di più nobile nella filosofia e nelle matematiche, nell'arte oratoria, e sopra tutto nella poesia, tutto lo debbiamo a quegl'ingegni, che o furono prodotti da questo terreno, o che nati altrove in esso vissero, e quivi coltivaron i loro studj.

Così fra tanti potessi anch'io annoverarvi per la nostra giurisprudenza l'incomparabile Papiniano, come han fatto alcuni, che gli diedero per patria Benevento, che molto volentieri 'l farei: ma la necessità di dire il vero, e di non dover ingannare alcuno, mi detta il contrario; poichè della patria di sì valentuomo niente può dirsi di certo, e per vane congetture si mossero coloro, dall'amor della Nazione pur troppo presi, a scrivere che fosse beneventano. Peggiore, e da non condonarsi fu la loro ignoranza, quando ciò vollero raccorre dalle nostre Pandette, e da quella legge di Papiniano che sotto il titolo Ad S. C. Treb. abbiamo; imperciocchè ivi dal Giurisconsulto si riferiscono le parole di certo testamento fatto da un Beneventano, nel quale lasciava egli un legato Coloniae Beneventanorum patriae meae; e credendo che Papiniano di se medesimo favellasse, scrissero che la patria di questo Giurisconsulto fosse Benevento. Ciò che abbiam voluto avvertire, perchè quest'errore avendo per suo partigiano uno Scrittor grave fra noi qual'è Marino Freccia, ritrovasi ora sparso e disseminato in molti libri de' nostri Professori, ed anche appresso un moderno Scrittore del Sannio, a' quali, siccome Autori non tanto ignari e negligenti di queste cose, come gli altri, avrebbe forse potuto darsi facile credenza.

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