Di Grimoaldo V. Duca di Benevento: delle guerre da lui mosse a' Napoletani: e morte del Re Rotari.
Grimoaldo V. Duca di Benevento fu un Principe d'animo sì grande e intraprendente, che non contento d'aver distesi i confini del suo Ducato, e riportate molte vittorie sopra i Napoletani e Greci, aspirando sempre ad imprese più alte e generose, finalmente dal suo destino fu esaltato al Trono, e resse il Regno d'Italia, dopo i sedici del suo Ducato, altri anni nove.
Mentre fu egli Duca di Benevento, ebbe sovente a combatter co' Napoletani; ed in questi tempi si narra esser accaduto ciò, che Paolo Varnefrido rapporta, di aver egli impedito a' Greci il sacco della Basilica di S. Michele posta nel monte Gargano, e d'avergli interamente sconfitti. Vien riferito ancora, che quindici anni da poi, asceso già al regal Trono in Pavia, avesse un'altra volta sconfitti i Napoletani, e che questi per tale avversità, tocchi nel cuore, avessero mutata religione, e da' Gentili ch'erano, avessero abbracciata la Religione cristiana, siccome narrano l'Autore degli Atti dell'Apparizione Angelica, e l'ignoto Monaco Cassinese.
Ma poichè questi successi variamente dagli Scrittori si narrano, alcuni a' Saraceni imputando ciò, che Paolo ascrive a' Greci; altri, con manifesto anacronismo, più indietro portando questi successi, gli fingono a' tempi di Teodorico e d'Odoacre, quando i Longobardi non erano ancora in Italia conosciuti; ed altri con maggior verità l'attribuiscono a' medesimi Longobardi; perciò sarà a proposito più distesamente mostrare, che non i Greci, o i Napoletani, ovvero i Saraceni, ma i Longobardi diedero il sacco a quel santuario, e che la conversione dal Gentilesimo al Cattolichismo, la quale a' Napoletani s'imputa, dee a' Longobardi beneventani, non già agli altri attribuirsi.
Il monte Gargano, posto nella Puglia sopra Siponto dirimpetto all'isole Diomedee del mare superiore, oggi dette di Tremiti, nome ancor egli antichissimo, e da Tacito usato, fu prima renduto celebre al Mondo da Virgilio e da Orazio; ma da poi a tempo di Gelasio I. Pontefice romano, fu assai più rinomato per la maravigliosa apparizione in questo luogo accaduta dell'Arcangelo Michele; e discacciati d'Italia i Goti dall'Imperador Giustiniano per Belisario e Narsete, ed all'Imperio d'Oriente finalmente restituita, fu incredibile la venerazione de' Greci verso questo Santo. Non vi ebbe città così nella Grecia, come in Italia, che non gli fabbricasse tempj e non gli dirizzasse altari. Narra Procopio, che da Giustiniano nella sola città di Costantinopoli gli furon molti nuovi tempj eretti, ed altri antichi rifatti: il cui esempio imitarono ancora l'altre città greche d'Italia. In Napoli massimamente la di lui venerazione fu maravigliosa, avendogli i Napoletani innalzato ancor essi un tempio, che poi secondo il rito della Chiesa romana, fu in tempo di S. Gregorio M. dedicato, e lo stesso Pontefice di questa dedicazione in una sua epistola fa memoria. Di molti altri Imperadori greci, e particolarmente di Eraclio si narra lo stesso, i quali di ricchi e preziosi doni arricchirono quel santuario: in guisa che non potrà porsi in dubbio, che i Napoletani per lungo tempo a' Greci congiunti, non avessero una pari religione e venerazione a questo Arcangelo portata: ed il voler imputare i Napoletani in questi tempi d'infedeltà e d'idolatria, egli è un error così grande, che la sola cronologia de' Vescovi cattolici di questa città, e ciò che nel precedente libro si è narrato, può renderlo manifesto e indubitato.
All'incontro è certissimo, che quando i Longobardi ritolsero a' Greci l'Italia, non altra religione professavano, se non quella de' Pagani, e molti l'Arrianesmo, e quantunque nel Regno d'Agilulfo, seguendo i Longobardi l'esempio del loro Principe, avessero molti di essi lasciato l'Arrianesmo e l'Idolatria; nientedimeno perseverando gli altri Re suoi successori nell'Arrianesmo, fu cagione, che i Longobardi, e particolarmente que' di Benevento tornaron di nuovo nei primi errori, de' quali non finiron d'interamente spogliarsi fino all'anno 663, quando, fugato Costanzo Imperadore per opera di S. Barbato Vescovo di Benevento, alla religion cattolica furon convertiti, come quindi a poco diremo.
È altresì notissimo a chi attentamente considererà l'istoria de' Longobardi di Paolo Varnefrido, che questo Scrittore, siccome furono tutti gli altri di tal Nazione, per esser longobardo, si è studiato a tutto potere di scusare i suoi da questa nota d'infedeltà, e dagli errori d'Arrio; anzi in tutto il corso della sua istoria non favellò mai della religione, che tennero questi Popoli, tanto che nemmeno della loro conversione per opera di S. Barbato alla cattolica credenza ne dice parola, per fuggire di non esser costretto a far menzione degli antichi errori, come accuratamente notò il diligentissimo Pellegrino.
Quindi nella storia sua molte cose sono imputate a' Greci, che da' Longobardi si commisero, siccome con verità osservò anche il Cardinal Baronio: e chiarissimo documento ne farà questo stesso successo: conciossiachè è affatto incredibile, che i Greci cotanto veneratori di quel santuario avessero potuto avere un animo così perverso, come e' dice, di saccheggiarlo, e che perciò venuti all'armi co' Longobardi, fossero da costoro stati distolti di così esecrando e sacrilego eccesso. Tutto al rovescio è da credersi, che andasse la bisogna, ed appunto come ce la descrive il Pellegrini, cioè che i Longobardi contendendo co' Greci della possessione di quel luogo, dopo una lunga ed ostinata pugna, finalmente fosse loro riuscito di vincere i Greci, e siccome quelli ch'eran già avvezzati a somiglianti scelleratezze, ciocchè essi sotto Zotone avevan altra volta fatto nel monte Cassino, vollero Sotto Grimoaldo replicar nel monte Gargano, saccheggiando quel santuario, che ricco per varj doni de' Greci potè invitar la loro rapacità a quel sacrilegio. Ed in fatti dagli atti medesimi di S. Barbato Vescovo di Benevento, che non ancora impressi si conservavano nel monastero delle Monache di S. Gio. Battista della città di Campagna, e che furono da poi da Giovanni Bollando dati alla luce colle sue note, e parte d'essi si veggono ora anche impressi nell'ottavo volume di Ferdinando Ughello, si vede con chiarezza, che quella Basilica patì allora in realtà il sacco: tanto è lontano, che fosse stato impedito dai Longobardi beneventani, restando così incolta e desolata, ut nec sedulum illic officium persolvi possit, come dice S. Barbato. Nè cominciò a restituirsi al suo antico lustro, se non quindici anni da poi, quando discacciato Costanzo da' Longobardi, a' conforti di Barbato abbracciarono la Religion cattolica, deponendo l'Infedeltà; la qual conversione all'Autore degli Atti dell'Apparizione Angelica, essendo parimente Longobardo, piacque ancora d'addossarla a' Napoletani greci come vedremo più innanzi: ciò che maggiormente confermerà quanto ora si è detto.
E per questa stessa ragione si vede, che vanno eziandio errati coloro, i quali vogliono imputare i Saraceni di ciò, che Paolo Varnefrido narra de' Greci; scrivendo essi, che Grimoaldo nel monte Gargano in questi anni del suo Ducato avesse combattuto co' Saraceni, i quali volendo saccheggiar quel santuario, furono da Grimoaldo sconfitti e debellati; poichè questa guerra fu, come Varnefrido la scrive, tra' Longobardi e Greci, e non co' Saraceni, i quali in questi tempi non erano ancora venuti a depredare queste nostre province; e poi quando ci vennero, non nel Gargano, ove non mai si fermarono, se non negli ultimi tempi, ma nel Garigliano sua aliquando domicilia habuerunt, come dice il Pellegrino. Nè è vero, che fu impedito il sacco, perchè seguì veramente; onde la sconfitta, che si narra data a' Saraceni nel Gargano da Grimoaldo, è ugualmente favolosa di quell'altra, che dal Summonte e da altri vien riferita di aver ricevuta in Napoli da S. Agnello Abate, in tempo che questi Popoli in Italia non erano stati ancora conosciuti; nè il nome loro era stato in queste nostre parti peranche inteso.
Ma mentre i Longobardi beneventani sono occupati in queste guerre co' Greci napoletani, accadde nell'anno 652 in Pavia la funesta morte di Rotari Re, il quale morendo lasciò erede e successore nel Regno Rodoaldo suo unico figliuolo, non restando altri della sua virile stirpe, che questo unico rampollo. Resse Rotari sedici anni il Regno con tanta prudenza e giustizia, che tra i Principi più illustri della terra fu meritamente annoverato; e dall'aver egli lasciato in libertà i suoi sudditi di poter vivere in quella religione, che volessero, permettendo, che in quasi tutte le città del suo Regno vi fossero due Vescovi, l'un cattolico e l'altro arriano, diede questo pernizioso esempio nuovo stimolo agli empj Politici di confermare la loro massima, che il Principe non dovesse molto impacciarsi della religione de' sudditi, nè sforzargli a dover credere, e professar quella, ch'egli reputasse la più vera: onde Bodino difensor di questa perversa dottrina, all'esempio di Teodosio M. di cui crede, che avesse medesimamente permesso a' suoi sudditi simile libertà di coscienza, senza curarsi punto se fossero arriani o cattolici, non si dimenticò d'aggiunger questo altro di Rotari, il quale permise lo stesso. Non è però da tralasciarsi di notar qui di passaggio l'errore di questo Scrittore, che reputò Teodosio M. essere stato Autore di quella legge, la quale quantunque nel Codice Teodosiano portasse in fronte così il nome di Teodosio M. come l'altro di Valentiniano II, egli è però costante presso a tutti gli Scrittori, che Autore di quella ne fosse Valentiniano, il quale per impulso dell'Imperadrice Giustina sua madre, e ad istanza de' Goti arriani, residendo in quell'anno in Milano la fece pubblicare, contro alla quale declamò tanto S. Ambrogio Vescovo di quella città; ed è altresì noto, che ancorchè gl'Imperadori reggessero allora l'Imperio diviso in occidentale ed orientale, nulladimanco il costume era, che le leggi, che si promulgavano o dall'uno, o dall'altro, portavano in fronte i nomi di tutti coloro, che governavano allora l'Imperio: ciocchè osserviamo ancora ne' marmi; ed infiniti altri esempj ne somministra il Codice stesso Teodosiano, siccome fu anche osservato dal diligentissimo Jacopo Gotofredo, il quale dell'istesso errore notò Francesco Baldovino, che per quella iscrizione credè parimente, che Teodosio M. fosse stato autore di quella legge.