CAPITOLO X.

Di Grimoaldo XII. Re de' Longobardi, di Romualdo VI. Duca di Benevento; e della spedizione Italica di Costanzo Imperador d'Oriente.

Mentre Grimoaldo regnava in Pavia, e Romualdo suo figliuolo in Benevento con tanta felicità, ecco che lor s'appresta una guerra oltramodo travagliosa e crudele, la quale portava il pericolo sommo d'esser dai loro Stati interamente discacciati. Infino a qui gl'Imperadori greci poco curando delle cose d'Italia, e contenti solamente d'avere in lei l'Esarcato di Ravenna, il Ducato di Roma, e quelli di Napoli, di Gaeta, e d'Amalfi, con alcune altre città della Calabria e dei Bruzj, niun pensiero prendevansi di restituirla al loro Imperio. L'Imperador Eraclio appena potè contenere i Longobardi ne' loro limiti, perchè interamente non finissero di scacciare d'Italia i Greci; ma morto costui nel mese di maggio dell'anno 641 lasciò per successore Costantino suo figliuolo; fu allora veduta la sede di Costantinopoli in tante revoluzioni, che non potè pensare alle cose d'Italia; conciossiachè Costantino non istette più sul Trono, che quattro, o second'altri, sei mesi, avendolo fatto morire Martina sua madrigna, per mettervi Eracleone suo figliuolo. Ma questi ne fu cacciato in capo a sei mesi, e relegato insieme con sua madre. Costanzo, figliuolo di Costantino, gli succedè nell'anno 642, in tempo del quale l'Imperio d'Oriente cominciò ad aver qualche respiro. Questo Principe s'invogliò talmente di riunire l'Italia all'Imperio d'Oriente, che reputò indegnamente portar la corona di quell'Imperio, se non avesse d'Italia affatto i Longobardi discacciati: e fu tanta l'ardenza sua in eseguire questo disegno, che non soddisfatto di mandarvi Capitani per questa impresa, volle egli stesso, lasciando in abbandono la sede di Costantinopoli, portarsi in persona in queste nostre contrade, e porsi alla testa dell'esercito: cosa veramente nuova, nè altre volte accaduta, essendo stata questa la prima volta, che fu veduto un Imperador d'Oriente portarsi in Italia ed in Roma. La novità e stravaganza del qual fatto diede molto da pensare per iscovrire i consigli e le cagioni di tal mossa.

Alcuni credettero, che avendo egli scelleratissimamente ammazzato Teodoro suo fratello, il quale sovente con immagini tetre e formidabili lo spaventava, agitato da sì funeste larve, proccurasse allontanarsi da quella città, e da que' luoghi a lui già fatti odiosi e funesti. Altri attribuivano questa sua mossa all'odio, che i Costantinopolitani portavangli per aver egli abbracciata l'eresia de' Monoteliti, e che perciò proccurasse trasferir la sede dell'Imperio in Roma. Ma i più sensati Autori, fra i quali sono Anastasio Bibliotecario e Varnefrido, dicono che non per altro si fu mosso, se non per la cupidità di ricuperare l'Italia, e per la speranza di potere con le sue forze discacciare da questi luoghi i Longobardi. Perciò nella primavera di questo anno 663, apprestata una grande armata di mare, da Costantinopoli partissi, e verso Taranto dirizzò il cammino. Molte città di queste province, che ora formano il nostro Regno, tenevansi tuttavia ne' tempi di Costanzo sotto la Signoria dei Greci, i quali oltre al Ducato napoletano, e agli altri Ducati minori, vi avevano parimente molte altre città marittime della Calabria, siccome Taranto altresì, non ancora da' Longobardi beneventani occupata. Giunto Costanzo in questa città, e sbarcatevi le sue truppe, alle quali unironsi poi i Napoletani, verso Benevento dirizzossi. Questa non aspettata comparsa de' Greci pose da principio in tanta costernazione e spavento i Beneventani, che molte città della Puglia furon da essi abbandonate: onde con leggier contrasto potè Costanzo prender e devastar Lucera, città da Siponto non molto lontana: ma non potè già far lo stesso di Acerenza per esser posta in fortissimo luogo: e non volendovi consumare più lungo tempo, andossene prestamente a campo sotto Benevento, e di stretto assedio la cinse.

§. I. Di Romualdo, VI. Duca di Benevento.

Romualdo Duca di Benevento vedutosi in questo stato, tosto spedì Gesualdo suo Balio al Re Grimoaldo suo padre in Pavia, perchè gli mandasse validi soccorsi: ed intanto i Longobardi beneventani, ancorchè da' Greci fosse più volte stata assalita la città, sempre però gli ributtarono, ed alle volte ancora gli assalirono ne' proprj alloggiamenti con varie sortite, e per ogni parte danni e rotte considerabili gli diedero: nella difesa della quale città, non conferì poco l'opera di Barbato Prete, e poi suo Vescovo, il quale declamando sempre, che di questi mali eran puniti i Longobardi beneventani con guerre sì crudeli, perchè non ancora avean deposta la superstizione de' Gentili, ed alcuni l'Arrianesimo; tanto fece, che ridusse quei popoli a deporre l'Idolatria, e ad implorare per lo scampo delle imminenti calamità il divino aiuto e la protezion de' Santi: e ad esser da poi persuasi, che ne fossero scampati per opera divina. Ma mentre Costanzo era in questo assedio, ecco che il Re Grimoaldo vien di persona con potente esercito a soccorrere il figliuolo; ed in tanto manda Gesualdo a dargli avviso che stasse di buon animo, ch'egli era ben tosto per liberarlo. Ma l'infelice, giunto al campo nemico, mentre tenta di gettarsi dentro l'assediata città, fu preso e portato innanzi all'Imperador Costanzo, il quale sentendo, che Grimoaldo già sen veniva con forte esercito a soccorrere il figliuolo, e ch'era già vicino, turbossene grandemente: e risoluto di levar l'assedio, tentò, perchè sicuramente potesse farlo, e potesse anche ricavarne qualche onesta condizione di pace, che Gesualdo tutto al rovescio esponesse a Romualdo l'ambasciata; onde fattolo condurre sotto le mura, il costrinse a chiamar Romualdo, al quale voleva egli che dicesse di non potere in conto alcuno venir suo padre per soccorrerlo; ma Gesualdo con animo intrepido e forte, veduto Romualdo sopra la muraglia, con alta voce, perchè tutti i Greci, ch'eran presenti, anche il sentissero, gli disse: Sta forte, e di buon animo, o Signore, e non ti smarrire; ecco tuo padre è già vicino con potente esercito per tuo soccorso, e questa notte al fiume Sangro dee esser giunto. Ben ti raccomando la mia cara moglie, ed i miei cari figliuoli perchè son certo, che questi ribaldi Greci mi faran tosto morire . Sdegnato fieramente Costanzo per così generoso e magnanimo atto, fecegli tosto mozzare il capo, che con una briccola il fece buttar dentro le mura della città. Il Duca Romualdo presolo ed affettuosamente baciandolo, di molte lagrime il bagnò, così onorando la singolar sua virtù, e l'amor del suo fedele, con fargli inoltre dare sontuosa e nobile sepoltura.

Temendo perciò l'Imperadore della venuta di Grimoaldo, sciolse l'assedio, e mentre verso Napoli, sua città, frettoloso si avvia, il Conte Mitula di Capua nel cammino diede al suo esercito una grande rotta al fiume Calore, che non poco l'afflisse: e giunto finalmente in Napoli con animo di voler quindi passare in Roma, essendosi esibito Saburro, che gli dava il cuore, se l'Imperadore lasciasse sotto al suo comando ventimila soldati, di debellar tutti i Longobardi, e riportarne certa vittoria; Costanzo glieli concedette, e lasciollo sul passo di Formia, che ora dicono esser Castellone, o Mola di Gaeta, almeno perchè gli servissero per tener a freno il nemico, che andando egli in Roma, lasciavasi indietro. L'esercito di Saburro era misto di Greci e di Napolitani, Popoli che furon sempre rivali ed implacabili nemici de' Beneventani, e co' quali ebbero sempre crudeli ed ostinate guerre. Era Grimoaldo giunto in Benevento, quando intese i vanti di Saburro, ed i disegni de' Greci, e fu per andarvi egli di persona per combattergli; ma pregato da Romualdo suo figliuolo, che a lui commettesse questa impresa, bastandogli il cuore di vincergli, egli ne fu contento, e gli diede una parte del suo esercito. Con intrepidezza incomparabile affrontò Romualdo l'esercito nemico, e mentre fieramente si combatte, ed era ancor dubbia la pugna, ecco che un Longobardo, Amelongo nomato, ch'era solito di portar la lancia innanzi al Re, con animo forte, coll'istessa lancia percosse un Cavalier greco con tanta forza ed empito, che levatolo da sella l'alzò all'aria in alto, e per sopra il suo capo lo fece precipitare in terra. Per così valoroso fatto tanto terrore e spavento entrò ne' Greci che vilmente abbandonando il Campo, dieronsi a fuggire, ed i Longobardi seguitandogli fecero di loro strage crudelissima, e piena vittoria ne riportarono. Romualdo pien di gioja, trionfando, in Benevento tornossene, ove accolto dal padre e da' Beneventani con applauso grande, da tutti, come liberator della Patria e dello Stato, fu onorato e commendato. Intanto l'Imperador Costanzo quando vide vana ogni sua opera, parendogli essere fuori di ogni speranza di superare i Longobardi, perchè all'intutto non paresse inutile la sua venuta in Italia, pensò, pieno di cruccio andare in Roma ove, ancorchè fosse stato accolto con molti segni di stima e di venerazione da Vitaliano romano Pontefice, in dodici giorni, che vi dimorò, non attese ad altro, che a spogliarla de' più ricchi ornamenti, che vi ritrovò, e toltone quanto eravi di più rado, d'oro, d'argento, di bronzo, e di marmo, e fattolo imbarcar ne' suoi legni per condurlo in Costantinopoli, egli per cammin terrestre tornossene a Napoli, e quindi a Reggio, ove la terza volta furono le sue truppe da' Beneventani battute: indi a Sicilia portossi; quivi essendo egli dimorato qualche tempo, fu in Siracusa, mentre si lavava nel bagno, nell'anno 668 da' suoi stessi miseramente ucciso; e le sue inestimabili prede e ricchezze, che da Roma e da altri luoghi aveva raccolte, capitate in mano de' Saraceni, non già in Costantinopoli, ma in Alessandria furon condotte.

Ecco qual fine, per se e per li Greci funesto, ebbe l'impresa di Costanzo, il qual promettendosi di restituire l'Italia al suo Imperio, rendè più prospere le fortune de' Longobardi: spedizione quanto infelice per li Greci, a' quali mancò poco, che non fossero interamente scacciati d'Italia, altrettanto avventurosa e prospera per li Longobardi, i quali maggiormente stabiliti ne' loro Stati, a niente altro da poi furono intenti, che a discacciare i Greci da quelle città, ch'essi ancor ritenevano. Per queste illustri vittorie Romualdo ampliò poi tanto il Ducato beneventano, che discacciati i Greci da Bari, Taranto, Brindisi, e da tutti que' luoghi della Calabria, che oggi Terra d'Otranto diciamo, gli ridusse al solo piccolo Ducato di Napoli e di Amalfi, ed Otranto. Gallipoli, Gaeta, e ad alcune altre città marittime de' Bruzj, che oggi Calabria ulteriore chiamiamo.

Queste furono le memorabili rotte, che gl'Istorici in questi tempi narrano essersi date da' Beneventani a' Napoletani, ne' quali per opera di S. Barbato i Longobardi beneventani abbandonarono interamente l'Idolatria e la superstizione: il culto della religione cattolica tenacemente abbracciando. La qual conversione, volendo a sommo studio tener nascosta Varnefrido e lo Scrittore degli atti dell'Apparizione Angelica nel monte Gargano, ambedue di nazione longobarda, perchè con ciò non si scovrisse, che sino a questi tempi i Longobardi avevan ritenuto il Gentilesimo, di ciò, ch'essi fecero, n'imputarono i Napoletani, i quali, come si è veduto, e di quel santuario, e della fede cattolica erano riverenti e tenaci. Nè maggior pruova di questo potrà aversi, se non dagli Atti di S. Barbato istesso, dati ora alla luce dal Bolando, e dall'Ughello, il quale Santo, dopo aver persuaso al Duca di Benevento ed a' Longobardi, per opera divina, e dell'Arcangelo Michele essere scampati da tante calamità, questi, deposto ogni rito pagano, ed abbracciata la religion cattolica, lo elessero per Vescovo di quella città; ed avendogli il Duca profferto molti e ricchi doni, il santo Vescovo gli rifiutò, persuadendo a Romualdo, che que' doni offerisse alla Basilica del monte Gargano, la quale, a cagion del preceduto sacco, essendo rimasa incolta e men frequentata, proccurasse egli renderla più culta, e col suo esempio la venerazion di quel luogo a' suoi Longobardi instillasse; ed inoltre che tutto ciò, ch'era nel tenimento del Vescovato Sipontino alla sua sede beneventana sottoponesse, perchè que' luoghi allora incolti, posti sotto la sua cura, meglio da lui potessero custodirsi e governarsi; siccome da Grimoaldo fu fatto. Quindi nacque, che fin da questi tempi di Vitaliano, romano Pontefice, il Vescovato di Siponto, e la cura della Basilica garganica alla sede beneventana si appartenne; com'è pur manifesto da alcune epistole di Vitaliano Papa a Barbato istesso dirette, rapportate da Mario Vipera nel libro primo della sua Cronologia de' Vescovi ed Arcivescovi beneventani, onde da poi ne' tempi seguenti lungamente si è veduta la Chiesa sipontina e la garganica a' Vescovi beneventani soggetta, insino che, ruinando già il Principato di Benevento, fu a Siponto dato il suo Arcivescovo, alla cui cura ritornarono assolutamente queste Chiese, come, quando della politia ecclesiastica di questi tempi ci tornerà occasione di trattare, più distesamente diremo.

Per questa cagione crebbe la venerazione di questo santuario appresso i Longobardi beneventani, tanto che per lor protettore lo riconobbero, e siccome i Longobardi Subalpini ebbero per loro protettore il Precursor di Cristo, i Longobardi spoletani S. Sabino Vescovo e Martire; così i nostri Longobardi Cistiberini ebbero l'Arcangelo Michele; onde si fece poi che tutte le vittorie, che ne' seguenti tempi riportarono i Beneventani sopra i Napoletani, come che sovente accadute, siccome fu questa agli otto di Maggio, giorno dell'Apparizione Angelica, tutte l'attribuirono all'intercessione di questo lor protettore. Quindi parimente si manifesta l'error di coloro, i quali, ignari di questi fatti, riportano indietro questi avvenimenti sino a' tempi di Teodorico ostrogoto, e vedendo che ancor prima di que' tempi erano i Napoletani cattolici, vollero, che ciocchè diceasi de' Napoletani infedeli, dovea intendersi de' Vandali, che allora sotto Odoacre eran congiunti a' Napoletani contra i Goti.

§. II. Venuta de' Bulgari: ed origine della lingua italiana.

Ma ritornando al Re Grimoaldo da noi in Benevento lasciato, questo Principe, vedendo già tutte a terra le fortune de' Greci, da poi ch'ebbe premiato Mitula Conte di Capua, al quale oltre ad aver data per isposa una sua figliuola, per la morte di Zotone, lo fece anche Duca di Spoleti, a Pavia sua regal sede si restituì. Mentre quivi è tutto inteso a gastigar la fellonia di Lupo Duca del Friuli, ecco che viene a lui Alezeco Duca de' Bulgari, il quale abbandonando, nè si sa per qual cagione, i suoi proprj paesi, entrato pacificamente in Italia co' suoi Bulgari, offre a Grimoaldo il suo servigio, cercandogli di voler abitare co' suoi in qualche luogo, che gli destinasse del suo dominio. I Bulgari erano usciti da quella parte della Sarmazia asiatica, ch'è bagnata dal fiume Volga; e dopo avere traversati tutti que' vasti paesi, che si stendono da questo fiume fin alle bocche del Danubio, lo passarono per la prima volta al tempo dell'Imperador Anastasio, e diedero spesso grandissimi guasti alla Tracia ed all'Illirico, e stabilironsi finalmente lungo il Danubio, in quel tratto di paese, che comprende le due Misie con la picciola Scizia, che vien detta oggidì Bulgaria dal nome di questi Popoli.

Il Re accoltolo benignamente, pensando potergli molto giovare a soccorrere e ajutare suo figliuolo contra i Greci, lo mandò in Benevento a Romualdo, al quale impose, che a lui colla sua gente assegnasse alcuni luoghi del Ducato beneventano, ove potessero abitare. Il Duca Romualdo graziosamente ricevendogli, diede per loro abitazione molte buone città di quel Ducato, cioè Sepino, Bojano, ed Isernia, con altre città e territorj vicini: ma volle, che lasciato il titolo di Duca (come che que' luoghi glieli assegnava, non in Signoria, nè perpetualmente), chiamar si facesse per l'avvenire Gastaldo, riputando forse ancora cosa inconveniente, che non avendo egli altro titolo, che di Duca, potesse anche un altro a se soggetto ritenerlo. Quindi anche avvenne, che diviso il Ducato beneventano in più Contee, essendo tutte al Duca di Benevento soggette, non avessero altro nome coloro, ch'erano destinati al governo delle medesime, che di Conti o di Gastaldi, e ritenessero que' luoghi, come dice Cujacio, Jure Gastaldiae, non perpetuo, proprioque Feudi Jure .

Ed ecco in questo anno 667 introdotta nel nostro Regno una nuova Nazione di Bulgari: gente, che per molti secoli abitò in quelle contrade, che ora Contado di Molise chiamiamo, e che se bene cento cinquanta e più anni da poi, quando Varnefrido scrisse la sua istoria, avessero appreso il nostro comune linguaggio italiano, non aveano però ne' tempi di quest'Istorico ancora perduto l'uso della lor propria favella; come egli rapporta nel lib. 5 de' gesti de' Longobardi alcapo 11, nel qual luogo dovrà notarsi, che scrivendo egli, che i Bulgari ritenessero nella sua età il proprio linguaggio, se bene parlassero ancora latinamente, quamvis etiam latine loquantur, non perciò dovrà intendersi, come si diedero a credere alcuni, che favellassero colla lingua latina romana, la quale ne' tempi, ne' quali scrisse Varnefrido, cioè verso il fine del nono secolo, era già andata presso al comune in disusanza, e solo nelle scritture, ma molto corrotta, era ritenuta: ed un'altra nuova popolare e comune, dalle varietà e mescolamenti e confusioni di tante straniere lingue colla latina cagionata, erasi già in Italia introdotta, che Italiana appellossi.

Nè bisogna dubitar punto, se in questa stagione avesse la lingua italiana preso piè e vigore, essendo ella più antica che altri non crede. Fin da' tempi di Giustiniano Imperadore attesta Fornerio essersi in Ravenna stipulato istromento, conceptum eo fere sermone, quo nunc vulgus Italiae utitur. Costantino Porfirogenito pur ne' suoi tempi verso l'anno 910 chiamò Città nova Benevento e Venezia. L'Autore degli Atti di Alessandro III presso il Cardinal Baronio, riferendo l'ingiurie dette dalle donne Romane ad Ottaviano Antipapa, dice che lo chiamavano lingua vulgari: smanta compagno. Ne' tempi poi di Federico II, già era comunissima, e resa ormai già vecchia: oltre di quel Romito calabrese, che secondo narra Riccardo di S. Germano andava gridando: Benedittu, laudatu e santificatu lu Patre: Benedittu, laudatu, e santificatu lu Fillu: Benedittu, laudatu, e santificatu lu Spiritu Santu, dell'istesso Federico, d'Enzio suo figliuolo bastardo, di Pietro delle Vigne, e di tanti altri di quel secolo, si leggono molte composizioni dettate in italiana favella.

Questa venne dagli Scrittori di questa età, e delle seguenti ancora, detta anche Latina; poichè si usava comunemente da que' medesimi antichi provinciali, che Latini o Romani, per distinguergli o da' Greci, o dai Longobardi, o dall'altre Nazioni, che vennero in Italia, erano appellati, il linguaggio de' quali, prima della corruzione, era il prisco latino; onde è che non solo Paolo Varnefrido, ma appo gli Scrittori molto a lui posteriori, il parlar latino comune e popolare, era lo stesso che il volgar italiano. Così Ottone frisingense loda i Longobardi de' suoi tempi già fatti Italiani, per l'eleganza del sermon latino, cioè dell'italiano, col quale parlavano così bene ed espeditamente. Nè in questi tempi il nostro idioma italiano altro nome avea, che di volgar latino: tale fu appellato nella fine del primo capitolo di Ser Brunetto. Così anche latine loqui presso Dante Alighieri, Petrarca, e Giovanni Boccacci, sono detti coloro, i quali non del prisco latino, ma col sermon nostro italiano parlavano, come accuratamente osservò anche il diligentissimo Pellegrino.

E da questa residenza, ch'ebbero varie Nazioni in molte parti del nostro Regno, è nata quella tanta diversità di linguaggi, ancorchè tutti parlassero italicamente, che oggi osserviamo nelle nostre province. Imperocchè fermati i Bulgari per più secoli in quelle città, ancorchè essi a lungo andare renduti già Italiani, deponessero il sermon proprio, ed il popolare linguaggio apprendessero, e l'antico cedesse al comune italiano; nientedimeno questa mescolanza di due Nazioni in un medesimo luogo portò, che l'italiano, se ben superiore, rimanesse alquanto contaminato; ed oltre alle nuove parole di quella straniera Nazione, quell'aria, o accento, o pur vocabolo dello straniero ritenesse. Così anche nell'altre parti del nostro Regno, come nel Sannio e negli Apruzzi, ove i Longobardi più lungamente si mantennero, lasciarono, oltre a' vocaboli, un'impressione diversa dalla comune italiana favella. Ed in quelle regioni, ove i Greci lungo tempo dominarono, come in alcune città della Calabria, ed in Napoli particolarmente, ancor oggi si ritiene molta aria di quel parlare, e si ritengono ancora molti vocaboli: nè è mancato chi di essi abbia voluto tesserne lungo catalogo, come fece il Capaccio dei vocaboli greci ritenuti anche oggi da' Napoletani, e de' quali nel comun parlare si vagliono. E non essendo finita qui la novità e varietà delle straniere genti, che invasero il Regno, ma succeduta una Nazione all'altra in varj tempi, ed anche in varie regioni di esso; quindi nacque il tanto vario e strano mescolamento, che oggi si vede.

Anche gli Arabi, o sieno Saraceni, lasciarono a noi la lor parte: questi fermati prima nel Garigliano, indi sparsi per le Calabrie, per la Puglia, ed in Pozzuoli, lasciarono fra noi varie parole, come per darne un saggio, sono quelle di Meschino, Magazzino, Maschera, Gibel, che significa monte; onde Gibel l'Etna per eccellenza s'appellò, e poi corrottamente Mongibello, dicendosi due fiate lo stesso; ed altre. E vi è, chi scrisse, che la rima data a' versi, non altronde, che dagli Arabi l'avessero prima i Siciliani e poi gli altri Italiani appresa, e che la portassero anche alle Spagne; e Tomaso Campanella, in conferma di ciò, ne recava in testimonio una canzone schiavona, ove ciò s'affermava, e ch'egli a memoria recitar soleva: donde poi l'appresero l'altre province d'Europa, ed arrivasse sino in Germania, siccome vedesi da quel Poema, o sian versi rimati d'Otfrido, che visse sotto Lodovico Pio, il qual crede Antonio Mattei, che fosse il più antico Scrittore, che oggi riconosca la Germania. Anzi, come vedremo ne' seguenti libri di questa Istoria, non altronde, che dagli Arabi venne a noi la filosofia, la medicina, la matematica e l'altre discipline, che per più secoli tennero occupate le nostre Scuole.

Ma essendo poi a' Longobardi, a' Greci, a' Saraceni succeduti i Normanni, e dapoi i Svevi, i Franzesi, gli Spagnuoli, gli Albanesi, e chi nò? si venne per questo, ancorchè tutte le nostre province ritenessero la medesima italiana favella, a quella diversità e mescolanza, che ora vediamo con tanta maggior maraviglia, quanto che non vi è luogo, benchè picciolo, che fosse nel Regno, che o nell'aria o nell'accento, e sovente ne' vocaboli non differisca, e dall'altro non si distingua: ma di ciò sia detto a bastanza, e forse non mancherà occasione di ragionarne altrove ad altro proposito.

§. III. Leggi di Grimoaldo, e sua morte.

Liberato intanto Grimoaldo da tutti gli sospetti e dalle cure militari, nel sesto anno del suo Regno fu tutto rivolto a' studj della pace, ed a ristabilire con nuove leggi il suo Imperio. Le leggi di Rotari per ventiquattro anni, da che furon promulgate, avevano nell'Italia poste profonde radici; a quelle cominciavano ad accomodarsi non pure i Longobardi, per li quali erano state fatte, ma i provinciali medesimi, ancorchè loro non fosse stato mai interdetto l'uso delle romane. Ma col correr degli anni, come suole accadere, fu osservato non essersi per le medesime proveduto a tutto ciò che era di mestieri, e molte di esse, venendosi all'uso ed alla pratica, sembravano alquanto dure e crudeli. Quindi Grimoaldo, prudentissimo Principe, volendo riformar in parte l'editto di Rotari, ed accrescerlo d'altre leggi, che gli parvero più utili, convocati, come era il loro costume, nell'anno 668, che fu il sesto del suo Regno, i Longobardi e loro Giudici, all'editto di Rotari aggiunse nuove leggi, e riformò le già fatte, ed un nuovo editto promulgò con questo proemio: Superiore pagina hujus Edicti legitur, quod adhuc annuente Domino memorare poterimus, de singulis causis, quae praesenti non essent adfictae in hoc Edicto adjungere debeamus, ita ut causae, quae judicatae, et finitae sunt, non revolvantur. Ideo ego Grimoaldus vir eccellentissimus, Rex gentis Longobardorum, anno, Deo propicio, sexto Regni mei, mense Julio, Indictione undecima, per suggestionem Judicum, omniumque consensum, quae illis dura, et impia in hoc Edicto visa sunt, ad meliorem sensum revocare praevidimus .

Questo editto di Grimoaldo si legge nel mentovato Codice Cavense dopo quello di Rotari, e non contiene più che undici capitoli, i cui titoli questi sono. I. Si quis hominem nollendo occiderit. II. Ut causae finitae non revolvantur. III. De servo, qui 30 annos servivit. IV. De 30 annorum libertate. V. De culpa servorum. VI. De 30 annorum possessione. VII. De successione nepotum. VIII. De uxoribus dimittendis. IX. De crimine uxoris. X. Si mulier, aut puella super alia ad maritum intraverit. XI. Si ancilla furtum fecerit. Dopo i quali sieguono i capitoli, o vero le leggi.

Il Compilatore de' tre libri delle leggi longobarde, inserì ancora alcune di queste leggi di Grimoaldo nel primo e secondo libro, sino al numero di sette. La prima si legge nel libro primo sotto il tit. de furtis, et servis fugacibus; la seconda sotto il tit. de culpis servorum; la terza nel libro secondo sotto il tit. de eo, qui uxorem suam dimiserit; tre altre nello stesso libro sotto il tit. de praescription. e la settima nel medesimo libro secondo sotto il tit. qualiter quisque se defendere debeat.

Dopo avere Grimoaldo così bene adempiute le parti d'un ottimo Principe, ecco che per un accidente stranissimo è tolto a' mortali; poichè avendosi fatto salassare nel braccio, dopo nove giorni del salasso, mentre egli fa forza in caricando un arco, gli si apre la vena, nè con tutti gli argomenti possibili potendosi chiudere, esangue se ne morì nel nono anno del suo Regno, che cadde nel 672 dell'umana Redenzione. Fu Grimoaldo fornito d'ogni rara virtù, e per la sua sagacità e singolar accortezza meritamente fu al Trono portato: Principe, che volle anche per la sua pietà lasciar di se lodevole ed onorata memoria; poichè se bene nell'eresia d'Arrio fosse nato e cresciuto, a' conforti di Giovanni Vescovo di Bergamo, uomo di singolar bontà e dottrina, l'abbominò, abbracciando la religion cattolica; nè contento di ciò, molte chiese rifece, ed altre di nuovo costrusse, fra le quali celebre fu quella dedicata ad Alessandro nell'isola di Dulcheria, e l'altra in Pavia al Santo Vescovo Ambrogio. E fu questo esempio così memorando, che gli altri Re suoi successori furon tutti cattolici, e si estinse in lui l'Arrianesmo appo tutti i Longobardi in Italia.

Share on Twitter Share on Facebook