CAPITOLO XII.

Dell'esterior politia ecclesiastica nel Regno de' Longobardi, da Autari insino al Re Luitprando; e nell'Imperio de' Greci, da Giustino II insino a Lione Isaurico.

Grandi che fossero stati in questi tempi i progressi de' Patriarchi di Costantinopoli in Oriente, non aveano però infin ad ora stesa la loro patriarcale autorità sopra queste nostre province. Cominciavano bensì pian piano, sostenuti dal favore degl'Imperadori, a metter mano in alcune chiese poste in quelle città, che ancor ubbidivano all'Imperio greco. Prima introdussero di dar a' Vescovi il titolo d'Arcivescovo, poichè non essendo questo nome di potestà, come il Metropolitano, ma solo di dignità, fu cosa molto facile a' semplici Vescovi d'ottenerlo, ed a' Patriarchi di Oriente di darlo. Così leggiamo, che sin da' tempi dell'Imperador Foca, che resse quell'Imperio dall'anno 602 in fino al 610, cominciarono i Patriarchi di Costantinopoli, secondo il solito fasto de' Greci, a dare a molti nostri Vescovi delle città, che a loro ubbidivano, questo spezioso nome d'Archivescovo, come fecero, non senza collera e sdegno de' romani Pontefici, con quello d'Otranto, di Bari, e da poi anche con quel di Napoli. Questi furono i primi passi, che diedero in queste nostre parti: ma in Oriente per essere state le altre città patriarcali occupate da' Barbari, e posti a terra que' tre Patriarchi, tanto che non potè di lor conservarsi continuata successione, si rendè il costantinopolitano più altiero e fastoso. Quindi Giovanni il Digiunatore, che fu eletto Patriarca di Costantinopoli nell'anno 585, imperando Maurizio, prese il fastoso titolo di Patriarca Ecumenico.

Ma dall'altra parte non erano minori i progressi del Patriarca di Roma in Occidente, sicchè non si potesse contrastare a tanta alterigia, e far contrappeso a tanta potenza. E sopra ogn'altro in questi medesimi tempi erasi la Cattedra di Roma grandemente innalzata per la santità e dottrina di Gregorio il Grande, che nell'anno 590 vi sedette. Questo Pontefice mantenne l'autorità e diritti della sua sede, e fece valere la sua autorità in tutto Occidente: si oppose al Patriarca Giovanni, non approvando il titolo fastoso d'Ecumenico, come ambizioso, e che riguardava a diminuire la potestà e la giurisdizione degli altri Vescovi; onde fu il primo, che volle nomarsi e sottoscriversi Servo de' servi di Dio, per opporlo al titolo fastoso d'Ecumenico del Patriarca di Costantinopoli.

Proccurò ancora a questo fine mantenersi nella grazia degl'Imperadori d'Oriente, di cui egli si professava suddito, poichè Roma ubbidiva a que' Principi, e per rendersi a coloro benemerito, si oppose sempre a' sforzi de' Longobardi, vegghiando non pure alla difesa di quella città, ma di tutte le altre, e di Napoli particolarmente, perchè si fosse mantenuta in Italia la Signoria degl'Imperadori d'Oriente, per fare contrappeso alle forze de' Longobardi, che aspiravano alla universal Monarchia di tutta Italia, e discacciarne da quella affatto i Greci. Soccorreva perciò i popoli colle sue grandi liberalità: e nel sacco che i Longobardi diedero a Crotone, ove ridussero que' cittadini in cattività, egli s'adoperò tanto con opere e con uficj, che ne furono riscattati. Attese perciò con vigilanza particolare alla cura delle chiese d'Italia e di Sicilia, e di tutte queste nostre province, le quali come prima non riconoscevano altro Patriarca, che lui, e gli altri romani Pontefici suoi successori. Così veggiamo, che per le ordinazioni de' Vescovi di Sicilia, di Napoli, di Capua, di Miseno, di Benevento, della Puglia, della Calabria, della Lucania e dell'Apruzzo, a lui si ricorreva, e le contese insorte per l'elezioni da lui si terminavano. Pose ancora tutta la sua applicazione agli affari della Chiesa universale, e s'affaticò non solo d'estinguere la divisione, ch'era nella Chiesa tra i Latini ed i Greci, ma eziandio per liberar l'Affrica dallo scisma de' Donatisti: e mandò il Monaco Agostino co' suoi compagni in Inghilterra per convertire que' Popoli. Pose ogni studio, perchè per mezzo di Teodolinda i Longobardi, deposta l'Idolatria e l'Arrianesmo, passassero nella fede cattolica. Vietò nondimeno di costringere gli Ebrei colla violenza a farsi Cristiani. E sopra tutto attese alla conservazione della disciplina ecclesiastica, e di fare osservare inviolabilmente i canoni in tutte le chiese, tenendo per fermo, che in ciò massimamente risplendesse la potestà e l'autorità, che gli concedeva il Primato della sua sede.

Le medesime pedate furon calcate da' successori di Gregorio; poichè se bene, morto costui nell'anno 604, gli succedesse Sabiniano, che non tenne quella sede più di cinque mesi e vent'uno giorni; succeduto che vi fu Bonifacio III, questi, come che era stato lungo tempo Nunzio appresso l'Imperador Foca successore di Maurizio, aveva colla sua prudenza trovato modo d'insinuarsi nella di lui grazia; e se dee prestarsi fede ad Anastasio, Beda, Varnefrido, ed a molti altri Autori, nella pretensione, nella quale erano entrati i Patriarchi di Costantinopoli intorno al Primato sopra tutte le chiese, ottenne Bonifacio da Foca rescritto, con cui dichiaravasi, che la Chiesa romana dovesse avere il Primato sopra tutte le chiese, e 'l solo Pontefice romano avesse portato il titolo di Patriarca Ecumenico: il che narrasi fosse stato fatto dall'Imperador Foca in odio di Ciriaco Patriarca di Costantinopoli, ch'era succeduto a Giovanni il Digiunatore nell'anno 596, e ben presto morì.

Bonifacio IV, che succedè al III, proccurò anche egli mantenersi nella grazia dell'Imperadore contra i Longobardi, onde ottenne da Foca il tempio del Panteon, ch'era in Roma, per farne una chiesa, come fece, ch'e quella che ora chiamano la Rotonda, dalla sua figura. Tutti gli altri suoi successori tennero questo stesso tenore, ed il Pontefice Vitaliano, allorchè l'Imperador Costanzo venne in Roma l'anno 663, lo accolse con molti segni di stima e di rispetto: siccome fecero tutti gli altri romani Pontefici, che stettero sempre fermi nell'ubbidienza degl'Imperadori d'Oriente contra i Longobardi, insino a Lione Isaurico, il quale volendo sostenere l'errore degli Iconoclasti contra gli sforzi de' Pontefici Gregorio II e III, pose tutto in disordine, come si vedrà nel libro seguente di questa Istoria.

Dall'altra parte i Longobardi, quantunque per la maggior parte idolatri, ed altri arriani, non turbarono la pace delle nostre chiese, e sotto la cura de' Pontefici romani, così come prima erano, le lasciarono. Il Re Autari verso l'anno 587 depose il Paganesimo, ed abbracciò la religione cristiana, ma, seguendo l'esempio de' Re goti, la ricevette imbrattata dell'eresia arriana. I Longobardi ad esempio del loro Re fecero il medesimo; quindi lasciandosi a' provinciali intatta la loro religione, si videro in alcune città d'Italia due Vescovi, l'uno arriano che presedeva a' Longobardi convertiti, l'altro cattolico che governava le Chiese cattoliche de' provinciali. Le nostre province però non videro questa difformità; poichè quelle che ancor rimanevano sotto l'ubbidienza degl'Imperadori d'Oriente erano tutte cattoliche: l'altre che passarono sotto la dominazione de' Longobardi, ritennero intatta quella medesima religione, che i Goti, e sopra tutto il gran Re Teodorico loro avea conservata; nella quale il Re Autari, e gli altri Re suoi successori, le mantenne. A tutto ciò s'aggiunse da poi la pietà della Regina Teodolinda, donna religiosissima e cattolica, la quale, ancor che col suo primo marito Autari non le fosse riuscito di far loro deporre l'Arrianesimo, con Agilulfo però suo secondo marito potè tanto, per le grandi obbligazioni, che a lei professava, che gli fece abbracciar la religione cattolica; ond'è che S. Gregorio M. cotanto si mostra obbligato a questa Principessa, alla quale dedicò i suoi quattro libri delle Vite dei Santi, e tante affettuose epistole di lui si leggono piene d'encomj, e di lodi dirette a questa Regina. Quindi avvenne, che molti Longobardi, seguendo l'esempio del loro Principe, si rendessero ancor essi, cattolici, e perciò molte chiese e monasterj nel Regno di Agilulfo fossero edificati: donate perciò molte possessioni a' medesimi, e che i Vescovi, che prima nelle città di Longobardia eran depressi, fossero stati sollevati, ed in sommo onore avuti. E quantunque nel Regno di Ariovaldo, perfido Arriano che ad Agilulfo succede, fossesi turbata quella pace, che Agilulfo gli avea data; nulladimanco succeduto poi al Trono Rotari, Principe, ancorchè arriano, di piacevoli costumi, e che lasciò in libertà di vivere, così i Longobardi, come i provinciali, con quella religione, che essi volessero, ritornarono le cose nella pristina quiete e tranquillità, nella quale maggiormente si stabilirono sotto il Regno di Ariperto, molto propenso ed inclinato alla religion cattolica.

Ma poscia i nostri Cistiberini longobardi furono i primi a lasciare affatto l'Arrianesimo, mercè di due illustri Vescovi, Barbato di Benevento e Decoroso di Capua. Barbato dopo la sconfitta, che i Longobardi beneventani sotto il loro Duca Romualdo diedero ai Greci, purgò quella Nazione non men dell'Idolatria, che dell'Arrianesimo, e divennero tutti cattolici. Il simile avvenne de' Longobardi capuani per Decoroso loro Vescovo; tanto che in tutte quelle province, che eran passate sotto il loro dominio, l'Arrianesimo presso a' Longobardi istessi restò affatto abolito. Le altre regioni, che ancor duravano sotto i Greci, ancorchè l'Oriente spesso partorisse dell'eresie e degli errori intorno a' dogmi: onde mal s'accordavano quelle chiese con queste nostre d'Occidente, e sopra tutto in questi tempi per quella de' Monoteliti; nientedimeno la vigilanza de' romani Pontefici, sotto la cui custodia e governo ancor duravano, fece sì, che non rimasero di quegli errori le nostre chiese contaminate.

Ma non molto da poi, ciò che avventurosamente avvenne a' nostri Cistiberini longobardi sotto Romualdo Duca di Benevento, accadde a' Longobardi Subalpini sotto Grimoaldo Re d'Italia: questo Principe, fattosi cattolico, favorì tanto le Chiese, ed ebbe tanta avversione alla dottrina degli Anziani, che estinse affatto in tutta Italia l'Arrianesimo. Quindi s'accrebbero le tante lor ricchezze: donde parimente ne nacque la sregolatezza della maggior parte de' Cristiani, e lo scadimento della disciplina ecclesiastica.

Questi Principi longobardi, ad esempio di tutti gli altri Principi dell'Occidente e degl'Imperadori d'Oriente ancorchè fatti cattolici, mantennero però nei loro dominj quelle medesime prerogative e preminenze, che i Re goti ritennero, per quel che s'attiene all'esterior politia ecclesiastica; ed avvegnachè i Pontefici romani facessero valere la loro autorità in Occidente; nulladimanco i Principi, e spezialmente nella Francia e nella Spagna, vollero, fra l'altre cose, autorizzare colle loro leggi ed editti i Sinodi provinciali, che in questo secolo furono assai frequenti, e di lor ordine fatti convocare, per dar riparo agli abusi, ed alla corrotta disciplina e sregolatezza degli Ecclesiastici. Dall'altra parte gl'Imperadori d'Oriente non pur seguitavano le vestigia de' loro predecessori, ma presero molta parte negli affari della religione, non potendo i Pontefici romani farvi tutta quella resistenza, che avrebbono voluto. L'Imperador Maurizio, calcando le medesime pedate degli altri Imperadori suoi predecessori, promulgò legge proibente, che i soldati si ricevessero ne' monasterj: S. Gregorio si doleva della legge, ma non attaccava la potestà del Legislatore, e con molta riserva esagerava, che quella fosse ingiusta, e contra il servigio di Dio: quasi che volesse con ciò impedirsi agli uomini il cammino d'una maggior perfezione. Maurenzio nostro Duca di Napoli obbligava i Monaci a far le sentinelle per guardia della città, e ripartiva le truppe per l'alloggio in ogni quartiere, non perdonando nè anche a' monasterj di donne, di che parimente abbiamo le doglianze di questo Pontefice.

In Oriente gli Imperadori disponevano pure delle diocesi e delle metropoli, e regolavano i Troni e le precedenze, accrescevano ed estenuavano le pertinenze de' Metropolitani a lor talento. E dall'altra parte i nostri Duchi di Benevento fecero il medesimo nel lor ampio Ducato: a richiesta di Barbato Vescovo di quella città, il Duca Romualdo unì al Vescovato di Benevento quello di Siponto: ecco le richieste di Barbato a Romualdo, come si legge ne' suoi atti: Si munus, e' dice, tuae salutis offerre studes, unum impende beneficium, ut B. Michaelis Archangeli domus, quae in Gargano sita est, et omnia, quae sub ditione Sipontini Episcopatus sunt, ad sedem Beatissimae Genitricis Dei, ubi nunc indigne praesum, in omnibus subdas; et quoniam absque cultoribus omnia depravantur, unde nec sedulum officium persolvi potest, melius a nobis disposita ubi proficient in salutem. Romualdo assentisce a questa dimanda, e ne gli fa diploma: Illico Princeps viri Dei consentit petitionibus, eo ordine, ut fati sumus, et sicut mos est, per PRAECEPTUM Genitrici Dei universa concessit; et ut resonet in futurum, anathematizaverat, qui contra haec agens irritam hanc facere voluerit concessionem. Ciò che da poi volle Barbato, che anche se gli concedesse da Papa Vitaliano; poichè de' romani Pontefici (a' quali il Sannio e la Puglia, come Province suburbicarie, appartenevansi) uffizio era d'unire e separare le lor Chiese; siccome sovente erasi praticato dal Pontefice Gregorio, che nell'anno 592 unì la Chiesa di Cuma a quella di Miseno, ancorchè tal unione poco durasse; ed erasi praticato nell'altre Province suburbicarie. Perciò appresso Vipera ed Ughello si legge il Breve di Vitaliano diretto al Vescovo Barbato, ove fra l'altre cose si leggono Concedentes tibi, tuaeque praefatae Reverendissimae Beneventanensi Ecclesiae, Bibinum, Asculum, Larinum, et Ecclesiam Sancti Michaelis Archangeli in Gargano, pariterque Sipontinam Ecclesiam quae in magna inopia, ei paupertate esse videtur, et absque cultoribus, et Ecclesiasticis officiis nunc cernitur esse depravata cum omnibus quidem eorum pertinentiis, et omnibus praediis cum Ecclesiis, ec. Onde avvenne che da questi tempi di Papa Vitaliano, la Chiesa Sipontina fosse unita a quella di Benevento, e che i Vescovi beneventani nel corso di molti anni finchè di nuovo quella non fu separata, si dicessero anche Vescovi di Siponto.

Non fu per tanto, così nelle province, ch'eran passate sotto la Signoria de' Longobardi, come in quelle ch'erano rimase sotto i Greci, variata la politia ecclesiastica; ma per ciò che s'attiene a questa parte, fu ritenuta quella stessa forma, che tennero sotto i Goti Re d'Italia, e sotto Giustiniano e Giustino Imperadori d'Oriente.

§. I. Elezione de' Vescovi, e loro disposizione nelle città di queste nostre province.

I Vescovi erano ancora eletti dal Clero e dal Popolo, ed ordinati dal Pontefice romano, come prima; ma i Principi, come se dal Popolo fosse a loro devoluta tal potestà, nell'elezione ne volevano la maggior parte; onde ne nacque, che facendo essi eleggere alcuni, che non avevano nè meriti, nè scienza, nè capacità, erano le Chiese mal governate. Dal registro dell'epistole di S. Gregorio si legge, che il Pontefice romano, esercitando nelle nostre Chiese l'autorità sua di Metropolitano insieme, e di Patriarca, non pur ordinava gli eletti dal Clero e dal Popolo ma regolava l'elezioni, diffiniva le contese, che forse insorgevano, e sovente spogliava i Vescovi delle loro sedi, quando gli conosceva immeritevoli. Così de' Vescovi di Napoli leggiamo, che tenendo nell'anno 590 la Cattedra di Napoli Demetrio, fu costui per li molti e gravi suoi delitti nel seguente anno scacciato da Gregorio, il quale dopo averlo deposto, scrisse al Clero e agli Ordini di questa città, cioè a' Nobili ed al Popolo, che in luogo di Demetrio n'eleggessero un altro; ed intanto egli vi mandò il Vescovo Paolo a regger quella Chiesa, insino che a quella non si fosse dato il successore. I Napoletani si trovavano così ben soddisfatti di Paolo, che scrissero al Pontefice, pregandolo, che l'avesse lor dato per Vescovo: Gregorio prese tempo per deliberare, ed intanto avendo Paolo nel Castello di Lucullo, che oggi chiamiamo dell'Uovo, ricevuto un affronto da alcuni servi d'una Dama napoletana chiamata Clemenzia, pregò Gregorio che lo facesse ritornar presto alla sua Chiesa; onde i Napoletani, non convenendo fra loro nella elezione d'un lor cittadino, e scorgendo che Paolo non l'avrebbe accettato, elessero Florenzio Sottodiacono del Papa, che allora si trovava in Napoli: ma questi tosto scappò via, e fuggì in Roma rifiutando il carico; tanto che Gregorio scrisse a Scolastico Duca di Napoli, esortandolo a convocare i Nobili ed il Popolo della città per l'elezione d'altra persona; e, quella eletta, mandassero il decreto in Roma, perchè potesse ordinarla: dicendogli ancora, già che due volte aveano eletti uomini stranieri, che se non trovavan fra' cittadini persona idonea a tal carica, almeno eleggessero tre uomini savj e da bene, a' quali tutti gli Ordini dassero la lor facoltà, e gli mandassero in Roma, affinchè, facendo le veci della città, venuti in Roma, potessero insieme col Pontefice consultare, e far sì che finalmente trovassero persona irreprensibile, nella quale consentissero, e stante la loro elezione potesse il Papa ordinarla, e mandarla alla vedova Chiesa.

Consimile epistola scrisse Gregorio a Pietro Sottodiacono della Campagna, che reggeva il patrimonio di S. Pietro di questa provincia, al quale incaricò, che facesse convocare il Clero della Chiesa di Napoli, imponendogli, che parimente eleggessero due o tre di loro, a' quali dassero tutta la facultà, e gli mandassero in Roma, dove uniti con gli altri rappresentanti la Nobiltà e 'l Popolo, si potesse trattar dell'elezione ed ordinazione del nuovo Vescovo.

Chiamavasi questa elezione per compromissum, la quale soleva praticarsi ne' casi di divisione e di discordie, acciocchè, unendosi la volontà ed i suffragi di molti in due o tre persone savie, potessero quelle, per evitare i tumulti, senza contrasto, elegger colui, che stimassero più meritevole e degno: in cotal maniera fu in fine da' Compromessori eletto in Roma, nel mese di Giugno dell'anno 593, Fortunato, ed ordinato che fu dal Papa, se ne venne in Napoli, dove fu da' Napoletani suoi figliuoli cortesemente ricevuto, e resse questa Chiesa per molti anni con tanta prudenza e vigilanza, che ne fu da Gregorio sommamente commendato, leggendosi perciò molte sue epistole dirizzate a questo Vescovo.

Morto Fortunato, per dargli successore insorsero nuovi contrasti; ed essendosi divisi i suffragi, due Vescovi dal Clero e dal Popolo furono eletti: un partito elesse Giovanni Diacono, l'altro Pietro parimente Diacono. Tosto si ebbe ricorso al Pontefice Gregorio perchè fra i due eletti, quello che reputasse il più degno confermasse ed ordinasse. Ma niun di essi piacque: Giovanni fu notato d'incontinenza, perchè teneva una figliuola, testimonio di sua debolezza: Pietro come usurajo e troppo semplice, fu riputato indegno ed inutile; onde fu rescritto a' Napoletani, che eleggessero altri, come poi fecero.

Questo medesimo costume vediamo praticato nell'elezioni de' Vescovi capuani, di Cuma, di Miseno, di Benevento, di Salerno, d'Apruzzi, e di tutte le altre Chiese di queste nostre province, che come suburbicarie, al Pontefice romano s'appartenevano: Palermo ancora, Messina, e l'altre Chiese di quell'isola, poichè la Sicilia fu anche Provincia suburbicaria, serbavano il medesimo istituto.

L'elezione, secondo il prescritto de' canoni, dovea cadere in uno, che fosse della Chiesa stessa, o a quella incardinato, non già di altre Chiese, e solo quando fra' cittadini non si trovava persona idonea, il che rade volte accadeva, ricorrevasi agli stranieri, i quali fossero o nella pietà, o nella prudenza e dottrina eminenti. Così leggiamo che Gregorio, dovendosi eleggere il Vescovo in Capua, discordando i Capuani nell'elezione, ed alcuni facendo nomina di soggetti stranieri, col pretesto, che de' nazionali non vi fosse persona degna, rispose che ciò parevagli molto strano, e che per tanto facessero migliore scrutinio sopra de' loro cittadini, e se veramente ne pur uno ve ne fosse degno, allora avrebbe egli provveduto di persona meritevole.

Per la morte di Liberio, Vescovo di Cuma, accaduta nell'anno 592, quest'istesso Pontefice mandò Benenato Vescovo di Miseno a governarla infino che non se gli dasse il successore. Discordavano i Cumani per l'elezione, intendendo alcuni elegger persona d'altra Chiesa; ma Gregorio fece sentire a Benenato, che non permettesse far eleggere persona straniera, se non nel caso, che a lui costasse non esservi fra' Cumani uomo alcuno meritevole d'essere innalzato a quella dignità.

Quest'istesso vedesi praticato nell'elezione del Vescovo di Palermo. Per la morte di Vittore era rimasa vedova quella Chiesa: S. Gregorio vi mandò tosto Barbato Vescovo di Benevento, perchè la governasse fin tanto che si fosse dato il successore. I Palermitani discordi nell'elezione d'un nazionale, pensavano eleggere Cherico straniero; se gli oppose Gregorio, e scrisse a Barbato, che non permettesse che si eleggesse persona d'altra Chiesa, nisi forte inter Clericos ipsius Civitatis nullus ad Episcopatum dignus, quod evenire non credimus, poterit inveniri.

In tal maniera si facevano l'elezioni de' Vescovi, quando volevasi attendere l'antica disciplina della Chiesa, ed il prescritto de' sacri canoni. Così ancora avrebbe dovuto farsi l'elezione del Vescovo di Roma dal Clero e dal Popolo, nè aveano in ciò da impacciarsene gli Imperadori d'Oriente. Ma cominciavano già in questi tempi i Principi ad occupare le ragioni del Popolo e del Clero in queste elezioni: sia per timore, sia per compiacenza, sovente colui era eletto, che al Principe piaceva. Gl'Imperadori d'Oriente, come padroni di Roma, aveano gran parte nell'elezione dei Papi, ch'erano loro sudditi, e fu anche introdotto costume, che senza lor commessione niuno potesse esser ordinato: onde l'eletto dovea mandare in Costantinopoli a richiederne il consenso o la permissione dell'Imperadore. Scrive Paolo Varnefrido, che quando, dopo la morte di Benedetto Bonoso, fu nell'anno 577 innalzato a quella sede Pelagio II, perchè Roma in que' tempi era cinta di stretto assedio dai Longobardi, nè alcuno poteva uscire da quella città, non potè Pelagio mandare in Costantinopoli all'Imperadore perchè v'assentisse, onde fu ordinato Pontefice senza commessione del Principe: levati poi gli impedimenti, solevano i Pontefici romani mandar lettere agl'Imperadori, nelle quali, allegando gl'impedimenti avuti, cercavano di scusarsi, e che alla fatta ordinazione consentissero. San Gregorio il Grande eletto Papa, ricusando d'esserci, scrisse all'Imperadore Maurizio, istantemente supplicandolo, che non prestasse il suo assenso all'elezione; ma l'Imperadore che tanto si compiacque dell'elezione, non volle farlo.

Nelle nostre province pure i nostri Principi nell'elezione de' Vescovi delle loro città vi vollero la lor parte. Così leggiamo alcuna volta esser accaduto nell'elezione de' Vescovi di Benevento, come fu l'elezione di Barbato nell'anno 663, seguita per opera del Duca Romualdo. De' Vescovi napoletani pur lo stesso si legge, e particolarmente del Vescovo Sergio, il quale dal Duca di Napoli Giovanni, fu, dopo la morte di Lorenzo, innalzato a quella sede: ma questi casi avvenivano fuori d'ordine. La disciplina era che l'elezione s'appartenesse al Clero ed al Popolo, siccome l'ordinazione al romano Pontefice.

La disposizione de' Vescovi in queste nostre province era la medesima de' secoli precedenti. E per quel che s'attiene alla loro autorità e giurisdizione, la loro conoscenza era ristretta come prima nelle cause ecclesiastiche, dove procedevasi per via di censura: non avevano giustizia perfetta, non Tribunali, non Magistrati, e la loro cognizione non più si stese di quella che Giustiniano avea lor data in quella sua Novella. Intorno all'onore e potestà era l'istessa, e circoscritta da' medesimi confini. Erano nelle città Vescovi solamente, non avea alcun d'essi acquistato ancora autorità di Metropolitano: nè alcuno sotto di se avea Vescovi suffraganei e dipendenti; ma ciascuno de' Vescovi reggeva la sua Chiesa ed il Popolo a se commesso. Non ancora i Patriarchi di Costantinopoli aveano invase le Chiese nostre, sicchè alcune ne avessero potuto render metropoli, ed innalzare i loro Vescovi a Metropolitani, con sottoporle al Trono di Costantinopoli, siccome fecero da poi nell'imperio di Lione Isaurico, e degli altri Imperadori d'Oriente suoi successori: solo, come si è detto d'alcuni Vescovi delle città all'Imperio greco soggette, cominciavano, secondo il fasto de' Greci, ad esser decorati del nome di Arcivescovi, non senza sdegno però de' romani Pontefici, i quali riprendevan acerbamente que' Vescovi, che lo prendevano.

Alcuni credettero, che il Vescovo di Napoli prima di S. Gregorio M. o almeno da questo Pontefice, fosse stato innalzato agli onori di Metropolitano e di Arcivescovo. Lo provano da quella iscrizione, che si legge nel decretale, sotto il titolo de statu Monac. ivi: Gregorius Archiepiscopo Neapolis; e sotto l'altro de religiosis domibus, ivi Gregorius Victori Archiep. Neap. Ma chi non vede la manifesta scorrezione del Codice vulgato, poichè negli emendati la prima si legge così: Gregorius Fortunato Episcopo Neapolitano, siccome anche legge Gonzalez: e la seconda: Gregorius Victori Neapolis Episcopo? Oltrechè nel registro dell'epistole di S. Gregorio riconosciuto ed emendato in Roma, donde quel testo si dice trascritto, questo titolo non si vede; nè tra l'epistole di S. Gregorio si legge questa decretale, che si dice indirizzata a Vittore. Quindi i nostri più accurati Scrittori, come il Caracciolo, e 'l Chioccarelli, riprovarono con molta ragione questa lor credenza, ed in tempi posteriori pongono l'elevazione di questa sede in metropoli.

Altri dalla disposizione, che presero queste nostre province nel Ponteficato di Gregorio, presero argomento, che fin da questi tempi si fosse Napoli fatta metropoli. Napoli, essi dicono, avea in questi tempi il suo Duca: l'altre città Conti e Governadori. Il Duca secondo la politia dell'Imperio presedeva a più città della provincia, che compongono il Ducato. Il Conte presedeva ad una città sola; ond'è che nelle leggi degli Vestrogoti si dice Duca di provincia, e Conte di città; e Fortunato al Conte Sigoaldo gli dice:

Qui modo dat Comitis, det tibi jura Ducis.

Regolarmente dodici città erano a' Duchi sottoposte, e queste città si nomavano Contadi, onde il Duca presideva a dodici Conti, siccome notò Pietro Piteo per quel luogo d'Aimoino: Pipinus domum reversus, Grifonem more Ducum duodecim Comitatibus donavit; e Camillo Pellegrino a cagion di molti esempj, che si leggono appresso Gregorio Turonese nella sua Appendice. Quindi Guglielmo Durando osservò, che adattandosi la politia della Chiesa a quella dell'Imperio, le città ducali ebbero gli Arcivescovi, e le Contee i Vescovi, avendo corrispondenze gli Arcivescovi co' Duchi, ed i Vescovi con li Conti. Così Napoli, fatta ora città ducale, ed il suo Ducato, ancorchè fin qui non molto si stendesse come si stese da poi, abbracciando nulladimanco le città vicine intorno al Cratere, siccome Pompei, Erculano, Acerra, Nola, Pozzuoli, Cuma, Miseno, Baja ed Ischia; potè in questi tempi divenir metropoli, ed il suo Vescovo rendersi Metropolitano.

Ma siccome egli è vero, che la politia di queste nostre chiese col correr degli anni si andava adattando alla disposizione o politia dell'Imperio, come vedremo ne' secoli seguenti; nientedimeno ne' tempi nei quali siamo, alla disposizione de' Ducati, siano dei Longobardi, siano de' Greci, non si adattò la politia ecclesiastica: e la disposizione delle nostre chiese, e di quelle d'Italia fu tutta diversa: onde fallace argomento è questo di dare ora Arcivescovi alle città ducali. Puossi vedere in questi tempi città più cospicua ed eminente in queste nostre regioni quanto Benevento, capo di un Ducato così vasto, che abbracciava molte province, e sede de' Duchi beneventani? e pure il suo Vescovo non era Metropolitano, nè Arcivescovo, avendo acquistato questa prerogativa molto tempo da poi, cioè nell'anno 969 nel Ponteficato di Giovanni XIII come diremo. Spoleto capo d'un altro insigne Ducato, non ebbe Arcivescovo. Brescia, Trento ed altre città di Longobardia decorate dai Principi longobardi con titoli di Ducati, non ebbero in questa età, ma molto dapoi, i loro Arcivescovi; anzi nè Brescia, nè Spoleto l'acquistaron mai. Gaeta ebbe pure il suo Duca, ma non giammai Arcivescovo. Capua, Bari, Reggio, Salerno città cospicue, e molte altre di quelle regioni, che ubbidivano a' Greci, non ebbero se non nel decimo secolo, ed altre in tempi più posteriori, i loro Metropolitani da' romani Pontefici; ancorchè i Patriarchi di Costantinopoli altramente ne disponessero, come ne' seguenti libri diremo. Non fu dunque Napoli, come lo confessano l'istesso P. Caracciolo, ed altri nostri Scrittori, fatta metropoli in questi tempi. Fu ella adorna di questa dignità nel decimo secolo, nel Ponteficato di Giovanni XIII, dopo Capua e Benevento, come diremo a suo luogo: non tutte l'altre chiese di queste nostre province aveano ancora ottenuto questa prerogativa: erano soli Vescovi coloro, che presidevano alle città per grandi ed illustri che fossero, e sede de' Duchi. Egli è però vero, che col correr degli anni, innalzandosi alcune città ad esser capo e metropoli o d'un Ducato, o d'un Principato; e cominciando nel decimo secolo i Pontefici romani ad esercitare in queste nostre province nuove ragioni Patriarcali, con ergere i Vescovi a Metropolitani in mandandogli il pallio; la politia e disposizione ecclesiastica venne ad adattarsi e a corrispondere alla politia dell'Imperio.

Egli però è altresì vero, che fin da questi tempi s'incominciarono a gittare i fondamenti della nuova politia così dell'Imperio, come del Sacerdozio. Così da questi tempi vediamo, che al Vescovo di Benevento s'unirono le chiese di Siponto, di Bovino, Ascoli e Larino. Al Vescovo di Napoli quelle di Cuma, Miseno e Baja s'appartenevano; non già che i Vescovi di queste città lo riconoscessero per Metropolitano, ma per onore della città ducale, e come loro metropoli, per quel che riguardava la politia dell'Imperio, gli accordavano i primi onori, poichè tra' Vescovi di quel Ducato era riputato il primo. Col corso degli anni, oltre al Ducato di Benevento e quello di Napoli, sursero ancora il Ducato di Capua e l'altro di Salerno, i quali con quello di Benevento s'innalzarono poi a' Principati. Amalfi ebbe in appresso anche il suo Duca, siccome Sorrento, e si eressero in Ducati. Bari poi ebbe anche il suo Duca. Alcune città della Puglia e della Calabria, de' Bruzj e Lucania, fatte parimente capi e metropoli di quelle regioni, si renderono più cospicue dell'altre; onde secondo la politia dell'Imperio, ricevettero poi i Metropolitani, ed i Vescovi delle città minori di quelle province rimasero lor suffraganei. Quindi avvenne, che quanto più si stendeva il lor Ducato o provincia, più suffraganei avessero: e per questa cagione, poichè il Ducato beneventano distese più di tutti gli altri i suoi confini, il suo Arcivescovo ebbe tanti Vescovi suffraganei, che sopra tutti gli altri Metropolitani oggi ne ritiene in gran numero. Quindi ancora è avvenuto, che il Principato di Salerno, se non quanto quel di Benevento, avendo pure molto ampliato i suoi confini, il suo Arcivescovo ancor egli ritenesse molti suffraganei: e quel di Capua per la stessa ragione anche moltissimi. Ed all'incontro il Ducato di Napoli, quello di Sorrento e l'altro d'Amalfi, come che molto ristretti, non avessero così numeroso stuolo di Vescovi suffraganei, siccome gli altri Metropolitani delle altre città di queste nostre province; come osserveremo quando della lor politia ecclesiastica degli ultimi tempi ci sarà data occasione di trattare.

Ecco adunque qual fosse la disposizione e la Gerarchia ecclesiastica di queste nostre province in questa età. Il romano Pontefice, come Metropolitano insieme e Patriarca: Vescovi, Preti, Diaconi, Sottodiaconi, i quali già in questi tempi eransi ligati al celibato, ed il lor ordine posto nel rango de' maggiori ordini: Acoliti, Esorcisti, Lettori ed Ostiarj.

Sentironsi ancora negli Scrittori di questi tempi, e sopra tutto nell'epistole di S. Gregorio i Preti Cardinali, i Diaconi Cardinali, e Sottodiaconi Cardinali; e molte chiese avere avuti di questi Cardinali, come oltre alla romana, quella d'Aquileja, di Ravenna, di Milano, di Pisa, di Terracina, di Siracusa; e nelle nostre province ancora, come le chiese di Napoli, di Capua, di Benevento, di Venafro e forse ogni altra. Ma in questi tempi, siccome ben pruovano Florente e Baluzio, ed è chiaro dalle epistole stesse di S. Gregorio, questi Cardinali non erano che Preti, Diaconi, o Sottodiaconi stranieri, i quali erano uniti ed affissi, o come diciamo inzeppati ad una certa chiesa, la quale unione, chiamavano incardinazione, e questo unire dicevano incardinare; poichè per questo inzeppamento si univa colui a quel corpo, come nel suo cardine; in guisa che non più straniero, ma proprio di quella chiesa riputavasi, e nomavasi perciò Incardinato, ovvero Cardinale; nome che se bene nella sua origine non denotava dignità o superiorità alcuna, si intese poi ne' seguenti secoli risonare cotanto magnifico e fastoso, che s'è proccurato negli ultimi tempi uguagliarlo al nome Regio; e coloro che n'erano adorni, di pareggiargli a' più potenti Re della terra.

Sursero egli è vero in questi tempi, anche in Occidente, varj Uficiali, ed altri nomi si intesero, come di Cimeliarca, di Rettore, Cartularj ed altri; e nella chiesa d'Oriente altri più assai, di cui lungo catalogo abbiamo appresso Codino e Leunclavio. Ma questi Uficiali per lo più sursero per la cura che si dovea avere della temporalità delle chiese e delle loro ricchezze. I Vescovi per la pietà de' Principi e dei Fedeli profusi in donare alle loro chiese, si diedero a costruirne altre di nuovo, o con maggior magnificenza; e singolarmente i nostri Vescovi napoletani, siccome di tutte le altre chiese di queste province molte n'ingrandirono nelle loro città, e moltissime nuovamente ne costrussero: quando prima i vasi erano di legno, di vetro, o di creta; le vesti sobrie e tutti gli altri ornamenti semplici, e schietti; ora i vasi divengono d'oro e d'argento, le vesti ricche e pompose, e gli ornamenti tutti preziosi e magnifici; perciò bisognava che ad uno del Clero si dasse il pensiero di custodirgli, ed averne esatta cura e provvidenza; quindi il Custode appresso noi fu chiamato Cimeliarca, ed appresso i Greci Magnus vasorum custos . Ebbe la chiesa di Napoli il suo Cimeliarca, siccome ancor oggi lo ritiene, ma con impiego diverso: l'ebbero ancora le altre chiese di queste nostre province; ancora quelle di Roma, di Ravenna ed in fine l'ebbero tutte. Le possessioni, i poderi, e l'ampie loro rendite poste ancora in paesi remoti e distanti, ricercavano particolar persona, che avesse di lor cura e pensiero; quindi sursero i Rettori, de' quali sovente S. Gregorio favella, che aveano il governo de' patrimonj delle chiese; ed in conseguenza i Cartularj, gli Economi ed altri Uficiali. Ma tutti questi Uficj nacquero per le temporalità delle chiese, non già che fossero gradi gerarchici, e che punto s'appartenessero al suo potere spirituale.

§. II. Monaci.

Non meno le chiese che i monasterj renderonsi in questi tempi più spessi e magnifici, e i loro Monaci più numerosi. I Longobardi, come suole avvenire nei primi ardori delle novelle religioni, abbracciata che ebbero la religione cattolica romana, furono in queste nostre province assai più profusi colle chiese e monasterj, che i Greci, cristiani vecchi. Il Re Agilulfo, fatto cattolico, molti monasterj rifece per l'Italia, ed altri nuovi ne costrusse. Il Re Ariperto fu così profuso nel donare a' monasterj, alle chiese, e particolarmente alla romana, che per la restituzione degli ampj e grandi poderi, che le fece nell'Alpi Cozzie, onde tanto in quella provincia crebbe il patrimonio di S. Pietro, diede occasione ad alcuni di credere, che la provincia tutta dell'Alpi avesse Ariperto donato alla Chiesa romana.

I nostri Duchi di Benevento, ancorchè sotto Zotone I, Duca pagano e idolatra, il monastero Cassinese avesse patito quel miserando sacco; nulladimeno, abbracciato che poi ebbero per opera di Barbato il cattolichismo, favorirono le chiese ed i monasterj: tantochè, rifatto il monastero nell'anno 690 da Petronace, i Duchi di Benevento lo arricchirono grandemente, e fra gli altri Gisulfo II d'immensi doni e di grandi poderi l'accrebbe. Que' luoghi e quelle terre poste nello Stato di S. Germano passarono in gran parte in dominio di quel monastero; tanto che poi col correr degli anni, accresciuto per altre ampie donazioni, si rendè cotanto ricco e possente, che i loro Abati, fatti Signori di più terre e vassalli, vennero in tale stato, che mantenevano a loro stipendj eserciti armati, come ne' seguenti secoli vedremo.

Per ciò i monasterj dell'ordine di S. Benedetto, renderonsi più numerosi nel Ducato beneventano, che abbracciava in que' tempi ciocchè ora diciamo i due Apruzzi, il Contado di Molise e Capitanata, quasi tutta la Campagna, e buona parte della Lucania, della Puglia e dell'antica Calabria, Taranto, Brindisi e tutto quel larghissimo paese, che gli è intorno. Molti e d'uomini e di donne ne furono in queste province nuovamente eretti nel Regno de' Longobardi: in Benevento ne' tempi di S. Gregorio ne leggiamo moltissimi: il monastero di Monache di S. Nazario Martire; l'altro a quello vicino de' Frati di S. Maria ad Olivolam; e a' tempi di Grimoaldo V Duca di Benevento leggiamo quello di S. Modesto, arricchito da Grimoaldo di grandi possessioni; e Teodorata, moglie del Duca Romualdo suo figliuolo, fuori le mura di Benevento fondò un monastero di donne ad onore di S. Pietro Apostolo. L'esempio de' Principi fu da poi seguitato da' loro sudditi benestanti, così longobardi, come provinciali, tanto che nel Ducato beneventano per tutte quelle province che esso abbracciava, i monasterj di S. Benedetto si videro in questi tempi più numerosi, che nel secolo precedente.

Nel Ducato napoletano, ed in tutte quelle città, che a' Greci ubbidivano, ancorchè molti altri di questo Ordine se ne fossero nuovamente costrutti, nulladimanco il numero de' monasterj così di uomini, come di donne posti sotto la regola di S. Basilio era maggiore: Napoli n'ebbe molti, come si è veduto nel precedente libro: non erano meno frequenti in Otranto, Brindisi, Reggio, e così in tutte l'altre città della Calabria e de' Bruzj.

Fu per tanto lo Stato monastico non men che nella Francia e nell'Alemagna, ed in tutte l'altre parti di Occidente, steso ed arricchito in queste nostre province; tantochè già gli Abati e monasterj cominciavano a pretendere di scuotere il giogo de' Vescovi, ed a dimandare de' privilegi e dell'esenzioni per rendersi in libertà. Se sono veri gli atti del Concilio, che si narra aver tenuto S. Gregorio in Roma nell'anno 601 in favore de' Monaci, fu in quello stabilito, che i Monaci dovessero avere la libertà di eleggere il loro Abate, e di scegliere un Monaco della lor comunità, o d'un altro monastero: che i Vescovi non potessero trarre Monaci da un monastero per fargli Cherici, ovvero per impiegargli alla riforma d'un altro monastero senza il consenso dell'Abate: che i Vescovi non dovessero impacciarsi nel temporale de' monasterj; nè celebrare l'uficio solenne nella chiesa de' Monaci, nè esercitarvi alcuna giurisdizione. Per tutte queste cagioni lo stato monastico si rendè fin da questi tempi considerabile, e cominciò non poco ad alterare lo stato civile e temporale de' Principi, i quali in vece di fare argine a tanti acquisti, più tosto gli accrescevano colle loro immense donazioni.

§. III. Regolamenti ecclesiastici.

I canoni che in varj Concilj furono stabiliti in questo settimo secolo in Occidente, e particolarmente in Toledo ed in Francia, ripararono in gran parte la sregolatezza della maggior parte de' Cristiani, e la disciplina degli Ecclesiastici, ch'era in declinazione. Furono ancora avvalorati dagli editti de' Sovrani; e S. Gregorio gran Pontefice riparò in Italia la cadente disciplina delle nostre chiese: vegliò sopra la conservazione di quella, e s'applicò tutto a fare osservare inviolabilmente i canoni in tutte le chiese. Scrisse perciò una gran quantità di lettere ne' quattordici anni del suo Pontificato, le quali contengono una grandissima copia di decisioni sopra il governo, e la disciplina della chiesa.

Se si voglia aver per vero ciò che scrisse il Baronio di Cresconio Vescovo d'Affrica, e ciò che i più gravi Autori dicono della collezione d'Isidoro Mercatore, niuna collezione di canoni fu fatta in questo settimo secolo. Il Baronio credette che il Vescovo Cresconio fiorisse intorno a' tempi di Giustiniano Imperadore, onde la sua ampia raccolta de' canoni fu per ciò da noi rapportata nel libro precedente. Se poi si voglia seguire l'opinione di Doujat, riputata vera da Pagi, ed abbracciata ultimamente da Burcardo Gotthelf Struvio, la collezione di Cresconio caderebbe in questo luogo, come quella, che secondo il sentimento di costoro si fece intorno l'anno 670 in questo settimo secolo. Quella di Isidoro Mercatore bisognerà certamente riportarla al libro seguente, poichè questo Scrittore fiorì nell'ottavo secolo, l'anno 719.

Se si volesse farne Autore Isidoro di Spagna, Vescovo di Siviglia, certamente che questo sarebbe il suo luogo: sedè egli in quella Cattedra dopo la morte di suo fratello Leandro, a cui succedè verso l'anno 595 e la governò quasi per lo spazio di quaranta anni; ma è cosa certa, che non ne fu egli il Compilatore, così perchè in quella raccolta si rapportano molti canoni stabiliti in varj Concilj tenuti in Toledo molto tempo dopo la sua morte, che accadde nell'anno 636, ed alcune epistole di Gregorio II e III, e di Zaccaria, che sederono nella Cattedra di Roma nell'ottavo secolo; come anche perchè tra le molte opere che si numerano di questo insigne Scrittore, niuno ha fatta menzione di questa raccolta.

§. IV. Beni temporali.

Le tante profuse donazioni, che non men da' privati, che da' Principi di tempo in tempo s'erano fatte alle Chiese nel corso poco men di due secoli, furon cagione che le Chiese, non men che il Principe ed i privati avessero i loro particolari patrimonj. Le possessioni ampissime, che acquistarono non pur nel distretto delle loro città, ma anche in lontani paesi, onde tante rendite e frutti se ne ritraevano, le appellavano patrimonj, secondo l'uso di que' tempi, ne' quali le possessioni di qualunque famiglia, e i retaggi pervenuti da' loro maggiori, si chiamavano il patrimonio di quella. Così ancora chiamavasi patrimonio del principe quel fondo, ch'ei possedeva in proprietà, e per distinguerlo, non meno da' patrimonj de' privati, che dal Fisco dell'istesso Principe, si nominava sacrum patrimonium, come si legge in molte costituzioni del Codice di Giustiniano: ciò che da poi ne' nuovi Regni in Europa stabiliti, fu detto domanio regale. Per queste istesse cagioni si diede poi il nome di patrimonio alle possessioni di ciascuna Chiesa: così nell'epistole di S. Gregorio si veggon nominati non solo i patrimonj della Chiesa romana, ma anche il patrimonio della Chiesa di Ravenna, il patrimonio della Chiesa di Milano, il patrimonio della Chiesa di Rimini e di molte altre. Le Chiese di città grandi, come di Roma, Ravenna e Milano come città imperiali, e dove abitarono Senatori, grandi Uficiali, ed altre persone illustri, acquistarono patrimonj non pur dentro i loro confini, ma in diverse parti del Mondo. Le altre Chiese poste in città minori, come fra noi Napoli, Benevento, Capua, Salerno, Bari, Reggio e tante altre, e che avevano abitatori di fortune mediocri, e tutte riposte ne' loro confini, non avevano patrimonj fuori del loro distretto.

Fra tutte le Chiese delle città imperiali, la Chiesa romana fu quella, che avea acquistati in questi tempi più ampj e vasti patrimonj, non pur in Italia, ma anche nelle province più remote d'Europa. Nel Ponteficato di Gregorio il Grande, come si raccoglie dalle sue lettere, ebbe la Chiesa romana ampio patrimonio in Sicilia, scrivendo questo Pontefice a Giustino Pretore di quella isola, la quale da lui reggevasi per l'Imperio d'Oriente, che proccurasse far togliere ogni indugio per lo trasporto d'alcuni grani raccolti dalle possessioni del patrimonio di S. Pietro, ch'e' voleva in Roma, ove ve n'era penuria. E poichè queste possessioni eran molte, ed alcune divise in pezzi, secondo le donazioni, che da' Fedeli di volta in volta eransi fatte, per ciò rescrive a Pietro Sottodiacono Rettore di quel patrimonio, ch'essendone state domandate alcune in enfiteosi, talora se n'era contentato, e talora non l'avea permesso. Ebbe ancora la Chiesa romana il patrimonio in Affrica, onde Gregorio rende infinite grazie a Gennadio Patrizio ed Esarca di quella provincia, che pur si teneva per l'Imperadore d'Oriente, ch'essendo molti luoghi di questo patrimonio stati abbandonati da' coltivatori, egli, mandandovi molti di que' popoli da lui vinti, avessegli grandemente ristorati. Avea anche patrimonio in Francia, alla cura del quale avendo Gregorio preposto un Prete, il cui nome fu Candido, lo raccomanda caldamente non meno alla Reina Brunichilda, che al Re Childeberto suo figliuolo l'anno 596, mostrando che quel carico innanzi di Candido era stato raccomandato a Diniano Patrizio; anzi scrive a Candido a qual uso quelle entrate si dovessero dispensare; e verso il fine del suo Pontificato, l'anno 604, raccomandò quel patrimonio ad Asclepiodato Patrizio de' Galli. Ebbe eziandio patrimonio in Dalmazia, a cui era preposto Antonio, ovvero Antonino Sottodiacono.

In Italia, ed in queste nostre province ancora ebbe la Chiesa romana molti patrimonj. Nella provincia dell'Alpi Cozie ebbe un ben ampio patrimonio, che occupato per molto tempo da' Longobardi, fu da poi restituito alla medesima dal Re Ariperto nel Ponteficato di Giovanni VII, scrivendo Paolo Varnefrido: che Ariperto Re de' Longobardi restituì la donazione del PATRIMONIO dell'Alpi Cozie appartenente alla sede appostolica, ma per molto tempo stato levato dai Longobardi; e mandò a Roma questa donazione scritta con lettere d'oro. La qual donazione al dir dello stesso Autore fu da poi confermata dal Re Luitprando, dicendo: In quel tempo il Re Luitprando confermò alla Chiesa di Roma la donazione del PATRIMONIO dell'Alpi Cozie. Nell'Esarcato di Ravenna pur S. Pietro ebbe il suo patrimonio, anzi nel Pontificato di S. Gregorio vi fu lite tra lui, ed il Vescovo di Ravenna per li patrimonj d'ambedue le Chiese, che s'accomodò anche per transazione. Nel nostro Ducato beneventano pur ebbe la Chiesa romana il suo patrimonio. L'ebbe in Salerno, l'ebbe in Nola, dove scrisse S. Gregorio, che delle rendite di quello si sovvenisse alla povertà di certe Monache. L'ebbe ancora in Napoli, dove, come si vede da alcune epistole di questo Pontefice, da Roma mandavansi i Rettori che n'avessero cura, a' quali buona parte delle loro rendite imponeva, che dispensassero a' poveri. Furono in Napoli Rettori di questo patrimonio successivamente Pietro, Teodino, Antemio ed altri, tutti Sottodiaconi della Chiesa romana. Questi in Napoli aveano le loro Diaconie costituite, le quali erano certi luoghi, ovvero Stazioni, in cui il Sottodiacono Rettore del patrimonio soccorreva i poveri della città, e dispensava a quelli l'elemosine: a somiglianza di Roma, la quale avea molte di queste Diaconie . L'ebbe in fine in alcune altre città di questa provincia della Campagna: l'ebbe in Apruzzo; l'ebbe nella Lucania, e nella Calabria ancora.

I Vescovi di queste sedi maggiori, siccome anche dell'altre minori, per far rispettare maggiormente le possessioni delle loro Chiese, solevano dar loro il nome del Santo, che quella Chiesa avea in ispezial venerazione: così la Chiesa di Ravenna nominava le possessioni sue di S. Apollinare, e quella di Milano di S. Ambrogio, e la romana diceva il patrimonio di S. Pietro in Sicilia, in Affrica, in Francia, in Dalmazia, in Calabria, in Apruzzo, in Benevento, in Napoli ed altrove; non altrimenti che a Venezia le pubbliche entrate si chiamano di S. Marco. Così ancora le Chiese delle città minori, per fine di maggior rispetto, nomavano i loro patrimonj col nome del Santo, che esse avevano in più divozione, come Napoli il patrimonio di S. Aspremo, Benevento di S. Barbato, Brindisi di S. Leoci: e poi Amalfi di S. Andrea, Salerno di S. Matteo, e così di mano in mano tutte le altre.

Ma egli è ben da notare, che questo nome di patrimonio, che la Chiesa di Roma avea in quelle province, non significava qualche dominio supremo, o qualche giurisdizione della Chiesa romana, o del Pontefice, ch'avesse sopra tali patrimonj: erano essi a riguardo de' Principi, nelle cui province stavan collocati, come tutti gli altri particolari patrimoni sottoposti alla giurisdizione, ed al dominio eminente di quel Principe, dentro al cui Stato quelli erano. Tentarono egli è vero alcuni Ecclesiastici della Chiesa romana di farvi dell'intraprese, ma riusciron vani questi pensieri, ed i lor disegni. Poichè ne' patrimonj dei Principi, quando non erano assegnati a' soldati, era posto un Governadore con giurisdizione per le cause che intorno a quelle possessioni potevan nascere, per la più facile esazion delle lor rendite, e per lo costringimento de' debitori: queste istesse ragioni tentarono usurpare alcuni Ecclesiastici ne' patrimonj di quella Chiesa: volevano farsi ragione per se stessi, e farsi la giustizia colle mani proprie, e non ricorrere al pubblico giudizio de' Magistrati; ma S. Gregorio istesso prudentissimo e saggio Pontefice riprese questa introduzione, e comandò e proibì sotto pena di scomunica, che non si facesse: nè i Principi ne' loro dominj vollero in conto alcuno tollerarla.

Pagavano perciò le possessioni ecclesiastiche i tributi al Principe, come tutti gli altri patrimonj dei privati, siccome manifestamente appare dal Can. si tributum, ch'è di S. Ambrogio: ed è chiaro che l'Imperador Costantino Pogonato nel 681, concedè esenzione da' tributi, che la Chiesa romana pagava per lo patrimonio di Sicilia e di Calabria. E l'Imperador Giustiniano Ritmeno successor di Costantino, nel 687 remise il tributo, che pagavano i patrimonj d'Apruzzo e di Lucania. Queste indulgenze da tributi ottennero i Pontefici romani dagl'Imperadori d'Oriente, finchè fra essi fu buona amicizia e corrispondenza; ma quando da poi per le novità insorto nell'Imperio di Lione Isaurico, nacquero tra i Pontefici romani, e gl'Imperadori d'Oriente quelle acerbissime contese che saranno il soggetto del seguente libro, le quali finalmente proruppero in manifeste sedizioni ed inimicizie; Lione Isaurico nel 782, non pur non gli fece franchi, ma tolse alla Chiesa romana i patrimonj di Sicilia e di Calabria, e gli applicò al suo Fisco. E gli Scrittori, che narrano questi successi, rapportano che questi patrimonj confiscati rendevano d'entrata tra tutti, tre talenti e mezzo d'oro in ciascun anno, che fanno in nostra moneta (per non far minuto conto sopra la varietà delle opinioni quanto precisamente corrisponda ad un talento) la somma di 2500 scudi, ed il patrimonio di Sicilia, anche molto ampio, non rendeva più di scudi 2100 l'anno.

Da questi patrimonj, che teneva la Chiesa romana in varie province, dove sovente gli Ecclesiastici, quando lor veniva in acconcio, si usurpavano ancora qualche giurisdizione nelle cause a quelli appartenenti, ne nacque tra' Scrittori de' tempi più bassi quell'errore, e fu data poi agli altri, che seguirono, occasione di crederlo, e di tesserne altre favole: cioè, alla Chiesa romana s'appartenessero la provincia dell'Alpi Cozie, la Sicilia, il Ducato beneventano, il Ducato spoletano, parte della Campagna, e tante altre province, perchè in quelle vi avea il suo patrimonio, confondendo il patrimonio, che avea nell'Alpi Cozie, colla provincia istessa: l'altro che teneva nella Sicilia colla stessa isola: il patrimonio beneventano, col Ducato: il patrimonio salernitano, con quel Principato: il patrimonio napoletano e gli altri che teneva nella Campagna, colla provincia istessa, e così delle altre province. Nel qual errore non possiamo non meravigliarci esservi fra gli altri caduto, anche il nostro Scipione Ammirato, per altro diligentissimo Istorico, il quale colla testimonianza di Paolo Varnefrido istesso volle darci ancor egli a sentire, che la dominazione del Re Ariperto conteneva la restituzione e conferma delle Alpi Cozie, che fece quel Principe a Papa Giovanni VII quando dalle parole di sopra da noi rapportate di questo Scrittore si vede chiaro, che si parla del patrimonio delle Alpi Cozie, non già di quella provincia, che abbracciava gran tratto di paese, e si stendeva insino a Genova, ornata di tante città e terre, che sarebbe stolidezza il credere aversene voluto quel Principe, in tempi per altro molto gelosi e sospettosi, spogliare e donarla a' Pontefici romani, confederati allora cogl'Imperadori d'Oriente, implacabili nemici dei Longobardi.

Questo equivoco ancora scopriremo, quando delle cotanto celebrate donazioni di Carlo M. e di Lodovico Pio ne' loro tempi avremo occasione di ragionare, dove vedremo, che ciò che in esse si legge di Napoli, Salerno e sopratutto di Benevento, volendosi pure riputar per vere, non già de' loro Ducati e Principati, ma de' patrimonj, che la Chiesa romana teneva in queste province, favellano; i quali secondo il costume che correva allora, dagl'Imperadori, che successivamente dominarono nel Regno d'Italia, furon per mezzo de' loro Precetti confermati e conceduti alla Chiesa romana, siccome del patrimonio beneventano fece Ludovico Pio nel 817 con Papa Pascale I, che poi fu di nuovo confermato e conceduto da Ottone I e da Ottone Re di Germania suo figliuolo a Giovanni XII nel 962, non già del Ducato ovvero della città di Benevento, la quale è certo che venne in poter della Chiesa nell'anno 1052, con titolo di permuta fatta da Errico II, figliuolo di Corrado, con Papa Lione IX, colla Chiesa di Bamberga, come al suo opportuno luogo diremo.

Cotanto fu in questi tempi l'accrescimento de' beni temporali delle nostre Chiese, e sopra tutto della Chiesa di Roma loro maestra e condottiera: e, secondo la situazione dello stato presente, maggiori acquisti se ne vedranno ne' secoli avvenire.

Multiplicate le chiese ed i monasterj, vie più s'accrebbe il culto de' Santi, delle loro reliquie, e loro immagini. I santuarj, e sopra ogni altro quello del monte Gargano non men da' Greci, che da' Longobardi, erano più frequentati, ed arricchiti di preziosi doni. I miracoli vie più crescevano, ed oltre alle prediche ed a' sermoni, cominciavano già a tessersi di loro infiniti racconti, ed a raccogliersi in volumi, e S. Gregorio ne pubblicò molti ne' suoi quattro libri de' Dialoghi, che dedicò alla Regina Teodolinda. Si accrebbero nelle chiese le feste, l'ottava di Natale, quella dell'Epifania, l'altra della Purificazione, dell'Annunziazione della Vergine, della sua morte, della sua natività, e finalmente quella di tutti i Santi. A pari del culto e della divozione crebbero le ricchezze, promettendosi anche i Fedeli da' Santi, non pur conseguimento di beni spirituali, ma anche di temporali, di sanità, di abbondanza, di ricchezza, buoni successi ne' traffichi e ne' negozj, nelle navigazioni, e ne' viaggi terrestri.

Da tanti e sì diversi fonti che cominciavano a scoprirsi, vie più s'accrescevano alle Chiese le possessioni ed i retaggi; e la cagione era, perchè se, come scrisse il nostro Ammirato, essendo la religione un conto che si tiene a parte con Dio, e avendo i mortali in molte cose bisogno di lui, o ringraziandolo de' beni ricevuti o de' mali scampati, o pregandolo che questi non avvengano, e che quelli felicemente succedano; necessariamente siegue, che de' nostri beni o come grati o come solleciti facciamo parte, non già a lui che non ne ha bisogno, ma a' suoi tempj ed a' suoi Sacerdoti; quanto più dovettero allora crescere i doni e le offerte, quando s'ebbe a tenere non pur un sol conto con Dio solamente, ma con tanti Santi, dall'intercession de' quali promettevansi i Fedeli queste medesime cose; ed essendo tanto cresciuto il lor culto e venerazione, ed eretti per ciò in lor nome più monasterj e tempj, e multiplicati i loro santuari, ben poteron per conseguenza tirar la gente ad offerir loro, ed a' loro tempj ancora e Sacerdoti, in maggior copia, e doni e ricchezze. Cominciossi ancora a donare, non pur alle Chiese, ma a' Parrochi, a' Preti, e ad altri Ministri per li loro sacrifici, a fin di liberare l'anime de' loro defonti dal Purgatorio; onde surse, al creder di Mornacio, l'autorità che s'assumevano di fare i testamenti a coloro, che morivano intestati; di che altrove ci tornerà occasione di ragionare.

Mantennero le nostre Chiese intorno alla distribuzione delle rendite e beni loro temporali, il medesimo istituto di dividergli in quattro parti, una al Vescovo l'altra al Clero, la terza a' poveri, e la quarta per la chiesa materiale. Della Chiesa di Napoli, che sin dai tempi di S. Gregorio sotto il Vescovo Pascasio teneva un Clero numeroso, contandosene fin a cento ventisei, oltre a' Preti, Diaconi, Cherici peregrini; abbiamo dall'epistole di questo Pontefice, che trascurando Pascasio di distribuire, come si conveniva a' poveri ed al Clero le rendite di quella chiesa, fu costretto egli a far la distribuzione, e riserbando la porzione al Vescovo, vi stabilisce ciò che dovesse somministrarsi al Clero ed a' poveri, imponendo anche ad Antemio suo Sottodiacono, ch'era Rettore del patrimonio di S. Pietro in Napoli, che unitamente col Vescovo sopraintendesse a dividere, secondo il bisogno de' poveri, la quantità del danaro, e tener modo anche secondo la sua prudenza di distribuirlo a tempo opportuno.

La Chiesa di Benevento tenne ancora quest'istesso costume di dividere le sue rendite in quattro parti. S. Barbato suo Vescovo non volle in ciò dipartirsi dal prescritto de' canoni, e ne' suoi Atti si legge, che da poi che il Duca Romualdo arricchì la sua Chiesa di tanti doni, ed alla quale unì quella di Siponto, volle con particolar providenza stabilire in perpetuo questa distribuzione, la quale si dovesse tenere sempre ferma nella sua Chiesa: ecco ciò che in quegli Atti si legge: Impetratis omnibus ut poposcerat vir Sanctus non est oblitus mandatorum Dei: in quatuor partes cunctum Ecclesiae redditum omni tempore sanxit fideliter dispartiri, unam egentibus, secundam his, qui Domino sedulas in Ecclesiis exhibent laudes, tertiam pro Ecclesiarum restauratione distribui, juxta quartam suis peragendis utilitatibus Episcopus habeat; et hactenus sicut ab eo disposita sunt, in praesenti cuncta videntur.

Questo medesimo istituto tennero tutte l'altre Chiese di queste nostre province, le quali per altro erano in ciò commendabili, poichè non era fraudata a' poveri la lor porzione, ed i Vescovi praticavano co' peregrini quell'ospitalità, che i canoni gli obbligava a mantenere.

FINE DEL LIBRO QUARTO.

STORIA CIVILE

DEL

REGNO DI NAPOLI

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