LIBRO QUINTO

Luitprando Re de' Longobardi, avendo nell'anno 711 fermato il soglio del suo Regno in Pavia, siccome i suoi predecessori avean fatto, cominciò a dar saggi grandissimi della sua bontà e prudenza civile. Egli, imitando suo padre e gli altri Re suoi predecessori, nella religion cattolica fu costantissimo, ed alla di lui pietà dee Pavia l'ossa gloriose d'Agostino; poichè egli le vendicò dalle mani de' Saraceni, dopo avergli discacciati da Sardegna, dove trovavasi il prezioso deposito. Egli, seguendo l'esempio di Rotari e di Grimoaldo, volle eziandio esser partecipe della gloria di savio facitor di leggi: poichè nel primo anno del suo Regno, avendo in Pavia, secondo il costume, ragunati gli Ordini del Regno, ordinò altre leggi, e l'aggiunse agli editti di Rotari e di Grimoaldo; nè di ciò ben soddisfatto, ne' seguenti anni, secondo che il bisogno richiedeva, altre ne stabilì: tanto che fra i Re longobardi, dopo Rotari, Luitprando fu quegli, che più di ogn'altro empiè il suo regno di leggi.

§. I. Leggi di Luitprando.

Molte leggi di questo Principe piene di somma prudenza ed utilità sono ancor oggi a noi rimase nel volume delle leggi longobarde, ma nel Codice membranaceo Cavense si leggono interi i suoi editti, donde le prese il Compilatore di quel volume. Ivi si legge il suo primo editto, che e' promulgò nel primo anno del suo Regno, contenente sei capitoli, fra' quali il primo ha questo titolo de successione filiarum. Si leggono ancora gli altri editti, che e' fece ne' seguenti anni: poichè nel quinto del suo Regno ne promulgò un altro, che contiene sette altri capitoli: nell'ottavo, dieci: nel decimo anno, cinque: nell'undecimo, trentatre: nel decimo terz'anno, cinque: nel decimoquarto, quattordici: nel decimoquinto, dodici: nel decimosesto, otto: nel decimosettimo, tredici: nel decimonono, tredici: nel ventunesimo, nove: nel ventesimosecondo, quattro: nel ventesimo terzo, cinque: ed alcuni altri ne promulgò negli anni seguenti. Di maniera che le leggi di questo Principe, siccome vengono registrate nello stesso Codice, che si conserva nell'Archivio della Cava arrivano al numero di cento cinquantadue, alle quali nel Codice suddetto si veggono aggiunti sette altri capitoli, i cui titoli o sommarj sono: I. De Mercede Magistri. II. De Muro. III. De Annona. IV. De Opera. V. De Caminata. VI. De Fumo. VII. De Puteo.

Di queste leggi solamente 137 furono inserite nel volume delle leggi longobarde dal suo Compilatore. Nel primo libro se ne leggono 48, e nel secondo 89, poichè nel terzo non ne abbiamo. La prima che si legge nel primo libro è sotto il tit. de illicito consilio: l'altra sotto il tit. 8: nove altre se ne leggono sotto il tit. de homicidiis: un'altra sotto quello de Parricidiis: un'altra sotto il titolo decimoquarto dell'istesso libro: quattro sotto quello de injuriis mulierum: tre nel titolo decimosettimo: una sotto il tit. de Sedictione contra Judicem: altra nel titolo decimonono: un'altra sotto quello de pauperie: quattro nel titolo vigesimoterzo: dodici sotto quello de Furtis, et servis fugacibus: una sotto il tit. de Invasionibus: un'altra sotto il vigesimonono: altra sotto il tit. de raptu mulierum: un'altra sotto quello de fornicatione: tre sotto il tit. de adulterio: una nel titolo trigesimo quarto: e l'altra sotto quello de Culpis servorum, ch'è l'ultima del primo libro.

Nel secondo ne leggiamo assai più insino ad ottantanove: due sotto il titolo secondo: una sotto il terzo: tre nel quarto: una nel quinto: altra nel sesto: un'altra nel settimo: otto sotto il tit. de prohibitis nuptiis: una nel nono: un'altra nel decimo: altra nell'undecimo: tre sotto quello de conjugiis servorum: altra sotto il titolo decimoterzo: un'altra sotto quello de donationibus: un'altra sotto il tit. de ultimis voluntatibus: tre sotto il ventesimo: sedici nel tit. de debitis, et guadimoniis: una sotto quello de Treugis: due sotto il ventesimo quinto: un'altra sotto il ventesimo sesto: altra sotto quello de depositis: altra sotto il tit. de rebus intertiatis: sette nel tit. de prohibita alienatione: due sotto il trentesimo: una sotto quello de prohibita alienatione servorum: quattro sotto il tit. de praescriptionibus: due sotto quello de Evictionibus: quattro sotto l'altra de Sanctimonialibus: due nel tit. de Ariolis: quattro sotto il tit. de Reverentia Ecclesiae, seu immunitatibus debita: cinque sotto l'altro, qualiter Judices debeant: una sotto il tit. de consuetudine: un'altra sotto quello de Testibus: quattro sotto il tit. qualiter quis se defen. deb.; ed una in quello de perjuriis, ch'è il penultimo titolo del libro secondo.

Nel terzo, leggi di Luitprando non abbiamo, come quello che per lo più fu composto dalle leggi di quegli Imperadori, che l'Italia, come successori de' Re dei Longobardi signoreggiarono, dopo avergli da questa provincia discacciati: tutto che alcune pochissime leggi di Rotari, di Rachi e di Astolfo pure i Compilatori v'inserissero. Alcune altre leggi di questo Re possono vedersi appresso Marcolfo e Goldasto.

Ma la saviezza che mostrò questo Principe in comporre il suo Regno con sì provide leggi, e tutti gli altri suoi pregi fur non poco oscurati dalla soverchia ambizione di dominare, e dal desiderio estremo di stendere i confini del suo Regno, oltre a quello, che i suoi predecessori gli avean lasciato, la quale portò egli tanto avanti, che finalmente cagionò ne' suoi successori la ruina dell'Imperio de' Longobardi in Italia; poichè non contento di aver ritolto al Pontefice romano il patrimonio delle Alpi Cozie che poco innanzi il Re Ariperto avea confermato alla Chiesa romana, invase anche il patrimonio sabinense; e tutto intento ad approfittarsi, e ad investigar qualunque opportunità d'ampliare il suo dominio, secondando gli avidi consigli con una presta, e destrissima esecuzione, gli venne fatto d'allargare grandemente il suo Regno sopra le rovine de' Greci. Tanto che la sua potenza rendutasi ormai sospetta a' Pontefici romani, finalmente veggendo costoro depressa, e poco men che estinta in Italia l'autorità degl'Imperadori d'Oriente, e non fidandosi più de' Greci, ch'erano divenuti loro capitalissimi nemici, pensarono alla maniera, che ora diremo, di ricorrere alle forze straniere per abbassare Imperio sì grande.

§. II. Novità insorte in Italia per gli editti di Lione Isaurico.

Reggeva in questi tempi l'Oriente Lione Isaurico, il quale, calcando le orme di Bardane soprannomato Filippico (che fu il primo Imperador d'Oriente, che cominciò a muover guerra alle immagini) era chiamato Iconomaco, come colui, che fuor d'ogni misura e sopra tutti gli altri avea quelle in odio ed abbominazione; poichè persuaso, con abbatterle di discacciar l'Idolatria, che credette per l'adorazione e culto delle medesime essersi introdotta nel Cristianesimo, si prometteva felicità nel suo Imperio; ed in premio di sì magnanima e pietosa impresa, come e' la riputava, lusingavasi di dovere colla prosperità de' successi stendere il suo Imperio, reintegrargli l'Italia da' Longobardi occupata, ed alla pristina dignità e grandezza restituirlo. Nè mancò chi, per accrescer l'inganno e la lusinga con presagi ed augurj alcune volte dal caso confermati, glie ne promettesse facile e sicuro adempimento; e la politica di questo Principe, la quale non può negarsi, che non sia stata grande, rimase da sì vani vaticinj delusa e schernita; imperocchè non ponderando egli, che appresso i Popoli, e particolarmente agl'Italiani, sì strana e nuova impresa dovea eccitar turbolenze e tumulti grandissimi, siccome coloro, i quali, avvezzi già per molto tempo nelle chiese ed altrove a venerar quelle immagini, e a promettersi per l'intercessione de' loro prototipi felicità non meno spirituali che temporali, non potevano i loro animi, percossi da sì strana novità, non riempiersi di grandissimo orrore in veggendo ardere per mano di uomini vilissimi, con sommo disprezzo abbattere, ed in minutissimi pezzi frangere quelle statue, che da loro maggiori con ugual pietà e magnificenza erano state ne' tempj, e su le porte delle città a pubblica venerazione collocate.

Nè certamente avrebbe giammai mente d'uomo potuto investigare novità più rimarchevole o più penetrante di questa, per mettere in iscompiglio le province tutte dell'Italia; avvegnachè l'altre eresie, non avendo avuto niente del popolare e del tragico, ancorchè si fossero diffuse per la mente degl'uomini, e precisamente l'arriana, non portarono nel disseminarsi tanti tumulti e sconcerti, quanti ne dovea suscitar questa, la quale non poteva porsi in effetto, se non per mezzo di modi strepitosi, d'incendj, d'abbattimenti, e per altri tragici avvenimenti. Lione, come Principe prudente e savio, sul principio tenne perciò modi soavi e placidi; proccurò prima con ragioni e scongiuri persuader negli altri quel ch'egli credeva; poi veggendo che ciò niente giovava, diede fuori un editto, col quale non si comandava altro se non che si togliessero le immagini da que' luoghi soliti, dove trovavansi riposte per esservi adorate, e si collocassero nelle sommità de' tempj, ove non potessero ricever culto, nè adorazione alcuna. Ma avendo da poi scorto negli animi di molti dell'orrore, anzichè avversione a cotali suoi ordinamenti, preso da stizza e da furore, rompendo ogni maggior indugio e deponendo qualunque moderazione, imperversò tanto nell'impresa, che fatto unire il Senato, con pubblica dichiarazione ordinò, che tutte le immagini fossero abbattute, e che nè pur una ne fosse permessa dentro alle chiese di Costantinopoli: essendo egli persuaso, che quanto più tardasse a condurre a suo fine questa eroica e gloriosa operazione, tanto più sarebbe tardato a riceverne il premio, conforme alle concepute idee.

In Oriente a questo disegno dell'Imperadore si opposero Germano Patriarca di Costantinopoli, e S. Giovanni Damasceno; ma Lione fece deporre Germano, e nel 730 fece metter in suo luogo Anastasio. Sono alcuni che scrissero, che facesse ancora colla forza eseguire in Costantinopoli l'editto, con far ardere e rovesciare tutte le immagini, e tutto ciò ch'era di rado e pellegrino in quella città, e che alla vista di tutto il Mondo facesse anche abbattere la statua del Salvatore, che s'innalzava sopra la gran porta del palagio imperiale, fatta ivi ergere da Costantino il Grande; altri riputano favoloso ciò che si narra dell'abbattimento della statua del Salvatore, e vogliono che in questi principi Lione non imperversasse tanto. Che che ne sia, egli voleva far valere il suo editto, e che s'eseguisse non meno in Costantinopoli ed in Oriente, che in tutte le altre province dell'Occidente, ch'erano rimase sotto il suo dominio. Comandò per tanto gagliardamente a' suoi Uficiali, ch'eran destinati al governo di quelle, che facessero nelle città a loro soggette eseguir l'editto, e sopra ogni altro impose a Scolastico Patrizio, che si trovava allora Esarca di Ravenna, che facesse eseguire puntualmente i suoi ordini, con far rovesciare in quella città tutte le immagini, senza permetterne alcuna.

Ma in Occidente, e particolarmente in Italia non pure non fu ubbidito l'editto, ma vennero i Popoli in tanto abborrimento di quello, che apertamente proruppero in manifesta sollevazione. I Principi dell'Occidente che non erano sotto il di lui Imperio, i longobardi Re d'Italia, ed i nostri Duchi di Benevento lo detestarono, nè vollero che ne' loro dominj si ricevesse: questa stessa avversione era ne' Popoli soggetti all'Imperio greco; nè tutti i sforzi degli Uficiali, che volevan in tutti i modi farlo eseguire, poterono giammai nulla spuntare contra l'ostinata universale repugnanza. Niente valsero in Roma, ed in tutto il Ducato romano; niente nel Ducato napoletano, e negli altri Ducati e città che ubbidivano agl'Imperadori di Oriente. Anzi l'Esarca Scolastico in Ravenna, volendo con violenza obbligare quel Popolo all'osservanza dell'editto, cagionò più gravi e dannevoli disordini; poichè, avendo comandato che a viva forza si rovesciassero in quella città l'immagini, eccitò tali tumulti, che il Popolo, spinto a manifesta rivolta contra l'Imperadore, ridusse la cosa in tale estremità, che finalmente i Ravignani passarono sotto la dominazione di Luitprando. Imperocchè questo accortissimo Principe, che invigilava sempre ad ingrandire il suo Regno a danni dell'Imperadore, avendo intesa la sollevazione di coloro, portò subito l'assedio a quella città, e strettala per mare e per terra, dopo avere sconfitta l'armata navale de' Greci, che veniva per soccorrerla, se ne rendè in pochi giorni padrone: molte altre città dell'Esarcato tantosto renderonsi a lui; e finalmente ridusse l'Esarcato in forma di Ducato, ed agli altri Ducati de' Longobardi aggiunse questo, dandogli nuova forma, e ne creò Duca Ildeprando suo nipote (quegli che poi fu innalzato al soglio reale), al quale, essendo ancor fanciullo, diede per Direttore Peredeo Duca di Vicenza.

Reggeva in questi medesimi tempi il Ponteficato romano Gregorio II di questo nome, il quale era succeduto a Costantino nella sede di Roma l'anno 714. Questi sebbene, unito co' Romani, si fosse grandemente opposto a' disegni di Lione; nulladimanco avendo sospetta, come ebbero sempre i suoi predecessori, la potenza de' Longobardi, non poteva soffrire che il loro Regno sotto Luitprando, Principe ambizioso, si stendesse tanto, che finalmente potesse portar la ruina della sua sede e del Pontificato. Per questi rispetti, come fece l'altro Gregorio, invigilava sempre agl'interessi degl'Imperadori greci, che tenevano in Italia, e proccurava che le loro forze non declinassero, affinchè potessero opponersi a' disegni de' Longobardi, e fosse l'autorità loro ritegno e freno a tanta potenza: perciò si oppose al Duca di Benevento, ed ajutò i Greci napoletani, perchè Cuma non fosse da' Longobardi beneventani soggiogata. E quantunque per aversi egli dovuto opponere agli sforzi di Lione in queste novità dell'abbattimento delle immagini, fosse stato dall'Imperadore indegnissimamente trattato, sino a minacciarlo di volerlo scacciare dalla sua sede, e di mandarlo in esilio; con tutto ciò, posponendo le private ingiurie alla pubblica causa, dirizzò tutti i suoi pensieri per impedire la rivolta de' Popoli d'Italia, che a lui ubbidivano, e per difendere le terre dell'Imperio dall'invasione de' Longobardi.

Non aveva egli in Italia Principe vicino a chi potesse ricorrere per poter contra coloro far argine. Le sole forze de' Greci non bastavano: la Repubblica di Venezia solamente, che da tenuissimi principj surta, in questi tempi erasi renduta di qualche considerazione in Italia, vi restava, tanto che l'Esarca ivi erasi salvato; si raccomandò, e si rivolse per tanto Gregorio a' soccorsi de' Veneziani, ed avendo scritto una bene forte lettera ad Urso lor Duce, tanto fece ed operò co' suoi uficj, che finalmente ridusse i Veneziani a ristabilir l'Esarca in Ravenna, la quale essi con tanta celerità ritolsero a' Longobardi, che Luitprando da Pavia non potè mandarvi soccorso: furono dunque i Longobardi scacciati, rimanendo Ildeprando prigione in mano de' Veneziani, e Peredeo, mentre fuggiva, fuvvi miseramente ucciso.

Credette il Papa, che Lione sarebbe stato riconoscente d'un servigio tanto considerabile; onde si mise a sollecitarlo più fortemente che mai per lettere affinchè abbandonasse la sua impresa. Ma fu ben deluso Gregorio nelle sue speranze, poichè questo Principe, a cui era noto, che Gregorio più per proprio suo interesse, che per l'Imperio, erasi mosso in suo ajuto, irritato vie più in veggendo, che e' continuasse d'opporsi sempre più al suo disegno, e che con manifeste rivolte si tentasse scuotere il suo dominio; e conoscendo la fermezza del Papa, che l'avrebbe impedito per sempre, pensò seriamente a rimovere ogni ostacolo; e vedendo che sarebbe stata cosa difficile di venirne a capo colla forza, pensò di ricorrere alle arti ed al tradimento. Il Ducato romano, come s'è più volte detto, durava in Italia sotto la sua dominazione, e da lui si mandavano i Duchi a Roma per reggerlo. Era in questi tempi Duca di Roma Maurizio: a costui diede segretissimi ordini di favorire tre suoi Uficiali, che si ritrovavano in Roma, li quali, insidiando la vita del Pontefice, avevano data parola a Lione di condurlo in Costantinopoli vivo o morto; ma non riuscito a costoro il disegno, e pensando l'Imperadore, che dalla negligenza de' suoi principali Uficiali fosse stato frastornato, inviò nell'anno 725 Paolo Patricio in Italia per comandar in Ravenna in qualità d'Esarca, al quale incaricò questo fatto, ed allora i tre congiurati, tenendosi sicuri d'una potente protezione, si affrettarono di fare il disegnato colpo: ma prima che ne venissero all'esecuzione, la congiura fu scoperta da' Romani, vigilantissimi alla conservazione d'un Pontefice, ch'essi avevano tanto caro; ed avendone incontanente arrestati due, gli fecero subito morire; e l'altro che colla fuga erasi posto in salvo dentro un monastero, quivi rendutosi Monaco finì i giorni suoi.

Intanto il nuovo Esarca, che veniva sollecitato da Lione con premurosissimi ordini di trovar ogni strada per aver in mano il Papa, vedendo riuscir vane tutte le sue arti ed insidie, perchè il Papa era troppo bene guardato da' Romani, finalmente impaziente d'ogni indugio si risolse d'impiegar la forza aperta per mantener la parola, che egli aveva data a Lione di mettergli nelle mani Gregorio. Ragunò dunque più presto che gli fu possibile alcune truppe, raccolte parte da Ravenna e parte dell'armata, ch'egli teneva in piedi, per essere sempre in istato di difendersi dagli insulti de' Longobardi vicini, e le mandò ad unirsi agl'Imperiali, ch'erano in Roma più deboli, con ordine di menar via il Papa, e di condurlo a Ravenna.

Ma Luitprando, scaltro ed accortissimo Principe, ancorchè si tenesse offeso da Gregorio, il quale aveva suscitati i Veneziani contro di lui per fargli perdere Ravenna, come la perdette, deliberò in questa necessità di soccorrere il Papa ed i Romani contra i Greci, acciocchè, tenendo in bilancio i due partiti, per gli aiuti più o meno forti, che lor avrebbe somministrati secondo le occasioni, venissero in questa divisione a poco a poco ad indebolirsi e gli uni e gli altri, onde potesse poi della lor debolezza approfittarsi. Diede per tanto pronto ordine a Governatori delle Piazze, ch'egli aveva ne' contorni di Ravenna e di Roma, d'unirsi a' Romani, i quali con si valido soccorso trovandosi più forti di quelli dell'Esarca, gli fermarono vicino Spoleto, e costrinsongli finalmente ad abbandonar la loro impresa, e a ritornare in Ravenna.

Lione intanto, il quale per altro nell'arte del regnare e del dissimulare non era cotanto inesperto, ancorchè vedesse essergli sì mal riuscita la forza ed il tradimento, lasciossi talmente trasportar dalla collera, che non curando i danni gravissimi, che poteva portar seco una risoluzione tanto bizzarra, come era quella che egli volle prendere, quando men dovea, credette che l'autorità sua per se sola e disarmata, avrebbe fatto senza fatica ciò che non potè eseguire coll'armi e colle insidie: perciocchè trascurato ogni rispetto, e consigliandosi solamente colla sua passione, reiterò quanto intempestivamente, altrettanto con molta veemenza e fervore gli ordini all'Esarca di far pubblicare ed eseguire in Roma, ed in tutte le città del suo Imperio, che teneva in Italia, l'editto, che poco anzi aveva in Costantinopoli formato. Conteneva l'editto, come s'è detto, che si togliessero dalle chiese tutte le immagini, come tanti Idoli: prometteva di più ogni sorte di favore al Papa, purchè ubbidisse, ed all'incontro lo dichiarava reo e decaduto dal Ponteficato, nel caso che ricusasse.

Non fu veduta mai più pronta, nè più generale, nè meglio concertata risoluzione di quella, che si fece per tutto e principalmente a Roma, subito che vi fu pubblicato questo editto.

Gregorio assicurato già degli animi di tutti disposti in suo ajuto, assicurato ancora da' Longobardi, e vedendo che Lione non osservava più nè misura, nè modo, e che attaccava già apertamente non pur la sua persona, ma anche la religione; si risolse d'impiegare alla prima tutta l'autorità sua pontificale, e le armi spirituali del suo ministero per impedire, che un così detestabile editto non fosse ricevuto in Italia. Cominciò a scomunicare solennemente l'Esarca, e tutti i di lui complici. Poi mandò lettere appostoliche ai Veneziani, al Re Luitprando, ed a' Duchi de' Longobardi, ed a tutte le città dell'Imperio, per le quali gli esortava a tenersi saldi ed immobili nella fede cattolica, e ad opporsi con tutte le forze all'esecuzione di questo editto.

Queste lettere fecero tanta impressione sopra gli spiriti, che tutti i Popoli d'Italia, benchè di partiti differenti, e che spesso fra di loro guerreggiavano, come i Veneziani, Romani e Longobardi, s'unirono tutti in un sol corpo, animato d'un medesimo spirito, che gli fece operare di concerto per difender la fede cattolica e la vita del Papa, protestando tutti insieme di voler conservarla sino ad esporre la propria per una causa sì gloriosa. Ma come è difficile nel calore d'un primo moto di conservar eziandio nel bene le giuste misure, che egli dee avere; non si tennero nei limiti d'una legittima difesa: perocchè non solo i Romani e quelli di Pentapoli, ch'è oggidì la Marca d'Ancona, presero le armi, e s'unirono a' Veneziani, che furono i primi ad armarsi, ma portando più innanzi il loro zelo, scossero apertamente il giogo. Non contenti d'aver abbattute le immagini di Lione, non vollero più conoscerlo per loro Imperadore, e si elessero da loro stessi nuovi Magistrati per governarsi nell'interregno, che pretendevano fare di propria loro autorità. Andarono anche più avanti, e portarono finalmente la cosa quasi all'ultima estremità; perciocchè eran risoluti di creare un altro Imperadore, e di condurlo a Costantinopoli con una potente armata, per metterlo nel luogo di Lione; ma il Papa non riputando questo consiglio opportuno, nè proprio di quel tempo, lo rifiutò, e vi si oppose in maniera che non ebbe nessuno effetto.

Ma questo non impedì il destino di Lione, che terminò finalmente di fargli perdere in Italia l'Esarcato di Ravenna, il Ducato di Roma, e mancò poco che non perdesse il Ducato di Napoli, e con esso tutta la sua autorità in Italia: perocchè sollevati i Popoli, tantosto si divisero in fazioni e partiti. In Ravenna Paolo Esarca n'avea guadagnato molti, o per vile compiacenza, o per interesse, o per la speranza di salire in posti maggiori. Ma il contrario, che sosteneva il Papa, più forte e numeroso, non potendo soffrire l'Esarca, si sollevò, ed insorta una furiosa sedizione, anzi una spezie di guerra civile, tra i due partiti, presero l'armi per distruggersi l'un con l'altro. La fazione de' cattolici, come più forte, essendo nel conflitto rimasa superiore, fece strage grandissima di tutti gli Iconoclasti, senza risparmiar nemmeno l'Esarca, che fu ammazzato in questo tumulto. Queste furono le cagioni, le quali fecero perdere agl'Imperadori d'Oriente molte città della Romagna, ch'eran dell'Esarcato, e tutte l'altre città della Marca, che si renderono a Luitprando Re de' Longobardi. Imperocchè questo scaltro Principe, il quale non era per altro entrato in questa guerra, che per profittar dell'occasione d'ingrandirsi a' danni degli uni e degli altri, non mancò di tirar tutto il vantaggio, ch'egli poteva sperare di questa rivolta, e di far valere il pretesto della religione, secondo la massima della politica umana per conseguire i suoi fini. Fece dunque comprendere a questi Popoli, da una parte, che non potrebbono mai conservar la religione sotto un Imperadore non solamente eretico, ma ancora persecutore degli Ortodossi; e che dall'altra erano troppo deboli per resistere alle forze d'un sì potente Principe, dal quale potrebbono essere attaccati in un tempo, in cui altri interessi sarebbon forse d'impedimento a' loro amici di soccorrergli: dimodochè quelle città, non seguitando in questo movimento se non i consigli, che lor venivano ispirati dall'odio e dal timore mischiati di zelo e d'amore per la religione, dopo avere scosso il giogo dell'Imperio, si misero sotto l'ubbidienza del Longobardo. Documento che può mostrare a' Principi quanto possa nell'animo de' Popoli la forza della religione, e da ciò apprenderanno non potersi quella alterare, senza pericolo di violentemente scuotere fino da' primi cardini gli Stati da loro governati.

§. III. Il Ducato napoletano si mantenne nella fede di Lione Isaurico.

Mancò poco che, ciocchè i predecessori di Luitprando per lungo corso di anni e di guerre non poteron conseguire, egli in un tratto non ne venisse a capo, occupando il Ducato napoletano, come avea fatto di molte città dell'Esarcato di Ravenna. Era il Ducato di Napoli, come si disse, governato da un Duca, che anche da Costantinopoli solevan mandare gl'Imperadori Orientali, a' quali era sottoposto. Nei tempi di Lione governava questa città per l'Imperadore, Esilarato successore di Giovanni, il quale spinto da precisi ordini di Lione, sollecitava i Popoli della Campagna a ricevere l'editto, ed a seguitare la religione del loro Principe: aveva medesimamente subornati uomini per fare ammazzare il Papa, promettendo loro grandi ricompense, se facessero questo colpo, che egli diceva esser assolutamente necessario per riposo d'Italia. Questa esecranda viltà scoperta da' Napoletani, devotissimi che furono sempre de' Pontefici, e tenacissimi in sostenendo la dottrina della Chiesa romana, parve loro così orrenda e mostruosa, che chiudendo gli occhi ad ogni altra considerazione, fuorchè a quella, che animava la loro indegnazione alla vendetta di questo attentato, presero le armi, ed eccitato avendo turbolenze e tumulti, rivoltaronsi contra il Duca Esilarato il quale, non avendo di che far loro resistenza in una sì generale sollevazione, l'ammazzarono insieme con Adriano suo figliuolo; e ad uno de' suoi principali Uficiali, ch'essi accusarono d'aver composto un sedizioso scritto contra il Papa, parimente tolsero la vita.

Ma i Napoletani non portarono più avanti il loro sdegno, nè mancarono alla fede dovuta al loro Principe, come fecero l'altre città, nè vollero avere alcuno ricorso a' Longobardi, i quali sebbene avessero subito aperti gli occhi a sì bella opportunità, nulladimeno i Napoletani, per non irritar maggiormente lo sdegno dell'Imperadore, o come è più verisimile, essendo sempre stato fra questi due Popoli per le lunghe e continuate guerre, odio implacabile, non vollero usare tanta viltà, di sottoporsi a' Longobardi, avuti da essi sempre per fieri ed implacabili nemici. Tanto che non riuscì a Luitprando, nè a' Longobardi beneventani di potersi approfittar di sì bella occasione. Per cotale modo si mantenne questo Ducato (quando tutte le altre Signorie che gl'Imperadori orientali tenevano in Italia cominciavan a mancare) saldo e costante nella ubbidienza del suo Principe: onde in luogo d'Esilarato, sostituendosi Pietro per Duca di questa città, continuarono essi a vivere sotto l'Imperio de' Greci, infinattanto che da' Normanni non fu il lor Ducato, dopo il corso di molti e molti anni, a' Greci finalmente tolto, come diremo ne' seguenti libri.

Lione stordito alla notizia d'una sì generale rivoluzione, in vece di levar la cagione d'un sì gran male, non fece altro, che maggiormente inasprirlo, fin a renderlo incurabile; ciocchè finalmente fecegli anche perdere il Ducato di Roma, senza speranza di più ricuperarlo: e che l'avrebbe anche interamente spogliato di quello di Napoli, e di tutta l'autorità sua in Italia, se la costanza de' Napoletani, e l'avversione ch'essi tenevano a' Longobardi, non l'avesse impedito. Egli imperversando sempre più contro alla vita del Pontefice, credendolo autore di tutti questi mali, subito ch'ebbe intesa la morte di Paolo Esarca, e la sollevazione della Campagna contra il Duca di Napoli, mandò nell'anno 727 l'Eunuco Eutichio in Ravenna in qualità d'Esarca, uno de' più scellerati uomini della terra, e de' più atti ad eseguire le più empie e più difficili imprese. Si sforzò costui di corrompere i Governadori delle Piazze, ch'erano sotto la dominazione de' Longobardi ne' contorni di Napoli e di Roma, solamente per obbligargli a dissimulare, ed a non far tutto quello, che potrebbero per difendere il Papa; ma non ebbe questo vile artificio tutto il successo, ch'egli n'aspettava; poichè un uomo mandato da questo Eunuco segretamente a Roma, fu preso da' Romani, e trovatolo carico degli ordini espressi dell'Imperadore a tutti i suoi Uficiali di porre a rischio ogni cosa, per ammazzare il Papa, furono per porlo in pezzi, se Gregorio non l'avesse impedito, contentandosi solo di scomunicare Eutichio.

§. IV. Origine del dominio temporale de' Romani Pontefici in Italia.

Trovavasi veramente Gregorio in angustie grandi, poichè se bene Luitprando co' Longobardi mostrava di difenderlo contra gli sforzi di Lione, conosceva però assai bene, che questo zelo lo dimostravano non tanto per di lui servigio e conservazione, quanto per approfittarsi sopra l'altrui discordie; per la qual cagione non aveva in che molto fidarsi di loro, come l'evento il dimostrò. Quindi i Romani, abbominando dall'un canto l'empietà di Lione, alla quale voleva tirargli per quel suo editto, e dall'altro essendo loro sospetta l'ambizione di Luitprando, che non cercava altro in questi torbidi, che d'impadronirsi del Ducato romano; si risolsero finalmente, scosso il giogo di Lione, mantenersi uniti sotto l'ubbidienza del Papa, al quale giurarono di volerlo difendere contra gli sforzi e di Lione e di Luitprando. Questa fu l'origine, e questi furono i primi fondamenti che si buttarono, sopra de' quali col correr degli anni venne a stabilirsi il dominio temporale de' Pontefici romani in Italia. Cominciò il lor dominio da questo interregno, che fecero i Romani, i quali liberatisi da Lione, erano tutti uniti sotto il Papa lor Capo, ma non già ancora lor Principe.

Ma non perchè tanta avversità a' suoi disegni scorgesse Eutichio, si perdè d'animo a proseguire il suo disegno; imperocchè rifatta, come potè meglio, la sua armata, si portò in Ravenna, e durando ancora le fazioni in quella città, gli fu facile, veggendosi i suoi partigiani soccorsi con sì valide forze, ricuperarla, e ridurre i Ravignani nella fede del suo Principe. Questi, ponderando che tutta l'Italia era per lui perduta, e che non potrebbe mai opprimere il Papa e l'ostinazione de' Romani, sempre che Luitprando era per soccorrergli; impiegò tutta la sua destrezza e politica per distaccar questo Principe dagl'interessi del Pontefice e de' Romani, ed obbligarlo ne' suoi. Erasi in questo incontro ribellato a Luitprando, Trasimondo Duca di Spoleto, e trovandosi Luitprando impiegato a reprimere la costui fellonia, ardeva di desiderio di farne aspra e presta vendetta. Si era ancora il Re accorto, per la risoluzione ferma de' Romani di darsi al Papa, che niente potrebbero giovargli con essi le arti e le lusinghe per tirargli alla sua ubbidienza, ma che restava la sola forza per far questo colpo. Per questi rispetti offerendogli l'Esarca il suo esercito per reprimere prima la fellonia di Trasimondo, come che non per altri fini s'era intrigato in questa guerra, che per approfittar delle occasioni, ch'ella gli avrebbe somministrate di tirare grandi vantaggi o dall'una o dall'altra parte: non ebbe Eutichio a durar molta fatica per tirarlo ne' suoi disegni; per questo dimenticatosi dell'obbligo, ch'egli aveva co' Romani, e della parola da lui data di difendere il Papa e la religione contra gl'insulti dell'Imperadore, accettò queste offerte, e conchiuse con Eutichio il trattato, il quale in fatti congiunse tosto la sua armata a quella del Re, e seguitollo alla guerra, ch'egli andò a portare contra il Duca di Spoleti suo ribelle; la quale non durò troppo, poichè Trasimondo restò così sorpreso di questa colleganza, la quale non aspettava punto, che subito che Luitprando fu arrivato innanzi Spoleti, venne a gittarsi a' di lui piedi, chiedendogli perdono, e l'ottenne: fu medesimamente ristabilito nel suo Ducato, facendo di nuovo al Re a giuramento, e dandogli ostaggi della sua fedeltà.

Mancata così tosto l'occasione d'impiegar le armi contra ribelli, in adempimento del trattato con Eutichio, furon quelle voltate contra i Romani, e venne Luitprando con le due armate a presentarsi sotto Roma, accampandosi nelle praterie di Nerone, che sono tra 'l Tebro, e la chiesa di S. Pietro, dirimpetto al Castel S. Angelo. Presentendo Gregorio l'apparecchio di Luitprando, aveva fatto munire, come potè il meglio, la città di Roma; ma scorgendo che mal colla forza poteva resistere a tanto apparato di guerra, avendo innanzi agli occhi l'esempio del Duca di Spoleti, che colle preghiere ottenne dalla pietà di Luitprando quel che non avrebbe potuto sperar colle armi; volle imitarlo, e senza consultar la prudenza umana, la quale non poteva mai persuadere, ch'egli fosse andato a mettersi nelle mani de' suoi nemici, senza grandi precauzioni, e senza aver ben prima prese le sue misure; accompagnato dal Clero e da alcuni Baroni romani andò egli stesso a trovare il Re. Sorpreso Luitprando da quest'atto non preveduto, non potè resistere agl'impulsi della cortesìa, che gli erano molto naturali, e di riceverlo con tutto il rispetto dovuto alla santità della vita, ed all'augusto carattere del sovrano pontificato. Allora fu che Gregorio, pigliando quell'aria di maestà, che la sola virtù suprema, accompagnata da una sì alta dignità, può ispirare, cominciò con tutta la forza immaginabile temperata con una grave benignità a spander i fiumi d'eloquenza, rimproverandogli la fede promessa; il torto che faceva alla religione, della quale era tanto zelante, e ponendogli avanti gli occhi i danni gravissimi, che poteva apportare al suo Regno, se mancasse di protegger la Chiesa; lo scongiurava a desistere dall'impresa, altrove le sue armi rivolgendo. Luitprando o tocco internamente da' stimoli di religione, o che vedesse in quell'istante molte cose, ch'egli non aveva considerate nell'ardore della sua passione, o perchè, siccome gli uomini non sanno essere in tutto buoni, nemmeno sanno essere in tutto cattivi; rimase così tocco di queste dimostranze di Gregorio, che senza pensare, nè a giustificar la sua condotta, nè a cercare scusa per metter in qualche modo a coperto l'onor suo, gettossi alla presenza di tutti a' di lui piedi, e confessando il suo errore, protestò di voler ripararlo allora, e di non mai soffrire per l'avvenire, che si facesse alcun torto a' Romani, nè che si violasse nella di lui persona la maestà della Chiesa di cui era egli padre e Capo. Ed istando l'Esarca che s'adempiessero gli ordini dell'Imperadore, non solo non vi diede orecchio, ma per dare al Papa un più sicuro pegno della sua parola, pregollo che andassero insieme nella Basilica di S. Pietro, la qual era ancora in quel tempo fuori delle mura della città, e quivi in presenza di tutti i Capi della sua armata, che l'avevano seguitato, fattosi disarmare, pose sopra il sepolcro dell'Appostolo le sue armi, la cinta e la spada, il bracciale, l'ammanto regale, la sua corona d'oro ed una croce d'argento; supplicò da poi il Papa, che ricevesse nella sua grazia l'Esarca Eutichio, di cui non potevasi più temere, quando non avesse l'ajuto de' Longobardi. Gregorio sperando sempre, che Lione avrebbe un dì riconosciuti i suoi errori, acconsentì a questa dimanda, dimodochè ritiratosi Luitprando coll'esercito ne' suoi Stati, l'Esarca fu ricevuto in Roma, e trattennevisi qualche tempo molto quieto in buona intelligenza col Papa; in guisa che, essendo succeduto medesimamente in questi tempi, che un impostore, il quale facevasi chiamar Tiberio, e che vantavasi della stirpe degli Imperadori, aveva sedotti alcuni Popoli della Toscana, che lo proclamarono Augusto; Gregorio che non trascurava occasione d'obbligarsi Lione, veggendo che l'Esarca n'era entrato in pensiero per non avere forze bastanti ad opprimerlo, si maneggiò tanto appresso i Romani, che l'accompagnarono in questa guerra contra il Tiranno, il quale fu assediato e preso in un castello; donde fu mandata la di lui testa all'Imperadore.

Ma Lione indurato sempre più, portò la sua passione fino all'ultime estremità, perchè in Oriente, ove era più assoluto il suo Imperio, e che non aveva chi se gli opponesse, riempiè di stragi, di lagrime, e di sangue il tutto: fece cancellar quante pitture erano in tutte le chiese: indi fece pubblicar un ordine, col quale s'incaricava a tutti gli abitanti, principalmente a quelli, che avevan cura delle chiese, di riporre nelle mani de' suoi Uficiali tutte le immagini, acciocchè in un momento potesse purgar la città, facendole bruciare tutte insieme. Ma l'esecuzione riuscendo strepitosa, non perdonandosi nè a sesso, nè ad età; fu questa finalmente la cagione, che, senza speranza di racquistarlo, fece perdere a Lione ed a' suoi successori ciò che restava loro in Occidente. Imperocchè il Papa, disperando all'intutto la riduzione di questo Principe, e temendo che un giorno non si facesse nelle province d'Occidente ciò, che egli vedeva con estremo dolore essersi fatto in quelle d'Oriente; rallentò quel freno che e' per lo passato avea tenuto forte a non permettere, che i Romani scotessero affatto il giogo del lor Principe, ma lasciando al loro arbitrio di far ciò, che volessero, approvò finalmente quello che egli insino allora erasi sempre studiato impedire, e ciò che i Popoli aveano già cominciato a fare da loro stessi; onde i Romani, tolta ogni ubbidienza a Lione, si sottrassero affatto dal suo dominio, impedendo che più se gli pagassero i tributi, e s'unirono insieme sotto l'ubbidienza di Gregorio come lor Capo, non già come lor Principe.

Alcuni nostri Scrittori, per l'autorità di Teofane, Cedreno, Zonara, e di Niceforo, Autori greci, e che fiorirono molto tempo dopo di Gregorio, Paolo Varnefrido ed Anastasio Bibliotecario, rapportano che i Romani, scosso il giogo, elessero Gregorio per lor Principe, dandogli il giuramento di fedeltà; e che il Papa, accettato il Principato di Roma, ordinasse a' Romani, ed a tutto il resto d'Italia, che non pagassero più tributo all'Imperadore, e che di più assolvesse dal giuramento i vassalli dell'Imperio; scomunicasse con pubblica e solenne celebrità l'Imperador Lione; lo privasse non pur de' dominj, che egli avea in Italia, ma anche di tutto l'Imperio: e che quindi fosse surto il dominio independente del Papa sopra di Roma e del suo Ducato: che poi per la munificenza di Pipino e di Carlo M. si stese sopra l'Esarcato di Ravenna, di Pentapoli, e di molte altre città d'Italia.

Gli Scrittori franzesi, fra' quali l'Arcivescovo di Parigi P. di Marca, e que' due celebri Teologi Natale e Dupino, niegano che Gregorio savio e prudente Pontefice avesse dato in tali eccessi; le epistole di questo stesso Pontefice, Varnefrido, Anastasio Bibliotecario, Damasceno, l'epistole ancora di Gregorio III, e di Carlo M. a Costantino ed Irene, convincono per favolosi questi racconti; per la testimonianza de' quali tanto è lontano, che Gregorio avesse scomunicato Lione, accettato il Principato di Roma, sciolti i vassalli dell'Imperio dal giuramento e dai tributi, e deposto l'Imperadore, che anzi ci accertano che Gregorio, ancorchè in mille guise offeso, fosse stato sempre a Lione uficioso e riverente, ed avesse in tutte le occasioni impedite le rivolte de' popoli, e proccurato, che non si sollevassero contro al lor Principe. Si oppose, egli è vero, agli editti di Lione per l'abolizione delle immagini, comandando che non s'ubbidissero, ed esortando quel Principe, che lasciasse il disegno in cui era entrato; ma appresso sì gravi Autori non si legge, che lo scomunicasse. Il primo Pontefice romano, che si diè vanto di aver adoperati i suoi fulmini sopra le teste imperiali, fu il famoso Ildeprando Gregorio VII, come noteremo a suo luogo, non già Gregorio II. Ciò che più chiaro si manifesta per quello, che scrive Anastasio, narrando che avendo Lione deposto dal Patriarcato di Costantinopoli. Germano, per non aver voluto acconsentire all'editto, e sustituito Anastasio Iconoclasta; dice egli che Gregorio scomunicò bene sì Anastasio, perseverando nell'errore, ma che all'Imperadore solo sgridava con lettere, ammoniva, esortava, che desistesse dall'impresa, non già che lo scomunicasse, come scrisse di Anastasio. Più favolosa è la deposizione, che si narra fatta da Gregorio; poichè questo Pontefice riconobbe Lione per Imperadore finchè visse; e lo stesso fece il suo successore Gregorio III, il quale comunicò col medesimo e di lui si leggono molte lettere dirizzate all'Imperadore piene di molta umanità e riverenza. Anzi tanto è vero che lo riconobbe sempre per tale, che le date delle sue lettere portano gli anni del suo Imperio, come è quella di Gregorio dirizzata a Bonifacio, Imperante Domino piissimo Augusto Leone, Imperii ejus XXIII .

I nostri moderni Scrittori latini, tratti dall'autorità di que' Greci, riceverono come vere le loro favole; ma non avvertirono, che dovea preponderare assai più l'autorità de' nostri antichi latini Scrittori, che fiorirono prima, e che narravano cose accadute in tempo, ed in parte da loro non cotanto rimota e lontana. Non avvertirono ancora, che i Greci di quegli ultimi tempi, oltre al carattere della loro nazione, che gli ha sempre palesati al Mondo mendaci e favolosi, erano tutti avversi alla Chiesa romana, e per commover gli animi di tutti ad odio, e per recar invidia a' Pontefici romani, gli rappresentarono al Mondo per autori di novità e di rivoluzioni, imputando ad essi la ruina dell'Imperio d'Occidente, accagionandogli di novatori, ambizioni, usurpatori dell'autorità temporale de' Principi: e che mal imitando il nostro Capo e Maestro Gesù, fossero divenuti, da Sacerdoti, Principi.

Le favole di questi Greci scismatici furono poi con aridità e con applauso ricevute da' moderni novatori e da' più rabbiosi eretici degli ultimi nostri tempi. Essi ancora, per l'autorità di costoro, vogliono in tutti i modi, che veramente Gregorio scomunicasse Lione, che assolvesse i vassalli dell'Imperio dal giuramento, che deponesse l'Imperadore, ordinasse che non se gli pagassero i tributi, e che da' Romani ribellanti essendogli offerta la Signoria di Roma, avesse accettato d'esserne Signore, onde ne divenisse Principe. Spanemio, fra gli altri, si scaglia contra gli Scrittori franzesi, che hanno per favolosi nella persona di Gregorio questi racconti: dice che essi scrivendo sotto il Regno di Lodovico il Grande, han voluto negar questi fatti, ne sub Ludovico M. in Romano Pontifice hujusmodi potestatem agnoscere viderentur: ma essi intanto vogliono che fossero veri, per farne un tal paragone tra Cristo S. N. ed il P. Romano. Cristo, volendo quella innumerabile turba, tratta da' suoi miracoli, farlo Re, tosto fuggì, e loro rispose, che il suo Regno non era di questo Mondo: il Papa, avendo i ribellanti Romani scosso il giogo di Lione, ed offerto il Principato a Gregorio, tosto acconsentì, e ne divenne Principe. Cristo espressamente comandò che si pagasse il tributo a Cesare: il Papa ordinò che non si pagassero più i tributi a Lione; per queste e simili antitesi, per queste vie, non tenendo nè modo, nè misura, han prorotto poi in quella bestemmia di aver il Papa per Anticristo.

Or chi crederebbe, che i più parziali de' Greci scismatici, ed i maggiori sostenitori di questi rabbiosi eretici, sieno ora i moderni Romani e gli Scrittori più addetti a quella Corte? Questi, ancorchè ad altro fine, pur vogliono, che Gregorio avesse scomunicato Lione, avesselo deposto comandando che non se gli pagasse il tributo, e quel che è più, che offerendosegli il Principato da' ribellanti Romani l'avesse accettato; onde surse il dominio temporale de' romani Pontefici in Italia. Ecco, per tacer degli altri, come ne scrive il nostro istorico Gesuita Autor della nuova Istoria Napoletana: Tum tandem Romani Orientalis Imperii jugum excusserunt, Gregorium Dominum salutarunt, eique Sacramentum dixerunt, etc. Gregorius oblatum ultro Principatum suscepit: quem non arma, non humanae vires, artesque, sed populorum studia anno 727, auspicato contulerunt. Questo principio appunto vorrebbero gli Eretici dare al dominio temporale de' Papi, fondarla su la fellonia de' Romani, e che Gregorio mal imitando Cristo N. S. avesse accettato il Principato, ed il Servo de' Servi fosse divenuto Signore. Ma per quel che diremo più innanzi, si conoscerà chiaramente, che se bene da questi deboli principj cominciasse, non fu però che il Papa acquistasse allora la Signoria di Roma, ma ben molti anni in appresso: nè con tutto l'interregno che far pretesero i Romani di loro propria autorità, mancarono affatto gli Uficiali dell'Imperador greco in Roma: e possiamo con verità dire, che i primi acquisti furono nell'esarcato di Ravenna, in Pentapoli, e poi nel Ducato romano, per quelle occasioni, che saremo or ora a narrare, non già nella città di Roma.

§. V. Primi ricorsi avuti in Francia da Papa Gregorio II, e dal suo successore Gregorio III.

L'Imperador Lione avvisato di questi successi di cotanta importanza, imperversando assai più contro al Pontefice, confiscò immantenente tutti i patrimonj che in Sicilia, nella Calabria, e negli altri suoi Stati possedeva la Chiesa romana; e già s'apprestava con potente armata di punire la fellonia de' Romani, ridurre l'altre terre al suo Imperio, e prender aspra vendetta del Papa, ch'ei reputava l'autore di tutte queste rivolte; per la qual cosa Gregorio conoscendo, che un colpo di tanta importanza avrebbe potuto cadere sopra di lui, ed opprimerlo, se non fosse stato sostenuto da una potenza, che potesse opporsi con vigore a quella di Lione, pensò di scegliere un protettore, dove trovasse tutto il sostegno e l'appoggio necessario. Non poteva fidarsi de' Longobardi, de' quali con lunga sperienza aveva conosciuti i disegni, e provata l'infedeltà. I Veneziani, benchè zelantissimi per la difesa della Chiesa, non erano ancora così ben forti in Italia, per contrastare soli a tutte le forze del greco Imperadore, particolarmente quando fossero in diffidenza de' Longobardi, ch'erano fastidiosi vicini. E in quanto alla Spagna, ella era in un lagrimoso stato in quel tempo, e poco men che tutta oppressa da' Saraceni. Risolse per tanto d'aver ricorso alla potenza de' Franzesi, la cui costanza nella fede cattolica era stata sempre fermissima. Erano questi già da più di quindici anni governati da Carlo Martello, il quale, per la insufficienza e poco spirito del Re, assunto al primo onore del Regno di Maggiordomo della Casa reale, reggeva con assoluto arbitrio quel Reame, e fatto celebre per mille gloriose spedizioni di guerra nelle Gallie e nella Germania, e sopra tutto per la memorabile sconfitta data a' Saraceni ne' campi di Turone, era reputato universalmente il primo Capitano, ed il vero Eroe del suo tempo.

A questo gran Principe mandò Gregorio, ciò che nissun Papa avea ancora fatto, una magnifica ambasceria con molti belli doni di divozione per ricercarlo di soccorso contra gli attentati di Lione, e di ricevere i Romani e la Chiesa sotto la di lui protezione. Furono i Legati ricevuti da Carlo con onori straordinarj, e con magnificenza degna del più augusto Principe del suo secolo; e in poco tempo fu conchiuso il trattato, per cui obbligavasi Carlo di passare in Italia per difendere la Chiesa ed i Romani, se venissero ad essere attaccati da' Greci o da' Longobardi: ed i Romani all'incontro di riconoscerlo per loro protettore con deferirgli l'onore del Consolato, come altre volte aveva fatto l'Imperador Anastasio al gran Clodoveo, da poi ch'ebbe sconfitti gli Vestrogoti. E rimandati i Legati pieni di ricche donativi, e soddisfatti d'una sì felice negoziazione; Gregorio non avendo più che temere per la Chiesa, alla quale lasciava un così potente protettore, finì i giorni suoi nell'anno 731, con fama d'un Pontefice di rare ed eminenti virtù, che gli fecero meritare sopra la terra gli onori, che non si rendono se non a' Santi del Cielo.

Successe nel Pontificato Gregorio III, di cui altri scrissero, essere stata questa legazione mandata a Carlo Martello, per occasione, che Luitprando, sconfitto Trasimondo Duca di Spoleti, che di nuovo erasi a lui ribellato, profittando al solito delle vittorie, si fosse portato ad invadere di bel nuovo il Ducato romano, irritato contra Gregorio III, che avea accolto il ribelle, e si fosse avanzato a porre la seconda volta l'assedio a Roma, e che non essendo al Papa giovate le preghiere e l'eloquenza, come al suo predecessore, finalmente al soccorso di Carlo si fosse rivolto, per la cui mediazione ottenne, che Luitprando contento solo di quattro città, sciogliesse l'assedio, e lasciasse a' Romani ed al Papa Roma col rimanente di quel Ducato. Che che sia di ciò, egli è certo, che per questi ricorsi cominciarono i Franzesi ad intrigarsi negl'interessi d'Italia, per li quali con reciproco ajuto e cospirando ciascuna delle parti a' proprj avanzamenti, finalmente discacciati i Longobardi, furon essi veduti dominare l'Italia; essersi da' Merovingi nella stirpe di Carolingi trasferito il Reame di Francia; ed all'incontro i Pontefici romani essersi stabiliti in Roma, e nel Ducato romano, con molta parte ancora dell'Esarcato di Ravenna e di Pentapoli: come più innanzi diremo.

§. VI. Costantino Copronimo succede a Lione suo Padre; e morte di Luitprando Re de' Longobardi.

In tanta turbazione essendo le cose d'Italia, e con varj accidenti sempre più deteriorando le forze dell'Imperadore Lione, era solamente rimasa quivi una immagine della sua autorità. L'Esarcato di Ravenna, scantonato in gran parte dalle conquiste de' Longobardi, già minacciava la total rovina senza speranza di riaversi: il Ducato romano era nelle mani de' Romani e del Pontefice lor Capo, a' quali ubbidiva; e se bene rimanessero ancora in Roma alcuni vestigi della sopranità, tenendovi ancora Lione i suoi Uficiali, vi era nondimeno il suo Imperio così debole, che ben mostrava di dovere in breve rimaner affatto estinto: nel solo Ducato napoletano, nella Calabria, e ne' Bruzj, e nelle altre città marittime del Regno, che non ancora erano pervenute nelle mani de' Longobardi beneventani, esercitava egli il pieno potere e dominio. Ma morto Lione Isaurico in quest'anno 741 e succeduto nell'Oriente Costantino Copronimo suo figliuolo diedesi l'ultima mano alla fatal ruina; poichè Costantino non avendo niente delle buone qualità, che aveva avuto suo padre, lo superò infinitamente nelle ree; e se si voglia in ciò prestar fede a' greci Scrittori, egli fu il più scellerato e sozzo mostro che avesse giammai avuto la terra. Appena si vide solo Imperadore, che imperversando assai peggio di suo padre contra le immagini, diede fuori un editto, col quale non solamente condannava le immagini de' Santi, ma proibiva d'invocargli, e di dar loro titolo di Santo, e portando più avanti il furore, imperversò ancora contra le loro reliquie, sino ad ordinare i maggiori oltraggi e disprezzi del Mondo. Perseguitò per tanto i difensori delle immagini, e mandò per questa cagione molti Vescovi in esilio. Ma si rendè vie più empio, e da tutti abborrito per l'odio da lui conceputo contro alla Madre di Dio, proibendo che si celebrasse festa alcuna a di lei onore, e che non s'implorasse l'ajuto di Dio per la di lei intercessione, asserendo non aver ella nessun potere nel Cielo, nè sopra la terra.

Questa esecranda impietà, unita alle tante altre peggiori praticate in appresso, ed a tanti abbominevoli suoi vizj, lo rendè così odioso a' sudditi, che non pur gli fecero perdere quell'ombra di dominio, ch'e' teneva in Roma ed in Ravenna, ma mancò poco che non perdesse insieme tutto l'Imperio.

Era nell'istesso anno, che morì Lione, trapassato anche Gregorio III, ed assunto al Pontificato Zaccaria: debbe a costui la Chiesa romana molto più, che a' due Gregorj, il dominio temporale, che sopra le spoglie dell'Imperio greco seppe parte ristabilire, e molto più acquistare; imperocchè questi appena assunto al trono, mandò Legati a Luitprando a chiedergli le quattro città, che per la mediazione di Carlo Martello erangli state lasciate quando la seconda volta sciolse da Roma l'assedio. E se bene da Luitprando fossero i di lui Ambasciadori ricevuti con onore, e n'avessero riportata qualche speranza per la restituzione, con tutto ciò Zaccaria, vedendo l'affare mandarsi in lungo, volle anche egli imitar Gregorio II, e portatosi di persona con tutto il Clero romano a ritrovare il Re, ricevuto da costui con istraordinarj segni di stima, furono così forti ed efficaci i suoi uficj, che non solamente ottenne dalla pietà di questo Principe la dimandata restituzione, ma stabilita tra loro la pace per venti anni, riebbe ancora il patrimonio sabinense, e molti altri acquisti fece oltre ad ogni sua espettazione. E fu cotanto fortunato questo Pontefice appresso Luitprando, ed in tanta sua buona grazia, che avendo in questi ultimi tempi del suo Regno, di riposo impaziente, conforme al suo natural costume, voluto attaccar di nuovo Ravenna, Eutichio Esarca, essendo ricorso alla mediazione del Papa, operò costui tanto con Luitprando, che fecelo astenere da quella impresa, e restituire anche alcuni luoghi occupati, e prima d'ogni altro Cesena.

Ma ecco, che mentre queste cose succedono in Italia, Luitprando dopo aver regnato 32 anni, finì i giorni suoi in Pavia nel mese di luglio dell'anno 743. Morte quanto improvvisa, altrettanto a' Longobardi dolorosissima, da' quali non abbastanza compianto, con solenne pompa fu sepolto nel tempio di S. Adriano Martire in Pavia con elogio ricolmo di eccelse lodi. Principe, se ne togli la soverchia ambizione del dominare, fornito di tutte le perfezioni desiderabili in un Re, o per la pace o per la guerra: egli Capitano quanto valoroso, altrettanto fortunato nelle sue imprese, dilatò i confini del suo Regno, e nudrito sin da fanciullo in mezzo all'armi, non avea niente di fiero e di feroce, anzi cortesissimo ed inchinato sempre ad usar clemenza, anche verso coloro, che l'avevano offeso: egli savissimo, fu più abile di quanti erano del suo Consiglio. Le sue leggi tutte savie e prudenti; e quantunque non avesse coltivato il suo spirito collo studio delle buone lettere, aveva egli pure trovato da se stesso nel suo proprio fondo tutta la forza e sottigliezza d'un Filosofo.

Della sua pietà verso Dio restano ancora insigni monumenti: egli magnifico in fondando grandi chiese e belli monasterj, de' quali Varnefrido rapporta il numero, ed ancora oggi in Lombardia se ne ammirano i vestigi: egli casto, e misericordioso co' poveri, e d'un così buon naturale, che di quanti Principi longobardi ressero l'Italia, meritamente a lui tutti gli Scrittori rendono il vanto maggiore. Lasciò il Regno ad Ildeprando suo nipote, che negli ultimi anni di sua vita volle anche averlo per compagno: ma durò poco la costui Signoria; poichè appena scorsi sette mesi, che i Longobardi, non potendo per la sua inettitudine promettersi di lui felice e buon governo, lo discacciarono dal solio; ed in suo luogo innalzarono Rachi Duca del Friuli, Principe adorno di nobili virtù, e d'incomparabile pietà.

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