Di Rachi Re de' Longobardi, e sue leggi.
Rachi con incredibile piacer di tutti assunto al Trono regale nell'anno 744, diede ne' primi anni del suo Regno saggi ben chiari del suo animo quieto, ed inchinevole ad ogni studio di pace, poichè fermò con Zaccaria la pace, che avea Luitprando pochi anni prima pattovita; e seguitando l'esempio degli altri Re longobardi, volle anche aggiungere nuove leggi a quelle de' suoi predecessori, ed ammollire il rigore, che in alcune di esse era ancor rimaso. Egli avendo convocati in Pavia nell'anno 745, gli Ordini del Regno le stabilì, e per un suo editto, secondo il costume dei suoi maggiori, le fece promulgare per tutto il suo Regno. Questo editto ancora si legge intero nel più volte mentovato Codice Cavense, il qual contiene undici capitoli. Il primo comincia: Ut unusquisque Judex in sua Civitate debeat quotidie in judicio residere: e l'ultimo ha questo tit.de Arimanno quomodo cum Judice suo caballicare debeat. Da questo editto nove sole leggi prese il Compilatore, le quali abbiamo nel volume delle leggi longobarde. Tre ne abbiamo nel primo libro, una sotto il tit. de Seditione contra Judicem, e due sotto l'altro de Invasionibus. Nel libro secondo ne abbiamo quattro: una sotto il tit. de Debitis, ed guadimoniis; un'altra nel tit. de praescriptionibus; altra sotto il tit. de Officio Judicis: un'altra sotto quello: Qualiter quis se defendere debeat; e due altre nel terzo libro, una sotto il tit. de his, qui secreta Regis inquirunt; e l'altra sotto quello, ubi interdictum sit Legatum alicui mittere, ove con sommo rigore vien proibito mandar Legati senza licenza del Re a Roma, Ravenna, Spoleti, Benevento, in Franzia, Baviera, Alemagna, Grecia e Navarra.
Ma Rachi dopo aver così ben coltivati gli studj della pace, e sì ben composto il suo Regno con sagge e provide leggi, non passarono molti anni, che gli intermise; e preso dall'ambizione di dilatare i confini del Regno, come avea fatto il suo predecessore, volle imitarlo; il perchè posto in piedi l'esercito portò in Pentapoli la guerra, e presi alcuni luoghi di quella regione, s'inoltrò nel Ducato romano, e finalmente cinse Perugia di stretto assedio.
In questi tempi fu, che Zaccaria Pontefice romano ebbe occasioni sì prospere, che lo portarono ad imprese cotanto rinomate ed eccelse, che meritamente il suo nome dee andarne glorioso sopra tutti gli altri Pontefici romani; imperocchè seppe gettar fondamenti tali e sì profondi per distender l'autorità ed il dominio della sua sede, che a niun altro in appresso venne mai così acconciamente fatto.
§. I. Translazione del Reame di Francia da' Merovingi a' Carolingi.
Dopo la morte di Carlo Martello, Pipino e Carlomanno suoi figliuoli presero il governo del Regno franzese. Childerico ultimo Re della prima stirpe non riteneva altro per la sua dappocaggine, che il solo nome regio; ma scorsi sei anni, Carlomanno rinunciando al fratello il governo, accompagnato da molti Franzesi se ne venne a Roma, ed acceso di fervente zelo di religione, volle che Zaccaria l'ascrivesse nel numero de' Cherici; indi ritiratosi nel monte Soratte vi fondò un monastero, che volle dedicare a S. Silvestro Papa, narrandosi che in Soratte fosse stato questo Pontefice nascosto in tempo delle sue persecuzioni, prima che Costantino M. ricevesse la Religione cristiana. Ma essendo questo luogo di continuo frequentato da' Franzesi, che venivano o di proposito, o di passaggio a visitarlo, volle per distaccarsi affatto da tutti gl'interessi del secolo, ritirarsi in monte Cassino, ove consecratosi a Dio si fece Monaco.
Rimase intanto solo a reggere la Monarchia di Francia Pipino, con quello stesso arbitrio ed autorità colla quale Carlo Martello suo padre aveva governato, anzi maggiore; poichè Childerico III, ultimo che fu della stirpe de' Merovingi, per la sua sciocchezza ed inettitudine era stimato meno degli altri Re suoi predecessori, i quali intorno a cento anni non avevano avuto altro, che il nome regio, sofferendo vilmente la reggenza de' Maestri del Palazzo, che n'avevano tutta l'autorità. All'incontro Pipino per le nobili sue maniere, e per le sue gloriose azioni aveva tirato a se gli animi di tutti i Franzesi, i quali di buona voglia avrebbero riconosciuto più tosto per loro Re lui, che Childerico Principe stupido ed inetto. Non trascurò Pipino sì bella occasione di trasferir il Reame di Francia dalla stirpe del gran Clodoveo nella sua Casa, e adoperovvi ogni più fina industria. Ma se bene i Franzesi secondassero i suoi disegni, non volevano però per se stessi farlo: persuasi di non avere questa autorità di trasferire il Reame dalle mani del legittimo erede, in altra Casa, nè per se soli liberarsi dal giuramento della fedeltà, che avean dato al lor Principe. Pipino ponderando l'arduità del fatto, e che Carlo Martello suo padre, ancorchè formidabile ed illustre per tante vittorie, non aveva avuto ardimento di tentarlo; e pensando altresì, che tanta e sì nuova impresa non per altro modo avrebbe potuto rendersi meno strepitosa, anzi commendabile, che col ricorrere all'autorità della sede appostolica, riputata sin da questi tempi il Seminario d'ogni virtù e d'ogni santità, la quale, se non avesse approvato il fatto, avrebbe potuto concitargli contro tanti inimici, ch'egli non avrebbe potuto colle sue forze abbattere; pensò con somma prudenza sotto il manto dell'autorità della medesima coprire la deformità del fatto; e mandato in Roma al Pontefice Zaccaria il Vescovo Vardsburgense, fece da costui esporgli il desiderio suo, e di tutti i Franzesi, richiedendolo del suo parere, se per la comune utilità del Regno sarebbe ben fatto di trasferire lo scettro da uno stupido Re in Pipino prode e saggio Principe. E dopo avergli il Vescovo dimostrato, che approvando egli questa traslazione, s'acquisterebbe maggior gloria, che Carlo Martello d'avere trionfato de Saraceni, lo richiese d'interporre l'autorità sua, e di sciorre dal giuramento i Franzesi, perchè potessero innalzar al trono Pipino. Questa fu la pubblica ambasciata del Legato, ma le secrete istruzioni erano, di promettere al Papa, se assentiva, di difenderlo contra tutti i suoi nemici, e spezialmente contra i Longobardi, da' quali potrebbe stare sicuro, che non solamente non gli farebbe far oppressione, ma di proccurar maggiori avanzi alla sua sede.
Zaccaria non trascurò punto sì bella ed opportuna occasione, ove si dava campo di mostrare insieme, e la grandezza della sua autorità, e di stabilire non solo il dominio temporale, che cominciava a tenere in Italia, ma di stenderlo più oltre nel Ducato romano, e nell'Esarcato di Ravenna. Non solamente dunque consigliò, che potessero farlo, ma perchè rimanesse ai posteri un solenne documento dell'autorità sua, aggiunse del suo anche un decreto, col quale annullando il Regno di Childerico, come Re insufficiente, e liberando i Franzesi dalla religione del giuramento, ordinò che in suo luogo fosse Pipino sustituito. I Franzesi ottenuto che l'ebbero, ragunatisi a Soissons, scacciato dal Regno Childerico, e ridotto questo povero Principe a farsi Monaco, con rinchiudersi dentro un monastero, elessero Pipino, e lo fecero solennemente incoronare per Bonifacio Arcivescovo di Magonza, dal quale ancora ricevè la sacra unzione, acciò ch'ella il rendesse più venerabile a' suoi sudditi, e fu il primo Re di Francia che l'usasse.
Alcuni Scrittori franzesi, e largamente Dupino, dimostrano, che i Franzesi mandarono quest'ambasciata a Zaccaria per consultarlo solamente come Dottore e Padre de' cristiani, e che d'altro non lo ricercassero, salvo che del suo avviso ed approvazione, per rendere la loro elezione più plausibile a tutta la Cristianità, e quindi che Zaccaria non facesse altra opera, che dare il suo parere o consiglio. Altri per l'autorità di Eginardo, di Reginone, degli Annali stessi di Francia, rapportano, che questo Papa non si ritenne solo di approvar quest'elezione, ma, come egli è facile di far più di quello che vien richiesto, allor che vale ad estendere ed allargare la propria autorità, volle anche passar più innanzi, cioè ad ordinarlo, e farne decreto; il che però essi dicono, che non apportasse a loro per l'avvenire niuna conseguenza o pregiudizio, come si rendè chiaro quando ducento trenta sett'anni da poi i Franzesi elessero di comun consentimento, ed incoronarono Ugone Capeto, scacciandone Carlo di Lorena, ch'era il legittimo erede della stirpe di Carolingi, senza che fosse d'uopo di consultarne il Papa, come erasi fatto per Pipino. Che che ne sia, egli è certo, che questi rispetti e trattati passarono allora fra Zaccaria e Pipino: quegli d'assentire alla traslazione del Regno, che Pipino pretendeva fare sortire nella sua Casa, e di prestargli ogni ajuto, come fece; questi all'incontro di proteggere la sede appostolica, e difenderla contra i suoi nemici, e particolarmente contra i Longobardi, con proccurarle maggiori vantaggi. Ciò che lasciò in dubbio, se maggior beneficio avesse riportato la sede appostolica da Pipino e dalle armi, che impugnò per difenderla contra gli sforzi de' Longobardi, e di ristabilire il suo temporal dominio in Italia; o veramente Pipino dalla autorità di quella sede, la quale fu a' Franzesi cotanto propizia, che rendè i suoi discendenti padroni d'Italia, ed agevolò il discacciamento de' Longobardi da quella.
§. II. Rachi abbandona il Regno, e fassi Monaco Cassinese.
Intanto Zaccaria, mentre ancora non aveva conchiusi questi trattati con Pipino, non trascurava gli interessi della sua sede con Rachi, il quale trascorso nel Ducato romano, e nel suo tenimento, aveva, come si disse, cinta Perugia di stretto assedio, e minacciava ulteriori progressi. L'Imperadore lontano, e delle cose d'Italia non curante; l'Esarca impotente a segno, che appena poteva difendersi in Ravenna, tanto era lontano, che potesse ostargli; altro non restava a Zaccaria per isgombrar questo turbine, che ricorrere alla sua autorità, ed al proprio valore dell'animo. Preso dunque ardire, volle egli con decoroso accompagnamento portarsi di persona nel campo, ove Rachi era presso alle mura di Perugia: ivi da questo Principe accolto con molto onore, fu tanta la forza e veemenza del suo dire, che istillò in Rachi affetti così vivi di pietà e di religione, che tosto questo Principe non solo abbandonò l'assedio di Perugia, ma alquanti castelli di Pentapoli, che aveva occupati, immantenente gli rendette. E fu il colpo sì profondo, che un anno da poi, preso dalla maestà del Pontefice, e vinto da occulta forza di religione, volle passare in Roma con Tasia sua moglie e Ratruda sua figliuola a visitarlo, e quivi prostrato a' suoi piedi, rinunciando al Regno, volle farsi Monaco insieme colla moglie e figliuola; e preso l'abito dalle mani del Pontefice, ritirossi in monte Cassino a finire i suoi giorni in quel monastero sotto la regola di S. Benedetto: seguirono il di lui esempio Tasia e Ratruda, le quali, avendo a proprie spese eretto dalle fondamenta, non molto distante da Cassino, un magnifico monastero di vergini, ivi vestito l'abito monastico, menarono santamente la loro vita.
Menò Rachi il resto de' suoi anni nel monastero Cassinese. Principe memorando per aver amministrato il Regno con tanta prudenza e moderazione, e con sì provide leggi ch'egli promulgò: ma molto più renduto immortale e commendabile nella memoria degli uomini per averlo deposto con tanti segni di pietà e di religione; ond'è che i Monaci di quel monastero lo venerino oggi per Santo. Ne' tempi, ne' quali Lione Ostiense compose la sua Cronaca, si vedea vicino quel monastero una vigna, che, come narra Lione, era comunemente chiamata la vigna di Rachi, dicendo que' Monaci che Rachi l'avesse piantata e coltivata. L'Abate della Noce, poi Arcivescovo di Rossano, nel tempo che vi fu Abate, fece ricercar questo luogo, che lo trovò tutto incolto: vi fece rifar la vigna, di cui non era rimaso vestigio, e fecevi anche fabbricar una Chiesetta in suo onore.
Giovanni Villani Fiorentino portò opinione, che quella statua di metallo, che ora si vede nella piazza di Barletta, fosse stata da' Longobardi beneventani eretta a questo Principe, ch'e' chiama Eracco: l'autorità di questo Istorico fece anche credere a Beatillo, e quel ch'è più, all'Abate della Noce, e ad alcuni altri, che quella veramente fosse di Rachi: ciocchè, se si riguarda l'estensione del Ducato beneventano di questi tempi, non sarebbe stata cosa impossibile; conciossiacchè estendendo da questa parte i suoi confini, oltre Siponto, insino a Bari, veniva quella terra ad esser compresa nel Ducato beneventano, il quale ancorchè tenesse i suoi particolari Duchi, a' quali immediatamente s'apparteneva il suo governo; nulladimanco costituendosi il Regno de' Longobardi in Italia, non pure per quel tratto di paese, che ora chiamiamo Lombardia, e per gli altri Ducati minori, ma sopra tutto per que' tre celebri Ducati, di Spoleto, di Friuli e questo di Benevento, maggiore di tutti gli altri, i quali erano subordinati a' Re dei Longobardi che tenevano la loro sede in Pavia, non sarebbe stata cosa molto strana, che i Longobardi beneventani avessero a Rachi loro Re innalzata quella statua.
Ma due ragioni fortissime convincono per favolosa ed erronea l'opinione del Villani. Sembra primieramente affatto inverisimile, che i Longobardi beneventani una statua così grande e magnifica avessero voluto collocarla in Barletta: terra in quest'età piccola e di niun conto, e posta quasi ne' confini del lor Ducato, e non in Benevento città metropoli, ovvero in qualch'altra città magnifica di quel Ducato, che ne ebbe molte, non a Capua, non a Salerno, non a Bari e non a tant'altre. Barletta prima non era, che una torre posta nel mezzo del cammino fra Trani e la città di Canne, cotanto rinomata per la celebre rotta data quivi da Annibale a' Romani: ella serviva per alloggio de' passaggieri, e, com'è uso, teneva per insegna una Bariletta. La comodità del sito, essendo sette miglia discosto dall'una e sette dall'altra di queste due città, tirò a se alcuni de' lor cittadini ad abitarvi, onde poi il luogo prese il nome di Barletta, e crescendo tuttavia gli abitatori sotto l'Imperio di Zenone, e nel Pontificato di Gelasio, S. Sabino Vescovo di Canosa la giudicò luogo opportuno, dove si fabbricasse una chiesa per la divozione degli abitanti, come fu eretta in onore di S. Andrea Appostolo. Narrasi ancora che trovandosi Papa Gelasio nel monte Gargano per lo miracolo dell'Apparizione di S. Michele, Gelasio, a preghiere del Vescovo Sabino, intorno l'anno 493 calasse a consecrarla insieme con Lorenzo Vescovo di Siponto, Palladio di Salpi, Eutichio di Trani, Giovanni di Ruvo, Eustorio di Venosa e Ruggiero Vescovo di Canne; e fatta questa consecrazione, di tempo in tempo crescendovi gli abitanti, divenne una buona terra, passando dalla città di Canne ad abitare in essa per maggior comodità molti cittadini. Tale era lo stato di Barletta nel Regno di Rachi: crebbe poi, e cominciò a prender forma di città molti secoli appresso; e sotto il Regno de' Svevi, Manfredi a cui fu molto cara questa parte di Puglia, ed ove soleva per lo più risedere, onorolla sovente, e vi fece qualche dimora mentr'era tutto inteso alla fabbrica del nuovo Siponto, che dal suo prese il nome di Manfredonia. Innalzata da questo Principe potè poi insorgere contra Canne sua madre, e contendere con lei de' confini e del territorio, che per molti anni ebbero comune; onde Carlo I d'Angiò per togliere via le contese, che soglion per ciò nascere fra' vicini, fece partirgli: fu cinta allora di mura, e furo per ordine di questo Re inquadrate le strade, e fatte le porte. Fu fatta poi sede degli Arcivescovi di Nazaret, e ridotta in quella magnificenza che oggi si vede. Giovanni Villani, che fiori nel Regno di Carlo II d'Angiò, e di Giovanna I sua nipote, in tempo che Barletta era già divenuta una delle città ragguardevoli della Puglia, credendola ancor tale nel Regno di Rachi, e vedendo giacere nel Porto di quella città questa statua, che i Barlettani chiamavano corrottamente, siccome chiamano ancor oggi, di Arachio, credette che fosse di questo Re longobardo. Donde anche si vede l'errore di Scipione Ammirato, il quale scrisse, che questa statua fosse stata da' Barlettani dirizzata ad Eraclio Imperadore in segno di gratitudine, per avere quell'Imperadore per comodità de' Mercatanti fatto il Molo nella loro città; quando ne' tempi d'Eraclio, Barletta era piccola terra, ed il Molo fu fatto molti secoli dopo Eraclio da' cittadini barlettani, i quali non prima dell'anno 1491 trasportarono quella statua, che mezza fracassata giaceva nel porto, dentro la città nella piazza dove sta oggi, accomodandovi le gambe e le mani, nel modo, che ora si vede.
L'altra ragione, che convince non essere quella statua di Rachi, è il volto che ci rappresenta tutto raso, l'abito greco che veste, e l'avere in una mano la Croce e nell'altra il Pomo, simbolo del Mondo. Questi segni, siccome provano esser quella una statua di qualche Imperadore d'Oriente, così dimostrano non essere di Rachi, o di qualch'altro Re longobardo. Nel tante volte rammentato Codice Cavense, ove sono gli editti de' longobardi Re d'Italia, veggonsi alcuni ritratti miniati d'alcuni di questi Re, autori di quegli editti, i quali ancorchè malfatti, e secondo le dipinture di quei tempi, sconci e goffi, nulladimanco ci rappresentano i volti con barba lunga, gli abiti lunghi con clamide e scettro, non già Croce, nè Pomo, e colla corona sul capo. Quindi non è fuor di ragione il credere per vera l'antichissima tradizione de' Barlettani, i quali la riputano statua d'Eraclio Imperador d'Oriente.
Questi, dicono essi, per la divozione grandissima portata non pur da lui solo, ma da tutti gli altri Imperadori suoi predecessori all'Arcangelo Michele, al quale eransi in Costantinopoli eretti tanti tempj ed altari, essendosi a' suoi dì renduto così celebre il santuario del monte Gargano, e cotanto famoso, che tirava a se la munificenza de' più potenti Re della terra: volle ancor egli mandare ad offerire a questo tempio molti doni, e fra gli altri la sua statua, acciocchè si rendesse eterna la memoria del culto, che e' rendeva a quel Santo. Aggiungono, che la nave, la quale questi doni conduceva, sbattuta nell'Adriatico da' venti e da procelle, fosse naufragata in quel mare vicino ai lidi di Barletta, dove la statua giaciuta per lungo tempo nell'acque, fossesi a lungo andare poi scoverta, indi portata al lido, e propriamente nel porto di quella città, ove mezza fracassata giacque ancora per altro lungo tempo; finalmente i Barlettani nell'anno 1491 l'avessero trasportata dentro la città, e collocata in quel luogo, dove ora si vede. Certamente la barba rasa, l'abito greco e corto, la Croce ed il Pomo, la dimostrano d'un qualche Imperadore d'Oriente; la fama, la tradizione, il viso, conforme a quello, che scrivono d'Eraclio, il nome, ancorchè corrotto, col quale fu sempre nomata da' Barlettani, la fanno, non senza ragione, credere che fosse di questo Imperadore.
(Cedreno parlando dell'Imperador Eraclio narra, che sebbene prima d'essere stato innalzato al Trono, si avesse fatta crescer la barba, nulladimanco, fatto Imperadore, se la fece radere, siccome dice in Heraclii Anno I, quod Imperator factus, barbam raserit, quam aluerit ante).
L'opinione del Mazzella, il quale credette questa statua essere dell'Imperadore Federico II, è cotanto falsa ed inetta, che sarebbe consumare inutilmente il tempo a convincerla per ripugnante a tutta l'Istoria.