CAPITOLO II.

Di Astolfo Re de' Longobardi: sua spedizione in Ravenna, e fine di quell'Esarcato.

I Longobardi, tosto che Rachi si fece Monaco, sustituirono nel solio del Regno Astolfo suo fratello: Principe prode di mano, e più di consiglio, il quale avendo portato il suo Regno all'ultimo periodo della grandezza; questo stesso cagionò la sua declinazione, e la ruina de' Longobardi in Italia. Mostrò nel principio del suo governo sentimenti di moderazione e di quiete: confermò con Zaccaria la pace altre volte stabilita con Luitprando e con Rachi suo fratello, ed accordò al medesimo tutte quelle condizioni, che coi suoi predecessori erano state pattuite. Questo Pontefice, dopo aver con Astolfo stabilita la pace, e dopo aver così prosperamente composti gl'interessi della sua sede, uscì da questa mortal vita nell'anno 752. Pontefice, a cui molto debbe la Chiesa romana, che seppe far tanto per la di lei grandezza, e per l'augumento della sua autorità: egli lasciò a' suoi successori fondamenti molto stabili e ben fermi, onde con facilità poterono da poi condurre la lor potenza in tutte le parti d'Occidente a quella grandezza, che finalmente si rendè a' Principi sospetta, ed a' Popoli tremenda.

Morto Zaccaria, il Clero e Popolo romano sustituirono Stefano II, ma questi non tenne più quella sede, che tre o quattro giorni; perocchè oppresso da grave letargo per tre giorni continui, nel quarto rendè lo spirito. Tosto ne fu eletto un altro, anche Stefano nomato, il quale dagli antichi Scrittori viene appellato anche II, non avendo ragione del suo predecessore, che morì senza esser consecrato: poichè in questi tempi l'elezione sola non dava il Papato, ma la consecrazione; onde se alcuno eletto moriva innanzi d'esser consecrato, non era posto nel catalogo e numero de' Pontefici: così veggiamo, per tralasciar altri, che Erchemperto ed Ostiense chiamano questo Stefano II, e non III. Al presente però si tiene per articolo, contra quello che l'antichità ha creduto, che per la sola elezione de' Cardinali il Papa riceva tutta l'autorità; e per ciò gli Scrittori di questi ultimi tempi si sono travagliati per metter in numero, ed in catalogo questo Stefano, laonde è loro convenuto mutare il numero agli altri Stefani seguenti, chiamando il secondo terzo, ed il terzo quarto, e così fino al nono, che lo dicono decimo, con molta confusione tra gli Scrittori vecchi e nuovi, nata solo per interesse di sostenere questo articolo.

Questo Pontefice assunto al trono, imitando i vestigi de' suoi predecessori, mandò dopo tre mesi del suo Pontificato Legati ad Astolfo con molti doni, perchè con lui ristabilisse quella pace, che già con Zaccaria aveva fermata; Astolfo la ratificò e fu accordata per 40 altr'anni.

Ma questo Principe, che non nudriva nell'animo pensieri meno ambiziosi di quelli di Luitprando, aveva fermata questa pace col Papa, acciocchè non potesse il medesimo frastornargli i disegni, che aveva di sottoporre al suo dominio Ravenna con tutto il resto dell'Esarcato, che ancor era in mano de' Greci, e che veniva governato dall'Esarca Eutichio. Avea egli per questa impresa, da che fu innalzato al Trono, per lo spazio di due anni sotto altri colori unite tutte insieme le sue forze, e rendutele più poderose che mai; e scorgendo che Costantino Copronimo, il quale in questi tempi aveva assunto per compagno al Trono Lione suo figliuolo, era distratto in altre imprese nella Grecia e nell'Asia, e che punto non badava alle cose d'Italia, nè volendo avrebbe potuto sì tosto soccorrerla; si mosse in un subito con tutte le sue forze contra Eutichio, ed a Ravenna capo dell'Esarcato dirizzò il suo cammino, cingendo di stretto assedio quella imperial città. Eutichio colto così all'improvviso, mal potendo sostener l'assalto, nè a tanta forza resistere, gli convenne per tanto render la Piazza, e con quella ogni speranza di ricuperarla; poichè lontano da qualunque soccorso, e sproveduto di gente e di danaro, abbandonando ogni cosa se ne ritornò in Grecia. Ad Astolfo, presa Ravenna, con facilità si renderono tutte le altre città dell'Esarcato e di Pentapoli, e trionfando de' suoi nemici, unì al suo Regno l'Esarcato di Ravenna, per cui tante volte i suoi predecessori s'erano indarno affaticati, i quali ora perditori, ora vincitori, mai non poterono interamente e stabilmente unirlo alla lor Corona, senza timore di perderlo: come fortunatamente accadde ad Astolfo, ed alla felicità delle sue armi.

Ecco il fine dell'Esarcato di Ravenna, e del suo Esarca: Magistrato che per lo spazio di 183 anni aveva in Italia mantenuta la potenza e l'autorità degli Imperadori d'Oriente: fine ancora del maggior lustro e splendore di quella città, la quale da Onorio e da Valentiniano Augusti, posposta Roma, avendo avuto l'onore d'esser perpetua sede degl'Imperadori, e dappoi degli Esarchi, a' quali ubbidivano i Duchi di Roma, di Napoli e di tutte l'altre italiche città dell'Imperio, e che i suoi Vescovi contesero con quelli di Roma istessa della maggioranza; ora ritolta da' Longobardi a' Greci, mutata fortuna, e ridotta in forma di Ducato, non fu da essi trattata da più, che gli altri Ducati minori, onde il Regno de' Longobardi era composto: origine che fu della sua fatal ruina, e dello stato in cui oggi la veggiamo. Marquardo Freero nella Cronologia ch'ei tessè degli Esarchi di Ravenna, da Longino primo Esarca sotto Giustino II, infino all'ultimo, che fu questo Eutichio, scrisse che questo Esarcato durò 175 anni; ma dal computo degli anni, ch'e' medesimo ne fa, si vede, che essendo, com'egli stesso dice, cominciato da Longino nell'anno 568 e finito in Eutichio, dopo aver Astolfo presa Ravenna secondo lui nell'anno 751, durò l'Esarcato non già 175 ma ben 183 anni. E secondo coloro, che portano la caduta di Ravenna nell'anno 752 l'Esarcato durò 184 anni.

§. I. Spedizione d' Astolfo nel Ducato romano.

Astolfo dopo sì grande e gloriosa impresa, ripieno d'elatissimi spiriti minacciava già di stendere il suo Imperio sopra gli altri miseri avanzi, che restavano in Italia all'Imperador de' Greci: egli impadronito dell'Esarcato di Ravenna, credendosi succeduto a tutte quelle ragioni, che portava seco l'Esarcato, le quali erano, la maggioranza e la sovrana autorità sopra il Ducato di Roma e di tutto il resto; pretendeva di dovere anche dominare le città del Ducato romano, e molto più la città di Roma, nella quale agl'Imperadori d'Oriente, dopo l'accordo fatto da Luitprando con Gregorio II, era rimaso ancor vestigio della loro superiorità, tenendovi tuttavia i loro Uficiali. Minacciava per tanto le terre del dominio della Chiesa, e Roma stessa, e rotti e violati i tanti trattati di pace stabiliti da' Re, e da' suoi predecessori co' romani Pontefici, mosse il suo esercito verso Roma, ed avendo presa Narni, mandò Legati al Pontefice con aspre ambasciate, dicendogli che avrebbe saccheggiata Roma, e fatti passare a fil di spada tutti i Romani, se non si fossero sottoposti al suo Imperio, con pagargli ogni anno per tributo uno scudo per uomo. A sì terribile ambasciata tutto commosso il Papa, tentò placarlo per una Legazione cospicua di due celebri Abati, che fiorivano in quel tempo; gli spedì l'Abate di monte Cassino, e l'altro di S. Vincenzo a Volturno, e gli accompagnò con molti e preziosi doni, incaricando loro, che proccurassero, e con ragioni e con preghiere, rammentandogli la pace poco prima firmata, di persuaderlo a non romperla, e voltare altrove le sue armi.

Aveva il Pontefice sin dal principio dell'irruzione di Astolfo sopra Ravenna, prevedendo questi mali, fatto inteso l'Imperador Costantino de' disegni de' Longobardi, e sollecitatolo a mandare all'Esarca validi soccorsi per impedirgli; ma Costantino volendo coprire la sua debolezza sotto il manto dell'autorità, dando a sentire che questa sola bastasse per rimovere i Longobardi da tale impresa, mandò, in vece di eserciti, un gentiluomo della sua Camera chiamato Giovanni Silenziario, con ordine al Papa di farlo accompagnare con sue lettere ad Astolfo per obbligarlo a rendere ciò, ch'egli aveva preso. Furono dal Papa spediti non sole lettere, ma Legati ancora ad accompagnar Giovanni; ma arrivati in Ravenna ove Astolfo dimorava, ed espostogli l'imbasciata di restituire ciò che egli s'avea preso, fu intesa da quel Principe con riso, e tosto ne furono rimandati senz'alcun frutto, come ben potevano immaginare; per la qual cosa s'incamminarono i Legati del Papa insieme con Giovanni a dirittura in Costantinopoli per supplicar di nuovo l'Imperadore in nome del Papa di venir egli stesso con poderosa armata in Italia per salvar Roma, e gli altri avanzi rimasi al suo Imperio in Italia, che i Longobardi tentavano tuttavia di rapirgli. Ma Costantino ch'era intrigato in altre guerre, e che non badava ad altro, che per un nuovo Concilio, che in quest'anno 753 avea fatto unire di 338 Vescovi ad abbattere le immagini, non era in istato d'intraprendere altre brighe co' Longobardi. Perciò vedendo Stefano che in vano si ricorreva a Copronimo, il quale non poteva nè meno difender se stesso da Longobardi, e ch'era molto lontano per protegger la sua Chiesa: e che all'incontro Astolfo, entrato coll'esercito nel Ducato romano, devastava tutto il paese; e minacciava stragi e servitù a' Romani, se non si rendevano a lui; si risolse finalmente ad esempio di Zaccaria e de' due Gregorj di ricorrere alla protezione della Francia, e d'implorare l'ajuto di Pipino. Mandò nascostamente un suo messo in Francia, per cui espose a Pipino le sue angustie, e ch'egli desiderava venir di persona in Francia, se gli mandasse Legati, per potersi quivi condurre con sicurtà. Pipino non mancò subito di mandargli due de' primi Uficiali della sua Corte, Rodigando Vescovo, ed il Duca Antonio per condurlo in Francia. Giunti il Vescovo ed il Duca in Roma, ritrovarono, che l'esercito de' Longobardi, dopo avere presi tutti i castelli ne' contorni di Roma, era in procinto d'investir quella città; e che ritornati i due Legati del Papa con l'Inviato dell'Imperadore da Costantinopoli, niente altro avevan riportato da costui, se non un secondo ordine al Papa d'andar egli in persona a ritrovar Astolfo per sollecitarlo a restituir Ravenna, e le altre città da lui occupate. Non vi era alcuna apparenza, che questa andata potesse riuscir di profitto, e pure il Pontefice volle ben ancora ubbidire, per far l'ultimo esperimento di poter piegar quel Principe; ma quando vide che al vento si gittava ogni opera, e che Astolfo, il quale gli aveva insieme proibito di parlargli d'alcuna restituzione, faceva tutti gli sforzi suoi per fermarlo, lasciossi finalmente condurre dagli Ambasciadori di Pipino in Francia.

§. II. Papa Stefano in Francia: suoi trattati col Re Pipino; e donazione di questo Principe fatta alla Chiesa romana di Pentapoli, e dell'Esarcato di Ravenna tolto a' Longobardi.

Giunto il Pontefice in Francia, fu accolto da Pipino con ogni segno di stima e di venerazione: l'adorò come Pontefice e padre della Cristianità, e gli rendè i maggiori onori che si potessero rendere a' più potenti Re della terra. Espose Stefano i suoi bisogni al Re, e l'angustie nelle quali i Longobardi l'avean ridotto, dimandogli il suo ajuto e protezione, offerendosi all'incontro d'impiegar tutta l'autorità della sede appostolica in suo vantaggio. Allora Pipino, affinchè si rendesse più venerando a' suoi sudditi, e per maggiormente stabilire il Regno di Francia nella sua persona e nella sua posterità, volle che Stefano colle sue mani lo consecrasse Re, ed insieme che i due suoi figliuoli Carlo e Carlomanno ricevessero parimente da lui l'unzione sacra, siccome seguì nella Chiesa di S. Dionigi. All'incontro Pipino, oltre ad assicurarlo, che avrebbe frenato l'ardire de' Longobardi, e fattigli restituire i luoghi occupati nel Ducato romano, gli promise ancora, ch'egli avrebbe scacciato Astolfo dall'Esarcato di Ravenna e da Pentapoli, e, tolti al Longobardo questi Stati, gli avrebbe non già restituiti all'Imperio greco, a cui s'appartenevano, ma donati a S. Pietro ed al suo Vicario. Stefano lodò la magnanima offerta, che si faceva con tanta profusione dell'altrui roba, esagerandola ancora come molto profittevole per la salute della sua anima; onde da Pipino ne fu stipulata e giurata la promessa della donazione, facendola firmare anche da' suol figliuoli Carlo e Carlomanno.

Questa promessa di futura donazione, nel caso fosse riuscito a Pipino di scacciare i Longobardi dall'Esarcato, e da Pentapoli, non abbracciava che questi Stati. Lione Ostiense confuse ciò che Anastasio Bibliotecario avea scritto della donazione fatta poi da Carlo M. a Papa Adriano, con questa promessa di Pipino a Papa Stefano. Anastasio narra, che Carlo M., confermò, e pose in effetto ciò che Pipino suo padre avea promesso, anzi che accrebbe la paterna donazione, e dice, che da Carlo con nuovo instromento furono donate a S. Pietro, ed al suo Vicario molte città e territorj d'Italia per designati confini, incominciando da Luni città della Toscana, posta ne' confini della Liguria, con l'isola di Corsica, e calando nel Sorano e nel monte Bordone abbracciava Vercetri, Parma, Reggio, Mantova e Monselice, ed insieme tutto l'Esarcato di Ravenna, siccome fu anticamente, colle province di Venezia e d'Istria; e tutto il Ducato spoletano e beneventano. Lione (come avvertì anche l'Abate della Noce) parlando nel capo 8 della donazione di Pipino, si serve di queste istesse parole d'Anastasio, che riguardano la donazione di Carlo suo figliuolo: e quando poi nel capo 12 tratta de' fatti di Carlo e di questa sua donazione, non numera, come Anastasio, i luoghi e le città; ma come se Carlo non avesse fatto altro, che solamente confermare quella di Pipino, col supposto che quella abbracciasse tutti que' luoghi da lui nel 8 capo descritti, dice che Carlo bono, ac libenti animo aliam donationis promissionem instar prioris describi praecepit. Ma che questa donazione di Pipino non abbracciasse altro che Pentapoli, e l'Esarcato di Ravenna, che dovean togliersi ad Astolfo, si conosce chiaro dall'esecuzione, che ne fu fatta dall'istesso Pipino, quando, come diremo, calato in Italia, e toltigli al Longobardo, ne fece dono alla sede appostolica, scrivendo l'istesso Lione, che Pipino simul cum praefato Romano Pontifice Italiam veniens, et Ravennam, et viginti alias Civitates supradicto Aistulfo abstulit, et sub jure Apostolicae Sedis

redegit.

Si convince ciò ancora dalla Cronaca del monastero di S. Clemente dell'isola di Pescara, che ora impressa leggiamo nel sesto tomo dell'Italia Sacra d'Ughello, dove narrandosi quest'istessi successi di Papa Stefano con Pipino, si legge che Pipino avendo scacciato Astolfo, e liberata Ravenna, la donò con venti altre città a S. Pietro. Quando poi questo Autore favella della donazione di Carlo, dice che questo Principe restituit Beato Petro, quae pater ejus dederat, et Desiderius abstulerat, ADDENS etiam Ducatum Spoletanum, et Beneventanum ec. Ma quanto sia vero ciò che Anastasio narra della donazione di Carlo M. volendo che abbracciasse la Corsica, il Ducato di Spoleto, il Beneventano, le Venezie, l'Istria, e tanti altri luoghi, non mai presi, nè posseduti da Carlo, lo vedremo più innanzi, quando di quella ci tornerà occasione di favellare.

Accordati che furono questi trattati tra Stefano e Pipino, questi, essendo il Papa rimaso in Francia presso di lui, immantinente interpose i più fervorosi uficj con Astolfo perchè restituisse i luoghi occupati, e gli replicò ben tre volte: ma nulla giovando nè preghiere ne' minacce, finalmente stimolato dal Papa, si risolvette di marciare con tutte le sue truppe in Italia contro di lui, e seguitato da Stefano, sforzando il passo delle Alpi, fugò l'esercito d'Astolfo, che se gli opponeva, e l'incalzò sino alle porte di Pavia, dove assediollo, costringendolo finalmente a dure condizioni, con obbligarlo, ricevuti innanzi gli ostaggi, a promettere di rendere le terre della Chiesa da lui occupate nel Ducato romano: gli tolse Ravenna con venti altre città, ed in quest'anno 754, la aggiunse al dominio di S. Pietro, e prestamente in Francia si restituì.

Ma non fu così tosto ritornato Pipino in Francia, che Astolfo, poco curandosi degli ostaggi, che aveva dati in mano di Pipino, che rompendo tutti i giuramenti da lui fatti, venne con tutte le forze del suo Regno a piantar l'assedio innanzi a Roma, dopo aver dato un terribil guasto ne' contorni. Allora Stefano vedendosi ridotto all'ultima estremità, ebbe ricorso al suo protettore nella maniera più forte e compassionevole che potesse mai farsi: gli scrisse quelle tre lettere, che ci restano ancora, le più veementi e le più sommesse, che si possano immaginare: e con esempio nuovo le scrisse sotto nome di S. Pietro a cui erasi fatta la donazione, indirizzandole al Re, a' di lui due figliuoli, ed a tutti gli Ordini della Francia, di questo tenore: Petrus vocatus Apostolus a Jesu Christo Dei, vivi filio, ec. Viris excellentissimis Pipino, Carolo, et Carolomanno tribus regibus ec. dove introducendo questo Appostolo a parlargli così: Ego Petrus Apostolus dum a Christo, Dei vivi filio, vocatus sum supernae clementiae arbitrio, ec. , si serve in quelle di tutti i più prestanti scongiuri da parte di Dio, perchè lo soccorra, che facendo altrimenti sarà alienato dal Regno di Dio, e fuori dalla vita eterna, movendo tutto ciò ch'è più atto a scuotere un cuore cristiano.

Men di questo sarebbe bastato per obbligar Pipino a ripigliar quanto prima le armi. Aveva già ragunate le sue truppe alla prima novella venutagli de' movimenti d'Astolfo; e con quelle incamminatosi di nuovo verso l'Italia, ruppe l'esercito d'Astolfo, che aveva voluto contrastare a' Franzesi il passaggio delle Alpi, ed avendogli minacciato l'estrema sua rovina, se durasse nell'impresa, obbligò Astolfo a levar l'assedio da Roma già tre mesi durato, e di buttarsi dentro Pavia col resto delle sue truppe.

Intanto Costantino Copronimo avvisato di questi trattati avuti sopra i suoi Stati fra Stefano e Pipino, e che Astolfo cedeva l'Esarcato di Ravenna a Pipino, per darlo al Papa; mandò tosto due Ambasciadori al Re Pipino perchè glielo restituisse, come appartenente all'Imperio: intesero questi a Marsiglia, dov'erano venuti da Roma con un Legato del Papa, di aver già Pipino passate l'Alpi, e sconfitto l'esercito de' Longobardi; perciò l'un de' due pigliando più velocemente innanzi il cammino, mentre l'altro tratteneva il Legato, si portò sollecitamente appresso il Re Pipino, che non era molto lontano da Pavia nel procinto d'assediarla.

Fu l'Ambasciadore tosto introdotto all'audienza del Re, nella quale dopo aver esaltato Pipino per le due vittorie da lui riportate sopra i Longobardi, nemici comuni dell'Imperio e della Francia, e commendate altamente le gloriose sue gesta, espose in nome del suo Principe l'ambasciata: esagerò, l'Esarcato essere senza alcun dubbio dell'Imperio, usurpatogli da Astolfo, il quale pigliava tutte l'occasioni d'ingrandirsi a' danni de' suoi vicini, mentre il suo Principe faceva la guerra a' Saraceni: che poichè il Re l'aveva ritolto dalle mani di questo usurpatore, era giusto che rimettesse anche nelle mani dell'Imperadore ciò che era suo: che finalmente il Papa era suo suddito, e che lasciandolo godere tranquillamente quanto gli era stato dato dagl'Imperadori, e da' privati per mantener la sua dignità, non sarebbe cosa giusta, ch'egli usurpasse ancora le terre del suo Sovrano: essere del resto Costantino, il quale in questo non dimandava altro, che la giustizia, prontissimo a praticarla anch'egli dal suo canto: e che poichè il Re aveva già fatte grandi spese in questa guerra, gli offeriva in rifacimento tutto quello, ch'egli avrebbe potuto desiderare da un Imperadore ugualmente liberale e riconoscente.

Pipino, a cui non giunse nuova questa imbasciata, e che aveva preveduto ciò che dovrebbe l'Ambasciadore dimandargli, umanamente gli rispose: appartenere l'Esarcato al vincitor de' Longobardi, i quali l'avevano Jure belli conquistato, come aveano fatto anche i loro predecessori d'una gran parte d'Italia sopra gli Imperadori greci: essere medesimamente cosa nota, che la maggior parte di que' Popoli, indotti sforzatamente a mutar religione, s'erano dati al Re Luitprando: che così presupponendo il diritto de' Longobardi, del quale non era luogo di dubitare più che di quello de' Franzesi, i quali avevano conquistate le Gallie sopra i Romani e Vestrogoti, era molto sicuro del suo proprio; poichè egli aveva costretto Astolfo per via delle armi a cedergli l'Esarcato, del quale andava a mettersi in possesso per la medesima via: che poi essendone padrone, n'avea potuto disporre a suo arbitrio e volontà. Ed aveva trovato espediente di darne il dominio al Papa, perchè in quello la sede cattolica violata per tante infami eresie de' Greci, si mantenesse intera; e l'ambizione ed avarizia de' Longobardi non l'occupasse; per le quali considerazioni egli aveva prese l'armi contra coloro, che opprimevan la Chiesa: che per tutti i tesori del Mondo non avrebbe mutata risoluzione, e che manterrebbe contra tutti il Papa e la Chiesa nel possesso di tutto ciò ch'egli aveva loro donato.

Rimandato per tanto senza voler sentir altra replica su l'ora l'Ambasciadore, andò a por l'assedio innanzi Pavia, e lo strinse così forte, che Astolfo ridotto a non poter più resistere, fu costretto a dimandargli la pace, la quale ottenne a condizione, che mettesse prontamente in esecuzione il trattato dell'anno precedente e restituisse le città dell'Esarcato, dell'Emilia oggi detta Romagna, e della Pentapoli, che diciamo Marca d'Ancona, nelle mani di Eulrado Abate di S. Dionigi, da Pipino destinato suo Commessario. Ciocchè fu eseguito prontamente; imperocchè destinati anche da Astolfo i Commessarj, Fulrado avendo fatto uscire dall'Esarcato, e dagli altri luoghi tutti i Longobardi e ricevuti gli ostaggi di tutte le città, andò a portarne le chiavi al Papa, ch'egli pose sopra il sepolcro de' Santi Appostoli colla donazione di Pipino instrumentata con tutte le solennità e forme necessarie, e ch'egli aveva fatta anche sottoscrivere da' due suoi figliuoli Carlo e Carlomanno, e da' primi Baroni e Prelati della Francia. L'Esarcato, se dee prestarsi fede al Sigonio, abbracciava le città di Ravenna, Bologna, Imola, Faenza, Forlimpopoli, Forlì, Cesena, Bobbio, Ferrara, Comacchio, Adria, Cervia, e Secchia. Tutte furono consignate al Papa, eccetto che Faenza e Ferrara.

Pentapoli, ovvero Marca d'Ancona, comprendeva Arimini, Pesaro, Conca, Fano, Sinigaglia, Ancona, Osimo, Umana, ora disfatta, Jesi, Fossombrone, Monfeltro, Urbino, il territorio Balnense, Cagli, Luceoli ed Eugubio con li castelli e territorj appartenenti alle medesime, come appare dal privilegio di Lodovico Pio, col quale vien confermata questa donazione di Pipino: della verità del quale si parlerà a suo luogo.

Il Pontefice ricco di tante città e dominj, all'Arcivescovo di Ravenna commise l'amministrazione dell'Esarcato; ond'è che alcuni scrissero, che gli Arcivescovi di quella città s'intitolavano anche Esarchi, non già come Arcivescovi, ma come Ufficiali del Papa, già Principe temporale. Ecco per dove i Papi hanno cominciato a divenir potenti Signori in Italia, congiungendo al Sacerdozio il Principato, e lo Scettro alle Chiavi. Perocchè la donazione di Costantino M., particolarmente intorno a ciò che riguarda Roma e l'Italia, per quel che si disse nel secondo libro di questa Istoria, e per ciò che i più dotti Istorici, Giureconsulti e Teologi tengono per indubitabile, fu grossamente finta da un solenne impostore del decimo secolo; o come Pietro di Marca, molto prima ne' tempi di Adriano e di Carlo Magno. Nè quantunque si volesse supponere per vera, ebbe ella alcun effetto: essendosi veduto che gl'Imperadori e gli altri Re stranieri, che a coloro succedettono, ne furono da quel tempo sempre padroni. Nè i Papi vi pretendevano altro, che quegli patrimonj, che vi possedevano per munificenza di alcun Principe o privato per la loro sussistenza donatigli, come si disse, e siccome appunto tengono oggi gli altri Ecclesiastici i loro negli altri Stati per tutta la Cristianità. Pipino veramente fu quegli, da poi che i Papi s'ebbero aperte sì opportune vie per rendersene meritevoli, che dalla bassezza d'una fortuna sì mediocre gli arricchì delle spoglie de' Re longobardi e degl'Imperadori greci, donando loro città e province: che se voglia il vero confessarsi, fu delle medesime liberalissimo, come sogliono essere tutti coloro, che niente del proprio, ma dell'altrui profondono. Queste spettavano in verità a Costantino Imperador d'Oriente; e se voglia dirsi giusta questa donazione, dovea esser fatta non da Pipino, ma da Costantino, di cui erano: onde perciò alcuni scrissero, che questa donazione fosse stata fatta sotto nome di Costantino; e quindi esser nata la favola della donazione di Costantino M. Da questo tempo cessarono i Pontefici nelle loro epistole e diplomi notare gli anni piissimorum Augustorum, come prima facevano. Assicurati che furono del patrocinio dei Franzesi, scossero ogni ubbidienza agl'Imperadori di Oriente, nè vollero esser riputati più loro sudditi: ma all'incontro questa grandezza de' Pontefici romani riuscì a Pipino tanto profittevole, che portò al suo figliuolo Carlo, che gli succedè, non pur il Regno d'Italia, discacciandone i Longobardi: ma l'Imperio d'Occidente, che il Papa volle far risorgere nella persona di Carlo, come nel seguente libro diremo.

I Franzesi, oltre a voler esser riputati autori della grandezza e del dominio temporale della sede appostolica, ciocchè non può loro contrastarsi, s'avanzano più, con dire, che di tutte queste città da Pipino alla Chiesa donate, ne avessero i Papi il solo dominio utile; siccome il Sigonio in più luoghi della sua istoria non potè negarlo; rimanendo la sovranità appresso Pipino e gli altri Re di Francia suoi successori; essendo cosa manifesta, essi dicono, che i discendenti di Pipino v'ebbero la sovrana autorità, la quale essi esercitavano in quasi tutta l'Italia. E non fu che lungo tempo da poi, che i Pontefici romani divennero Sovrani di quelle province, come ancora di Roma; non per la pretesa cessione, che l'Imperador Carlo il Calvo fece de' suoi diritti, ragioni e preminenze; ma per la decadenza dell'Imperio, da che fu limitato e racchiuso nella sola Alemagna, in quella maniera appunto, che tanti altri Principi d'Italia possedono al dì d'oggi legittimamente la sovranità, ch'essi si hanno acquistata sopra l'Occidente.

Pietro di Marca fa vedere come, e su quali fondamenti a poco a poco i Pontefici romani a lor trassero la sovranità sopra Roma: ciocchè non fu certamente in questi tempi. Egli dice, che ceduto che fu da Pipino l'Esarcato di Ravenna al romano Pontefice, per ragion del medesimo appartenevasi anche a lui la soprantendenza ed il governo di Roma, non altrimente che s'apparteneva all'Esarca di Ravenna, sotto il quale erano posti tutti i Ducati de' Greci e quello di Roma ancora: la sovranità s'apparteneva agl'Imperadori di Oriente, l'amministrazione agli Esarchi: quindi i romani Pontefici come Esarchi la pretesero. Ma creati Pipino e Carlo Magno Patrizj di Roma, importando 'l Patriziato l'aver cura di quella città, si videro insieme il Papa e 'l Patrizio prendere il governo di quella, siccome s'osservò nella persona di Papa Adriano e di Carlo Magno. Essendo poi morto Adriano, ed in suo luogo creato Lione III, questi lasciò a Carlo l'intera amministrazione, il quale da Patrizio innalzato alla dignità d'Imperadore, essendo con ciò passata anche a Carlo la sovranità di Roma, i Pontefici più non s'intrigarono nel governo di quella; insinochè, decadendo pian piano l'autorità degli Imperadori successori di Carlo in Italia, finalmente Carlo il Calvo non si fosse nell'anno 876 spogliato d'ogni sua ragione, cedendo alla sede appostolica la sovranità di Roma ed ogni suo diritto. Quindi è che Costantino Porfirogenito descrivendo i Temi di Europa, e lo Stato di quella del suo secolo intorno all'anno 914 dica, che Roma si teneva da' romani Pontefici jure dominii. Quindi cominciò il costume ne' diplomi di notarsi gli anni de' romani Pontefici, quando prima ciò era de' soli Principi ed Imperadori.

L'Abate Giovanni Vignoli ne' nostri ultimi tempi, cioè nell'anno 1709 ha dato in luce un libretto intitolato: Antiquiores Pontificum Romanorum denarii, ove contro a questa opinione, che tengono i Franzesi, si sforza dimostrare, che il Senato e Popolo romano, dopo avere scosso il giogo degl'Imperadori d'Oriente, si fosse sottoposto a' romani Pontefici, riconoscendogli come loro Sovrani, e che non pure il dominio utile ritennero di Roma, ma anche il supremo. Pretende ricavarlo dalle monete, che si trovano de' Pontefici, e quantunque ve ne fossero più antiche, nulladimanco riguardandosi solo quelle, che ancora si veggono, queste cominciano da Adriano I, e furono continuate a battere da Lione III e dagli altri suoi successori. Ed ancorchè alcune d'esse, come quelle di Lione III e d'altri romani Pontefici portassero anche il nome degl'Imperadori, come di Carlo M, di Lodovico, di Ottone e d'altri; tantochè per quest'istesso si diede occasione a Le-Blanc franzese di comporre un trattato col titolo di Dissertazione Istorica sopra alcune monete di Carlo M, di Lodovico Pio e di Lotario, e de' loro successori battute in Roma; con le quali vien confutata l'opinione di coloro, che pretendono, che questi Principi non abbiano mai avuta in Roma alcuna autorità, se non col consentimento de' Papi; contuttociò il detto Abate Vignoli si studia dimostrare, che molte monete de' Papi non ebbero il nome degl'Imperadori, come una di Giovanni VIII la quale è solamente segnata del nome di questo Pontefice. Che che ne sia, l'opera di Le-Blanc fa vedere quanto poco sicura sia l'opinione del Vignoli, e molto più fondata quella de' Franzesi.

§. III. Leggi d' Astolfo, e sua morte.

Astolfo intanto, ancorchè da sì strane scosse sbattuto, non restava però di volger i pensieri alla conservazione del suo Regno: egli non aveva mancato per nuove leggi riordinarlo, aggiungendone altre a quelle de' suoi predecessori, e variandole ancora secondochè stimava più utile ed opportuno a' suoi tempi; avendo per tanto in Pavia nel quinto anno del suo Regno convocati da varie parti i principali Signori e Magistrati del suo Regno, seguendo gli esempj de' suoi predecessori, promulgò un editto nel quale molte leggi stabilì. Pure abbiamo quest'editto d'Astolfo nel Codice Cavense per intero, che contiene ventidue capitoli: il primo comincia: Donationes illac, quae factae sunt a Rachis Rege, et Tassia conjuge. L'ultimo ha per titolo: Si quis in servitium cujuscumque pro bona voluntate introierit. Alcune di queste leggi, il Compilatore del volume delle leggi longobarde le inserì in que' libri: tre se ne leggono nel primo libro: una sotto il tit. de Scandalis: l'altra sotto il tit. de Exercitalibus; ed un'altra sotto quello de Jure mulierum: quindici nel lib. 2, una sotto il tit. 4, un'altra sotto quello de Successionibus, altra sotto il tit. de ultimis volunt.. un'altra sotto il tit. 20, due sotto il tit. de Manumissionibus, due altre sotto quello de Praescriptionibus, e sette sotto il tit. Qualiter quis se defendere deb. E nel lib. 3 ancor se ne legge una sotto il tit. 10 ch'è l'ultima de' Re longobardi; poichè Desiderio suo successore, e nel quale s'estinse il Regno, passando ne' Franzesi, applicato a cure più travagliose, non potè d'altre leggi fornir questo Regno, che infelicemente ebbe a lasciare.

Ma mentre questo Principe dopo aver per dura necessità restituito l'Esarcato e tante altre città, è tutto intento a meditar nuovi disegni per vendicarsi della oppressione de' Franzesi, e di riordinar nuovamente la guerra, essendosi un giorno portato alla caccia, spinto da un cignale, ovvero, com'altri rapportano, casualmente sbalzato da cavallo, o come dice Erchemperto, percosso da una saetta, il caso fu per lui cotanto fatale, che in pochi giorni rendè lo spirito, lasciando in quest'anno 756 il Regno pieno di calamità e di sospetti, non avendo di se lasciata prole alcuna.

Share on Twitter Share on Facebook