CAPITOLO V.

Leggi de' Longobardi ritenute in Italia, ancorchè da quella ne fossero stati scacciati: loro giustizia e saviezza.

Le leggi de' Longobardi, se vorranno conferirsi colle leggi Romane, il paragone certamente sarà indegno, ma se vorremo pareggiarle con quelle dell'altre Nazioni, che dopo lo scadimento dell'Imperio signoreggiarono in Europa, sopra l'altre tutte si renderanno ragguardevoli, così se si considera la prudenza e i modi, che usavano in istabilirle, come la loro utilità e giustizia, e finalmente il giudicio de' più gravi e saggi Scrittori, che le commendarono. Il modo che tennero e la somma prudenza e maturità, che praticarono i Re quando volevan stabilirle, merita ogni lode e commendazione. Essi, come s'è veduto, convocavano prima in Pavia gli Ordini del Regno, cioè i Nobili e Magistrati; poichè l'ordine Ecclesiastico non era da essi conosciuto, nè avea luogo nelle pubbliche deliberazioni, e nè meno la plebe, la quale, come disse Cesare parlando de' Galli, nulli adhibebatur consilio: si esaminava quivi con maturità e discussione ciò che pareva più giusto ed utile da stabilire: e quello stabilito, era poi pubblicato da' loro Re negli editti. Maniera, secondo il sentimento di Ugon Grozio, forse migliore di quella, che tennero gl'Imperadori stessi romani, le cui leggi, dipendendo dalla sola volontà loro, soggetta a varj inganni e soggestioni, cagionarono tant'incostanza e variazioni, che del solo Giustiniano vediamo d'una stessa cosa aver tre, e quattro volte mutato e variato parere e sentenza. Presso a' Longobardi prima di pubblicarsi le leggi per mezzo de' loro editti, erano dagli Ordini del Regno ben esaminate e discusse; onde ne seguivano più comodi. Il primo, che non v'era timore di potersi stabilire cosa nociva al ben pubblico, quando v'erano tanti occhi e tanti savj, a' quali non poteva esser nascosto il danno, che n'avesse potuto nascere. Il secondo, ch'era da tutti con pronto animo osservato ciò che piacque al comun consentimento di stabilire. E per ultimo, che non così facilmente eran soggette a variarsi, se non quando una causa urgentissima il ricercasse: come abbiam veduto essersi fatto da que' Re, che dopo Rotari successero, i quali se non facto periculo, e dopo lunga esperienza conoscendo alcune leggi de' loro predecessori alquanto dure ed aspre, e non ben conformarsi a' loro tempi, renduti più docili e culti, le variavano e mutavano col consiglio degli Ordini. Il qual sì prudente e saggio costume lodò anche e commendò presso a' Sueoni, popoli del Settentrione, quella prudente e saggia donna Brigida, a cui oggi rendiamo noi gli onori, che non si danno se non a' Santi.

Se si voglia poi riguardare la loro giustizia ed utilità, e prima di quelle leggi accomodate agli affari e negozj de' privati, ed alla loro sicurità e custodia, come sono i matrimonj, le tutele, i contratti, le alienazioni, i testamenti, le successioni ab intestato, la sicurezza del possesso, non potremo riputarle se non tutte utili e prudenti.

Per li matrimonj molte provide leggi s'ammirano nel libro secondo di quel volume. L'ingenuo non s'accoppiava con la libertina, nè il nobile coll'ignobile; quindi essendo i Re collocati sopra la condizione di tutti; quelli morti, le loro vedove non si collocavan poi con altri, se non eran di regal dignità decorati. Ma Giustiniano prese Teodora dalla scena con gran vituperio del Principato. Quelli che non eran nati da giuste nozze, non si creavano Cavalieri: non eran ammessi al Magistrato, anzi nè meno a render testimonianza. Le profuse donazioni tra' mariti e mogli eran vietate: prudentissima fu perciò la legge di Luitprando, colla quale fu posto freno al dono mattutino, che solevan i mariti fare alle mogli il mattino dopo la prima notte del loro congiungimento, che i Longobardi chiamavano morgongap ; solevan sovente i mariti d'amor caldi, allettati da' vezzi delle novelle spose, donar tutto: Luitprando proibì tanta profusione, e stabilì che non potessero eccedere la quarta parte delle loro sostanze. E per gli esempj che rapporta Ducange, si vede che per tutto l'undecimo secolo fu la legge osservata. Ed è veramente nuovo e singolare ciocchè l'Abate Fontanini nel suo libro contra il P. Germonio rapporta di alcuni atti, che pubblicò d'una notizia privata dell'anno 1162, nella quale si legge, che un tal Folco da Cividale del Friuli dona a Gerlint sua moglie tutto il suo, omnia sua propter pretium in mane quando surrexit de lecto. Gli adulterj erano severamente puniti; le nozze fra' congionti, secondo il prescritto, non men delle leggi civili, che de' canoni erano vietate; e Luitprando istesso rende a noi testimonianza, che fu mosso a vietarle anche con sue leggi: Quia, com'e' dice, Deo teste, Papa Urbis Romae, qui in omni Mundo caput Ecclesiarum Dei, et Sacerdotum est, per suam epistolam nos adhortatus est, ut tale conjugium fieri nullatenus permitteremus.

Alcuni s'offendono, che in questo secondo libro delle leggi de' Longobardi si legga permesso il concubinato, vietandosi solamente, che in un istesso tempo si possa tener moglie e concubina, non altrimente, che due mogli, essendo anche presso a' Longobardi vietata ogni poligamia. Ma tralasciando che quella legge fu di Lotario, non già d'alcuno de' Re longobardi; questa maraviglia nasce dal non sapere che presso ai Romani il concubinato fu una congiunzione legittima, non pur tollerata, ma permessa, ed era perciò detto semimatrimonium, e la concubina era chiamata perciò semiconjux , e lecitamente l'uomo poteva avere per sua compagna o la moglie o la concubina, non però in un medesimo tempo e moglie e concubina insieme, perchè questa era riputata poligamia, non altrimente se tenesse due mogli. Questo istituto fu continuato anche dappoichè per Costantino Magno l'Imperio abbracciò la nostra religione, il quale ancorchè ponesse freno al concubinato, non però lo tolse; ed appresso i Cristiani di più Nazioni d'Europa, per molti secoli fu ritenuto; di che fra gli altri ce ne rende certi un Concilio di Toledo, ove fu parimente stabilito, che l'uomo sia Laico, sia Cherico d'una sola debba contentarsi o di moglie o di concubina, non già che possa ritenere in uno stesso tempo tutte due. Ma vietatosi poi nella Chiesa latina a' Preti affatto di aver moglie, ed in conseguenza di tener anche concubine, poichè gli Ecclesiastici per la loro incontinenza non potevan vivere soli, si ritennero le concubine: fu per isradicar questo costume in varj Concilj severamente proibito loro di tenerle: non ebbero queste proibizioni gran successo, e furon di poco profitto: rada era l'osservanza; ed i Preti non potevano a patto alcuno distaccarsene: furono perciò replicati i divieti: non vi era Concilio che si convocasse, che con severe minacce non inculcasse sempre il medesimo, detestandosi il concubinato, e predicandosi peggior dell'adulterio, dell'incesto, e più grave d'ogni altro vizio. Quindi nelle seguenti età il nome del concubinato, che prima era riputato una congiunzion legittima, fu renduto odioso ed orrendo in quella maniera, ch'oggi si sente. Nel Regno d'Italia non pur presso a' Longobardi, ma anche quando passò sotto la dominazione de' Franzesi, durava ancora l'istituto de' Romani. Appresso alcune altre Nazioni d'Europa era anche il concubinato riputato legittimo, e Cujacio testimonia, che anche a' suoi tempi era ritenuto dai Guasconi, e da altri popoli presso i Pirenei. In Oriente per le Novelle di Basilio Macedone, e di Lione, fu il concubinato proibito; ma quelle non ebbero alcun vigore nelle province d'Europa, come quelle ch'erano state sottratte dall'Imperio, ed ubbidivano a' loro Principi independentemente dagl'Imperadori d'Oriente: ciocchè meriterebbe un discorso a parte, ma tanto basterà per ciò, che riguarda il nostro istituto.

Intorno alle tutele, furon dati savj provvedimenti: eran i pupilli raccomandati ugualmente agli agnati, che a' cognati: ma de' pupilli nobili il principal tutore era il Re. Quindi appresso noi nacque l'istituto di darsi dal Re il Balio a' Baroni, e prendersi da lui le lettere del Baliato. Davano ancora alle donne per la loro imbecillità un perpetuo tutore, ch'essi chiamavano Mundualdo, il quale s'assomigliava in gran parte al tutore cessizio de' Romani antichi, sotto la cui autorità eran sempre le donne di qualunque età fossero, ed ancorchè a nozze passassero: ond'è che ancor oggi in alcuni luoghi del nostro Regno sia rimaso di loro alcun vestigio.

Ne' contratti, l'equità e la giustizia fu unicamente ricercata: i contratti de' maggiori, diffinendo la maggior età nell'anno decim'ottavo, eran ben fermi, nè alle restituzioni soggetti. I creditori, ed i compratori erano sicuri di non esser fraudati e delusi per le tacite ipoteche, e per gli occulti fedecommessi; imperocchè si facevan passare tutti i contratti, le vendite, i pegni, i testamenti stessi sotto gli occhi, ed avanti i Magistrati, ed al cospetto del Popolo. L'ordine di succedere ab intestato era semplicissimo: colui ch'era più prossimo in grado, era l'istesso che l'erede, eccetto solamente che i figliuoli, e' lor descendenti erano preferiti a' genitori.

I giudicj, che appresso i Romani eran tratti in immenso con grave dispendio delle proprie sostanze, e cruccio dell'animo, appo i Longobardi eran brevi e meno travagliosi. La temerità de' litiganti era frenata da' pegni, e dalle pieggiarie. A' Giudici niente era più facile e spedito: nelle quistioni di fatto portava l'attore i suoi testimoni, ed il reo i suoi, e colui guadagnava, che dal suo canto avea di lor maggior numero ed autorità. Nelle cose dubbie ed ambigue si ricorreva alla religione de' giuramenti; questo si dava al reo, ma con molto riguardo, cioè se produceva testimonj di provata fama, che deponessero ed attestassero della di lui probità e religione, e che essi volentieri crederebbero al suo giuramento. Rade eran le quistioni di legge, e se pur accadevano, non dagli infiniti volumi degl'Interpetri, ma da' semplici e piani detti delle lor leggi, dal giusto e dal ragionevole prestamente eran decise. Pronto era il remedio nelle perturbazioni di possesso, e subita la restituzione, andando il Giudice co' testimonj in sul luogo a conoscer dello spoglio, e ad immantenente ripararlo.

Nella cognizion criminale de' delitti erano due cose saggiamente osservate. La violazione della ragione e società pubblica, e di quella del privato. Per questo due multe furono introdotte: coll'una si riparava al danno del privato, che chiamarono Vedrigeldium, cioè quel che si dava per lo taglione; coll'altra si riparava alla pubblica pace, che dissero per ciò Fedra, e si dava al Re, o al comune di qualche città. Commenda Ugone Grozio questo lor istituto di non spargere il sangue de' Cittadini per leggieri cagioni, ma solo per gravissime e capitali. Ne' minori delitti bastava, che per danaro si componessero, ovvero che il colpevole passasse nella servitù dell'offeso, in cui s'era peccato.

I beni de' condannati erano salvi a' loro figliuoli, nè stavano soggetti a confiscazioni. Nelle cause criminali non ammettevano appellazioni, nè questo portò a Grozio alcuna maraviglia, come non debbono altri averla; poichè i Pari della Curia con somma religione e clemenza de' lor pari giudicavano. Quindi presso di noi nacque l'istituto, che le cause capitali de' Baroni non potessero decidersi senza quelli, che diciamo Pares Curiae.

I riti e le solennità ch'essi usavano nelle manumissioni, e nell'adozioni eran conformi a' lor costumi feroci e guerrieri. Le manumissioni come c'insegna Paolo Varnefrido si facevano per sagittam, le adozioni per arma, siccome le alienazioni per glebae festucaeve conjectionem in sinum emptoris.

Dispiacque a molti quell'antica consuetudine dei Longobardi, che in alcune cause dubbie ed ambigue e ne' gravi delitti se ne commettesse la decisione alla singular pugna di due, che chiamiamo duello. Fu veramente il duello antica usanza de' Longobardi, che poi passata in legge, fu per molto tempo praticata non pur da loro, ma da molte altre Nazioni, le quali da' Longobardi l'appresero. In fatti l'istorie loro sono piene di questi duelli; e memorando fu quello di Adalulfo, che di adulterio aveva tentata la Regina Gundeberta, ed avutane ripulsa, per vendicarsene, ricorse al Re Arioaldo suo primo marito, al quale accusandola falsamente, che insieme con Dato Duca della Toscana gl'insidiasse la vita ed il Regno, fece imprigionare quella infelice Principessa. Di che offeso Clotario Re di Francia, dal cui sangue discendeva, mandò Legati ad Arioaldo con gagliarde richieste di dover tosto liberarla; al che avendo il Re risposto, ch'egli aveva cagioni giustissime di tenerla prigione, e negando i Legati ciò che s'imputava alla Regina, affermando che mentivano gli Autori di tal impostura; finalmente Ansoaldo uno di essi richiese al Re, che per duello il dubbio dovesse terminarsi. Vennero alla pugna Cariberto per la Regina, e l'impostore Adalulfo pel Re, nella quale restando l'ultimo vinto, fu la Regina liberata, e restituita al suo antico onore. Questo genere di purgazione fu cotanto commendato presso a tutte le Nazioni, che Cujacio dice, che anche fra' Cristiani, così nelle cause civili, come nelle accusazioni criminali fu il duello lungamente praticato, ed i nostri Franzesi Normanni, finchè tennero questo Regno, sovente l'usarono. Era ben da' Re longobardi istessi riputato un esperimento fiero ed irragionevole; ma assuefatti que' Popoli lungamente a tal usanza, e reputando minor male per placar l'ira e lo sdegno di quegli animi feroci, commetter l'affare al periglio di pochi, che di vedere ardere di discordie civili le intere famiglie, loro non parve grave, se non necessario il ritenerlo. Luitprando Principe prudentissimo ben lo conobbe, ma ad esempio di Solone, che dimandato se egli avesse date le migliori leggi che aveva saputo agli Ateniesi, rispose le migliori, che potevan confarsi ai loro costumi, così egli in una sua legge altamente dichiarò questi suoi sensi, dicendo che ben egli era incerto del giudicio di Dio, e molti sapeva che per duello senza giusta causa restavan perditori, ma soggiunse: Sed propter consuetudinem gentis nostrae Longobardorum legem impiam vetare non possumus . La religione cristiana tolse poi questa usanza, ma non si veggono tolte le radici, onde con tanta facilità cotali effetti germogliano: ella è nata per isradicarle interamente, ma noi medesimi siamo quelli, che le facciamo contrasto, e frapponghiamo impedimenti. La tolsero poi gli altri Principi, e presso a noi l'Imperadore Federico II, e più severamente gli altri Re suoi successori.

Dispiacque ancora quell'altro genere di prova del ferro rovente, dell'acqua fervente, ovvero ghiacciata; ma di ciò non debbono imputarsi i soli Longobardi, ma tutte l'altre Nazioni d'Europa, e più i Cristiani nostri, i quali lungamente lo ritennero e l'abbracciarono più tenacemente; imperocchè credettero derivare il costume da Mosè istesso, il quale comandò che si dasse alle donne imputate di stupro certa pozione per conoscere il loro fallo, o l'innocenza. Non fu dunque maraviglia se i Longobardi, portando la cosa più avanti, ne stabilissero anche sopra ciò delle leggi, per le quali comandarono che per determinare le liti, si servissero anche de' vomeri infocati, ovvero dell'acqua fredda, o bollente. S'aggiunse, perchè l'error durasse e tal costume si ritenesse, la credulità e stupidezza degli uomini, i quali eran così persuasi e certi di questa pruova, che sovente diedero facile e sicura credenza a ciò che gli Storici o altri, che se ne spacciavan testimonj, ne favoleggiavano, e per cosa certa gliele descrivevano. Nè mancarono di raccontar fatti veramente strani e maravigliosi, non perchè essi veri fossero in realtà, ma prodotti da una fantasia sì fortemente accesa, che faceva lor vedere uomini posti dentro il fuoco non ardere, e buttati dentro i fiumi non sommergersi. Celebre appresso gl'Istorici è quel fatto accaduto ne' tempi d'Ottone a quella innocente Contessa, che accusata falsamente dall'Imperadrice sua moglie, se ne purgò con un ferro rovente, da cui non fu tocca.

(I più accurati Scrittori riputano favolosi tutti questi racconti dell'Imperatrice moglie d'Ottone, e della pruova del ferro rovente. Intorno a che son da vedersi coloro, che vengono rapportati da Struvio in Syntag. Hist. Germ. in Ottone, pag. 371).

Ma assai più celebre e memorabile è quell'altro ai tempi d'Alessandro II, accaduto in Firenze, di Pietro Aldobrandino, che uscì al cospetto di tutto il Popolo immune e salvo dalle fiamme, onde acquistonne il nome di Pietro Igneo. Non senza ragione adunque Federico Imperadore tra le sue leggi militari stabilì ancora, che questa pruova si praticasse nelle cause dubbie, come Radevico e Cujacio testificano. Ma conosciutasi da poi, seriamente pensandovi, la sua incertezza, e che molti innocenti ne riportavano pena maggiore di quella, che anche legittimamente convinti per rei non avrebbero potuto temere, e che all'incontro ne uscivan liberi i colpevoli; e che con troppo ardimento si pretendesse tentar i giudicj divini, fu da' romani Pontefici proibito. E Cujacio rapporta, che questo costume nella Lombardia cominciò prima di tutti gli altri paesi a mancare, e ad andare in disusanza. Presso a noi andò parimente in obblivione, ed ancorchè i Baresi lungamente ritenessero l'usanze de' Longobardi onde il libro delle loro Consuetudini fu compilato; pur confessano, che sin da' tempi del Re Rugiero era già tal costume affatto mancato: Ferri igniti, aquae ferventis, vel frigidae, aut quodlibet judicium, quod vulgo paribole nuncupatur, a nostris civibus penitus exulavit .

Parve anche a molti fiero e crudele quel costume di render cattivi i Cristiani, e riceverne per la libertà riscatti, come s'è veduto che fecero co' Crotonesi, e con altre genti delle città, ch'erano in poter de' Greci loro nemici: del che altamente si querelava S. Gregorio M. Ma questo costume, siccome fu narrato nel precedente libro, era allora indifferentemente da tutti praticato: nè mancano Scrittori che lo difendono per giusto.

Per queste cagioni leggiamo noi ne' più gravi Autori cotanto commendarsi sopra tutte le straniere Nazioni la longobarda per gente savia e prudente, e che meglio di tutte le altre avesse saputo stabilire le leggi, con tanta perizia ed avvedimento dettate. Niente dico di Grozio che perciò tante lodi l'attribuisce, niente di Paolo Varnefrido. Guntero Secretario che fu di Federico I Imperadore, e famoso Poeta di que' tempi, così nel suo Ligurino cantò de' Longobardi.

/* Gens astuta, sagax, prudens, industria, solers, Provida consilio, legum, Jurisque perita. */

Nè lo stile, con cui furono quelle leggi scritte, è cotanto insulso ed incolto come pur troppo lo riputarono i nostri Scrittori: ben furono elle giudicate dall'incomparabile Grozio degno soggetto delle sue fatiche e de' suoi elevatissimi talenti: aveva ben egli apparecchiato loro un giusto commentario, siccome dell'altre leggi dell'altre Nazioni settentrionali, così ancora di queste de' Longobardi. Ma pur troppo presto tolto a noi da immatura morte, non potè perfezionarlo. È bensì a noi di lui rimaso un Sillabo di tutti i nomi e verbi, ed altri vocaboli de' Longobardi, per cui si scuoprono i molti abbagli presi da' nostri Scrittori, che vollero interpretarle; e Giacomo Cujacio ne' suoi libri de' Feudi, i quali in gran parte da queste leggi dipendono, sovente ne mostra molte voci delle medesime reputate dalla comune schiera per barbare ed incolte, ed a cui diedero altro senso, essere o greche, o latine, o dipendere con perfetta analogia da queste lingue: così quella voce arga, che s'incontra spesso in queste leggi, riputata barbara, e che i nostri vogliono che significhi cornuto, come fra gli altri espose Maxilla nelle Consuetudini di Bari che da queste leggi in gran parte derivano, presso a Paolo Varnefrido non significa altro che inerte, scimunito, stupido, ed inutile, e la voce deriva dal Greco argòs, che appo i Greci significa lo stesso, come dice Cujacio, e lo conferma coll'autorità di Didimo. E ciò che sovente occorre in questi libri astalium facere, non vuol dir altro che ingannare, e mancare al Principe o al Commilitone del suo ajuto e soccorso, mentre nella pugna ne tiene il maggior bisogno, ed è in periglio di vita. Così ancora farsi una cosa asto animo, come sovente leggiamo in queste leggi, da voce latinissima deriva ch'è il medesimo, che d'animo vafro ed ingannevole: Plauto in Poenulo.

Mea soror ita stupida est sine animo asto.

Ed Accio appresso Nonio:

Nisi ut asta ingenium lingua laudem.

Parimente quell'altra voce Strige, che in queste leggi s'incontra, e che presso a Festo è l'istesso, che malefica, si ritrova ancora in Plauto in Pseudolo

Strigibus vivis convivis intestinaque exedunt.

che i Longobardi con voce propria della Nazione chiamarono anche Masca, ed oggi noi chiamiamo Maga o Strega.

L'uso del talenone dichiarato da Festo, Vegezio, ed Isidoro, viene anche nettamente spiegato da queste leggi. Il talenone, come anche spiega la legge, non era altro, che una trave librata sopra una forca di legno, per la quale si tirava con secchi l'acqua dai pozzi.

Il chiamare le donne non casate vergini in capillo non altronde deriva, che dall'istituto de' Romani, i quali distinguevan le vergini da quelle, che avean contratte nozze, perchè queste velavano il lor capo, ed all'incontro le vergini andavan scoverte, e mostravano i loro capelli.

Galeno credette che i cavalli, e, toltone i cani, ogni sorta di quadrupedi non potessero esser mai rabbiosi. All'incontro Absirto, e Hierocle Mulomedici, e Porfirio ancora contra il sentimento di Galeno scrissero, che potevan ancora quelli esser rabbiosi. I Longobardi in queste loro leggi ricevettero l'opinione di costoro, e rifiutarono come falsa quella di Galeno. Molt'altri consimili vestigi di loro erudizione si scorgono in quelle, e molte altre voci di questo genere, che ad altri sembrano barbare, quando traggon la loro origine dalla greca o latina lingua, e sono sparse in questi libri, che non accade qui tesser di loro più lungo catalogo: ciascuno per se potrà avvertirle, e potrà anche osservarle nel Sillabo, che ne fece Grozio del quale poc'anzi si fece da noi memoria.

I. Leggi longobarde lungamente ritenute nel Ducato beneventano, e poi disseminate in tutte le nostre province, ond'ora si compone il Regno.

L'eminenza di queste leggi sopra tutte le altre delle Nazioni straniere, e la loro giustizia e sapienza potrà comprendersi ancora dal vedere, che discacciati che furono i Longobardi dal Regno d'Italia, e succeduti in quello i Franzesi, Carlo Re di Francia e d'Italia lasciolle intatte; anzi non pur le confermò, ma volle al corpo delle medesime aggiungerne altre proprie, che come leggi pure longobarde volle, che fossero in Lombardia, e nel resto d'Italia che a lui ubbidiva, osservate.

Egli ne aggiunse molte altre agli editti de' Re longobardi suoi predecessori, che stabilì non come Imperadore o Re di Francia, ma come Re d'Italia, ovvero de' Longobardi. E siccome la legge longobarda non ebbe vigore presso a' Franzesi, così ancora la legge salica o francica non fu da Carlo, nè da' suoi successori introdotta in Italia; onde si vede l'error del Sigonio, il quale tre leggi vuole, che nell'Imperio de' Franzesi fiorissero in Italia, la romana, la longobarda e la salica. Se non se forse volesse intendere, che appo i soli Franzesi, che vennero con Carlo in Italia, quella avesse forza e vigore. Pipino suo figliuolo e successore nel Regno d'Italia, e gli altri Re ed Imperadori che gli succederono, come Lodovico, Lotario, Ottone, Corrado, Errico e Guido, non pur le mantennero intatte ed in vigore, ma altre leggi proprie v'aggiunsero; e quindi nacque che l'antico Compilatore di queste leggi raccolse in tre libri non pur le leggi di que' cinque Re longobardi, ma anche quelle di Carlo M. e degli altri suoi successori insino a Corrado, che come Signori d'Italia le stabilirono, le quali tutte leggi longobarde furon dette.

Ma presso di noi per altre più rilevanti cagioni furono mantenute, e lungamente osservate. Nel Ducato beneventano, che abbracciava la maggior parte di queste nostre province, che ora compongono il Regno, sotto i Re longobardi loro autori, furono con somma venerazione ubbidite. Questo Ducato ch'era ancor parte del Regno loro, si reggeva colle medesime leggi. I Re avevano la sovranità di quello, ed i Duchi che lo governavano erano a loro subordinati, e Desiderio ultimo Re vi avea creato, come s'è detto, Duca Arechi suo genero. Ma mancati in Italia i Re longobardi, non per questo mancarono nel Ducato beneventano i Duchi; anzi Arechi, come diremo nel seguente libro, toltasi ogni soggezione de' Franzesi, lo resse con assoluto ed independente Imperio. Volle di regali insegne ornarsi con scettro, corona e clamide, e farsi ungere, ed elevare in Principe sovrano, lo mantenne perciò esente da qualunque altra dominazione; onde maggior piede e forza presero in questo Ducato le leggi longobarde, le quali poi si ritennero costantemente da tutti i Principi beneventani successori. E diviso da poi il Principato, e moltiplicato in tre, cioè nel beneventano, salernitano e capuano, che abbracciavano quasi tutto il Regno, maggiormente si diffusero le leggi longobarde. Il Ducato napoletano, e le altre città della Calabria e de' Bruzj, Gaeta, ed alcune altre città marittime, che anche da poi durarono per qualche tempo sotto la dominazione de' Greci, ricevettero più tardi queste leggi. Questi luoghi, come soggetti agl'Imperadori d'Oriente, si governavano colle leggi loro; e quali queste si fossero, sarà esaminato nel settimo libro, ove delle loro Novelle, e delle tante loro compilazioni faremo parola. Ma discacciati che ne furono i Greci da' Normanni, e ridotte tutte queste province sotto il dominio d'un solo, i Normanni ai Longobardi succeduti, ritennero le loro leggi, e le diffusero per tutto, anche nelle città, che essi tolsero a' Greci, come vedremo ne' seguenti libri; onde avvenne che dall'essere state queste leggi mantenute in Italia sotto altri Principi, che non erano longobardi, lungamente quelle durassero, e mettessero più profonde radici in queste nostre province. Quindi avvenne ancora che sebbene si lasciassero intatte le leggi romane, e che ciascuno potesse vivere sotto quella legge o romana o longobarda ch'e' si eleggesse; nulladimeno per più secoli la fortuna delle longobarde fu tanta, che bisognò, che le romane cedessero. Poichè essendo in Italia, e nelle nostre province introdotti in più numero i Feudi, e per conseguenza più Baroni, i quali non con altre leggi vivevano, che con quelle de' Longobardi, si fece che tutti i Nobili, al loro esempio, vivessero colle medesime leggi; onde toltone gli Ecclesiastici, i quali anche per esecuzione dell'editto di Lodovico Pio, viveano (di qualunque Nazione si fossero) colle sole leggi de' Romani, queste appo gli altri, come per tradizione, e come per antico costume ebbero uso e vigore: ed essendosi per l'ignoranza del secolo trascurati tutti i Codici, ove eran registrate, si rimasero presso alla gente vulgare ed ignobile, la quale così nelle leggi, come nell'usanze è l'ultima a deporre gli antichi istituti de' loro maggiori, come più minutamente vedremo ne' seguenti libri.

E quindi parimente nacque, che nel nostro Regno a riguardo delle nuove costituzioni, che s'introdussero da poi da altri Principi normanni, suevi e franzesi, la legge longobarda fu detta Jus commune, siccome quella de' Romani; ma con questa differenza, che il Jus comune de' Longobardi era il dominante, ed in più vigore, quello de' Romani di minor autorità ed al quale ricorrevasi quando mancassero le longobarde: e ciò nemmeno sempre ed indistintamente. Per questa cagione avvenne ancora, che la legge longobarda fosse allegata ne' Tribunali, commendata da tutti e riputata fonte ancora dell'altre leggi, che si andavano da' nuovi Principi stabilendo. Così veggiamo che i Pontefici romani spesso ne' loro decreti se ne valsero, e l'approvarono. La legge feudale, che oggi appresso tutte le Nazioni d'Europa è una delle parti più nobili del Jus commune, non altronde, che dalle leggi longobarde ricevè il sostegno, e sopra le quali è fondata, come non solo fra' nostri scrissero Andrea d'Isernia, ed il Vescovo Liparulo, ma l'avvertì ancora l'incomparabile Ugon Grozio.

Le costituzioni stesse di Federico II, del nostro Regno, quasi tutte dalle leggi de' Longobardi procedono, come, oltre a' nostri, scrisse anche Grozio, ed è per se medesimo palese. Le consuetudini di Bari dalle leggi longobarde derivano, come diremo, quando della compilazione di quel volume ci tornerà occasione di favellare.

Ma ciocchè non dee tralasciarsi, e che maggiormente fa conoscere l'autorità loro, ed il credito, col quale lungamente si mantennero in queste nostre province, egli è il vedere, che restituita già la giurisprudenza romana nell'Accademie d'Italia ne' tempi di Lotario II, dopo l'avventuroso ritrovamento delle Pandette di Amalfi, e posto ancor piede nella nostra Accademia a' tempi dell'Imperador Federico II, non per questo mancò l'uso e l'autorità delle medesime. Anzi i nostri Scrittori allora più che mai posero la maggior cura e studio in commentarle; non altrimente che fecero Gregorio ed Ermogeniano, i quali allora compilarono i loro Codici, per li quali proccurarono che l'antica romana giurisprudenza non si perdesse, quando videro che Costantino M, colle nuove leggi tirava a distruggere l'antiche de' Romani gentili. Così veggiamo che le fatiche postevi da Carlo di Tocco commentandole, non furon fatte, se non a tempo di Guglielmo Re di Sicilia; e quell'altro Commento che abbiamo delle medesime d'Andrea da Barletta Avvocato fiscale, che fu dell'Imperador Federico II, mostra più chiaramente, che sino a' tempi di questo Principe, le leggi longobarde nel nostro Regno alle romane erano superiori; e più ancora ne' tempi posteriori, per l'altro che vi fece Biase da Morcone, che fiorì sotto il Re Roberto.

Nella considerazione delle quali cose se per un poco si fossero fermati i nostri Scrittori, a' quali l'istoria fu sempre inimica, e che non fece loro distinguere i tempi, come in ciò si conveniva: non avrebbono ricolmi i loro commentarj d'infinite sciocchezze, insino a dire (non sapendo quali si fossero gli Autori di queste leggi) ch'elle furono fatte da certi Re, che si chiamavano Longobardi, cioè Pugliesi, i quali venuti dalla Sardegna, prima si fermarono nella Romagna, ed indi passarono nella Puglia, come scrissero Godofredo, Baldo, Alessandro e Francesco di Curte, e quel ch'è più strano, seguitati da Niccolò Boerio, che volle più tosto credere a questi sogni, che dare orecchio alla vera istoria.

Nè Luca di Penna, seguitato da poi, come spesso accade, inconsideratamente da Caravita, Maranta, Fabio d'Anna, e da altri nostri Scrittori, avrebbe avuta occasione di declamar tanto contra il Jus de' Longobardi, e di chiamarlo asinino, barbaro ed incolto, e feccia più tosto che legge. Egli diceva così, perchè non seppe distinguere i tempi, ne' quali scriveva, dai secoli trascorsi, ne' quali queste leggi furono reputate le più colte e prudenti di quante mai ne fiorissero in Italia: e' scrisse ne' tempi ultimi sotto il Regno di Giovanna I, dalla quale nell'anno 1366, fu creato Giudice della Gran Corte, quando avanzandosi sempre più l'autorità, e lo splendore della legge romana, cominciava già fra gli Avvocati a disputarsi qual delle due leggi dovesse prevalere; onde è che egli trovando altri, che, contra il suo sentimento, contendevano a favor delle longobarde, si scagliava contro di loro, cumulando di tante ingiure queste leggi. E non fu, se non a' tempi degli Aragonesi, che queste leggi dal nostro Regno finalmente con disusanza mancassero affatto, e le romane si restituirono, come buon testimonio è a noi Matteo degli Afflitti, il quale se bene dica, che a' suoi tempi non vide mai, che ne' nostri Tribunali le leggi de' Longobardi prevalessero a quelle de' Romani, testifica però di avere inteso dagli Avvocati vecchi, che ne' tempi antichi fu osservato il contrario. Ma delle vicende e varia fortuna di queste leggi, non mancheranno nel progresso di questa Istoria più opportune occasioni di lungamente ragionare.

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