CAPITOLO I.

Spedizione di Gualtieri Conte di Brena sopra il Reame di Sicilia per le pretensioni di sua moglie Albinia.

Ma non perchè Marcovaldo sgombrasse di questo nostro Reame, fu questo libero da altre calamità: surse nuovo pretendente, che con forze di genti straniere tentò parimente d'acquistarlo. Fu questi Gualtieri Conte di Brenna franzese, le cui pretensioni avean questo fondamento. La Regina Sibilia, che come si disse, per opra del Pontefice Innocenzio fu da Filippo di Svevia liberata dalla prigionia d'Alemagna, era passata con Albinia e Mandonia sue figliuole in Francia; ed ivi avea maritata Albinia sua primogenita con Gualtieri nato di chiaro e nobilissimo sangue, e di alto valore ed avvedimento. Questi verso la fine di quest'anno 1199 con la moglie già gravida e con la suocera se ne venne in Roma a piè d'Innocenzio, chiedendogli, che gli facesse ragione di quel che apparteneva ad Albinia nel Reame. Esagerò, esser noto a ciascuno, che l'Imperador Errico avea dato a Guglielmo, in vece della Corona di Sicilia e di Puglia, che rinunciato gli avea, il Contado di Lecce, ed il Principato di Taranto, i quali poscia glie li avea tolti senza cagione alcuna. Pose tal richiesta in gran dubbio e pensiere il Pontefice, il quale giudicò esser di gran pericolo il far entrare nel Reame il Conte, temendo, non l'ingiurie fatte alla suocera ed al cognato del morto Imperadore, volesse allora che agio glie ne dava la tenera età di Federico, nel figliuolo vindicare con porre sossopra il Regno; ed all'incontro parevagli, che se del tutto avesse chiusi gli orecchi alla dimanda, sdegnato il Conte, si sarebbe agevolmente congiunto co' nemici del Re, e gli avrebbe mossa aspra e crudel guerra: il perchè giudicò convenevole di fargli dare il Contado di Lecce e 'l Principato di Taranto, ricevendo in prima da lui in pubblico Concistoro giuramento di non molestare in altra cosa il Reame, nè dar noia alcuna a Federico; ma prima che tal cosa ponesse ad effetto, volle significarlo a' Governadori di Sicilia, che reggevano la tenera età del Re, e loro scrisse perciò quella lettera, che si legge nel registro delle sue epistole, ed è quella appunto, che comincia: Nuper dilectus filius noster nobilis vir, etc.

Ma pervenuta cotal lettera alle mani di Gualtieri Arcivescovo di Palermo gli apportò gravissima noia, temendo del Conte più esso, che il Re Federico; perciocch'essendo stato egli con tutti i suoi congiunti aspro nemico di Tancredi e gran partigiano d'Errico nella conquista del Regno, giudicava, che se il Conte fosse entrato in esso, avrebbe procacciato aspramente contro di lui vendicarsi dell'antica offesa; perlaqualcosa biasimando apertamente il Pontefice, che da Balio e Tutore del Regno qual era, attentava di disponere de' Contadi e Principati di quello, come se ne fosse egli il Signore, a suo talento ed arbitrio, con gravissimo danno e diminuzione della Corona, avendo convocato il Popolo di Messina, cominciò con ogni suo potere a contraddire a tal fatto, biasimando Innocenzio, e concitando i Siciliani ad opporsi con tutte le lor forze a quest'attentati. La qual cosa risaputa dal Conte, e veggendo non poter far nulla col solo favore del Pontefice, ma esser mestieri di adoperar le armi, lasciata la suocera e la moglie in Roma, ritornò in Francia a raccor soldati per assalire il Reame.

Intanto Marcovaldo, che passato in Sicilia avea tirati prestamente dalla sua parte i Saraceni dell'isola, avea occupato col loro aiuto molte città e castella della medesima, e giunto a Palermo, quello strettamente assediò per ventidue giorni continui, onde convenne al Cardinal Legato, ed all'Arcivescovo Gualtieri, che dimorava a Messina, co' soldati già ragunati affrettarsi al soccorso di quella città, ed ivi giunti si attendarono nel giardino costrutto con molta magnificenza dal Re Guglielmo I, con pensiero di venire nel seguente giorno a battaglia con Marcovaldo, il quale conosciuto il loro intendimento, avvisò di disfargli con tenergli a bada senza arrischiarsi a combattere; e conoscendo patire i soldati papali mancamento di moneta e di vettovaglia, inviò Ranieri Manente a trattar di pace con molte parole a ciò convenevoli. Ma i soldati avvedutisi del suo ingannevol pensiero concordemente ributtarono il Messo. Pure ciò non ostante i famigliari del Re davano orecchie alle dimande di lui, ed inchinavano a concordarsi seco; ma Bartolommeo famigliare del Pontefice uomo accorto e zelante dell'onor del suo Signore, volendo sturbare così dannoso accordo, fattosi in mezzo a quella adunanza, presentò lettere del Papa, per le quali espressamente vietava e proibiva il far convenzione, e pace alcuna con Marcovaldo.

Laonde Gualtieri, l'Arcivescovo di Messina, Caro Arcivescovo di Monreale e l'Arcivescovo di Ceffalù, che con Ranieri Manente stavan per conchiuder la pace, quando udirono il voler del Pontefice, videro che i soldati dell'esercito, ed il Popolo palermitano non volevan la pace in guisa alcuna, anzi stavan per far tumulto e rivoltura contro di loro, posto da parte ogni trattato d'accordo, diedero libertà di venir a battaglia co' Tedeschi. Azzuffati adunque fra Palermo e Monreale ch'era stato già preso da Marcovaldo, e di soldati munito, si combattè con incredibil ferocia dalla terza insino alla nona ora del giorno: ma alla fine con morirvene grosso numero d'ambedue le parti, vinsero i soldati del Pontefice per lo valor particolarmente di Giacomo Maresciallo, il quale con avere rimessa due volte in piedi la battaglia, e ributtati gli Alemani ed i Saraceni, che avean poste in volta le prime squadre del suo esercito, adoperandosi non meno da valoroso soldato, che da avveduto Capitano, fu principal cagione della vittoria. Perirono grosso numero di soldati e de' più stimati del suo esercito, e fra essi il sopraddetto Ranieri Manente: presero ancora i nemici alloggiamenti, e vi fecero ricca e copiosa preda, indi assalirono Monreale e l'espugnarono in un subito, uccidendo la maggior parte de' difensori; e Marcovaldo, perduto ogni suo avere, fuggì in guisa tale, che per alcun tempo non s'udì novella alcuna de' suoi. Allora fu, che fra gli arredi suoi, si trovò il testamento dall'Imperador Errico bollato con Bolla d'oro, parte del quale vien trascritto dal Baronio nei suoi Annali. Significò tutto questo avvenimento al Pontefice per una sua particolar lettera Anselmo Arcivescovo di Napoli, che dimorava come abbiam detto nell'esercito; e volendo i famigliari del palagio reale, la cui dignità era in fatti l'esser Governadori del Regno e della persona del Re, rimunerare il valor di Giacomo Maresciallo, gli concedettero in nome di Federico il Contado d'Andria, il qual poi fu lungamente da lui posseduto: così costoro come Governadori del Reame credeano esser della loro autorità il poter investire, siccome dall'altra parte non trascurò far Innocenzio, del quale come Balio si leggono ancora alcune investiture, come del Contado di Sora in persona di suo fratello e di alcun'altre, delle quali non ci mancherà occasione di favellare in più opportuno luogo.

Ma i soldati papali cominciavano tra per lo calore della state, e per gli disagi della guerra ad infermare e morire in gran numero, onde convenne al Conte Giacomo di colà partirsi e ritornare in Puglia. Dopo la qual cosa essendo morto l'Arcivescovo di Palermo, Gualtieri della Pagliara Cancellier di Sicilia e Vescovo di Troja si adoperò di maniera, che si fece da' Canonici di quella città crear Arcivescovo (non facendosi a questi tempi difficoltà d'unire due Cattedre in una medesima persona) ed ammettere dal Cardinal Legato con tale elezione, prendendone l'insegne ed il possesso prima di riceverne il pallio e la confermazion del Pontefice; dal quale fu per tal atto acerbamente ripreso il Legato, onde sdegnato perciò maggiormente Gualtieri scrisse, e parlò più liberamente contro di lui nell'affare di Gualtieri Conte di Brenna, secondo che appresso diremo.

Avea in questo mentre, essendo già entrato il nuovo anno di Cristo 1200, Diopoldo commesse infinite malvagità nel Reame; perciocchè quantunque collegatosi con l'Abate Roffredo gli avesse promesso in Venafro con giuramento sopra i Santi Vangeli di non molestar niuno degli abitatori delle terre della Badia: nondimeno una notte assalì improviso que' di S. Germano, e presa la Terra senz'alcun contrasto, la pose a sacco ed a ruina, e l'Abate Roffredo e Gregorio suo fratello, che colà dimoravano fuggirono in Atino, donde passati poscia nel Contado de' Marsi chiesero soccorso a Pietro Conte di Celano, che loro il negò; ma Sinibaldo e Rinaldo ch'eran del medesimo legnaggio de' Conti de' Marsi, che ora si dice di Sangro, loro inviarono tutto il vasellamento d'argento e danaro, che in pronto aveano; co' quali assoldò l'Abate alcuni soldati, e se n'entrò chetamente con essi di notte tempo in Monte Cassino. Del cui arrivo avuta contezza Diopoldo, temendo non avesse condotto maggior numero di persone, prestamente si partì via, lasciando affatto voto di Popolo S. Germano, nella qual città rientrato l'Abate, la fornì di nuove mura e di torri. E Diopoldo, non guari da poi che partì venne a battaglia presso Venafro col Conte di Celano, e 'l ruppe e fugò, facendo prigioniero Berardo suo figliuolo, che con gli altri prigionieri di S. Germano nella Rocca d'Arce rinchiuse.

Venuto poscia l'anno di Cristo 1201 Gualtieri Conte di Brenna, che era ito in Francia a raccor soldati, ritornò in Roma, conducendone seco picciol numero, ma di provato valore; co' quali volendo entrar nel Reame, fu da molti giudicato matto e arrogante, perchè con sì picciola compagnia volesse porsi a così grande impresa. Ed il Conte Diopoldo avuta contezza del suo venire, convocò numeroso esercito di Tedeschi e di altri suoi partigiani per farsegli all'incontro, e scacciarlo dal Regno. Il Pontefice temendo non mal capitasse Gualtieri, con accrescersi ardimento a' Tedeschi, diede al medesimo cinquecento oncie d'oro, perchè potesse ragunar più soldati, e parimente scrisse molte sue lettere dirette a' Conti, Baroni e Popoli del Reame, acciocchè il ricevessero nelle lor città e castella, e 'l favoreggiassero contro Diopoldo. Con tali aiuti il Conte menando seco Albinia sua moglie entrò valorosamente in Terra di Lavoro, e congiuntosi con l'Abate Roffredo, che con buon numero di gente venne in suo aiuto, assediò Teano, e prestamente il prese; ed indi per lo favor di Riccardo Arcivescovo di Capua, ch'era figliuol di Pietro Conte di Celano, ebbe anche il castello della città di Capua; presso del qual dimorando, gli venne all'incontro Diopoldo con numeroso esercito, e venuti a battaglia, divisando Diopoldo di porlo subito in rotta per esser assai più potente di lui, gli avvenne tutto il contrario; perciocchè combattendo Gualtieri ed i suoi soldati con insolita fortezza, urtarono sì fattamente ne' Tedeschi, che con farne grandissima strage gli posero in rotta ed in fuga, e saccheggiarono dopo la vittoria le lor ricche tende, insieme co' Capuani, che uscirono anch'essi a partecipar della preda. Unitosi poscia con Gualtieri il Conte di Celano, girono con l'Abate e con l'Arcivescovo Riccardo ad assediar Venafro, che subito presero ed abbruciarono; e fatti altri maggiori progressi, si vide Gualtieri in brevissimo tempo aver presa la maggior parte de' luoghi del Contado di Molise, e l'Abate Roffredo ricuperò anch'egli dalle mani di Diopoldo, Pontecorvo, Castelnuovo e Frattura, luoghi della sua Badia.

Intimoriti perciò i Tedeschi, si racchiusero nella lor Fortezza; onde entrato il nuovo anno 1202 girono il Conte Gualtieri, il Conte di Celano e l'Abate Roffredo, che insieme col Cardinal Galloccia facea l'uffizio di Legato in Puglia, a conquistar il Principato di Taranto e 'l Contado di Lecce; i quali Stati insieme con Brindisi ed altri luoghi di quel Principato tosto loro si resero, e lo stesso fecero di là a poco Lecce col suo castello, Melfi e Montepiloso: assediando Monopoli e Taranto, che non s'eran voluti rendere.

Ma questi progressi del Conte di Brenna, che faceva in Puglia, non eran ben appresi da' Siciliani, e particolarmente da Gualtieri della Pagliara Arcivescovo di Palermo, il quale s'avea usurpata tutta l'autorità del Governo in quell'isola, e facendosi partigiani gli altri familiari del Re, dava a' medesimi a suo piacere i Contadi, le Baronie, i Governi delle città e delle province, e gli altri Magistrati e dignità per afforzar meglio il suo partito. Disponeva altresì come meglio a lui parea de' tesori e delle rendite reali, non ostante l'ordine del Pontefice, che non voleva, che si facesse cosa veruna senza il voler di tutti, con riservare anche in alcuni più importanti affari il suo consentimento; e per poter egli più agevolmente recare ogni suo intendimento a effetto, fece venire in Sicilia suo fratello Gentile della Pagliara Conte di Manopello, alla grandezza del quale continuamente badava, avendo in pensiero, secondo che scrive la Cronaca di Fois, di farlo, tolto dal Mondo il fanciullo Federico, crear Re di Sicilia, e lo stesso, scrive, che rimproverò Marcovaldo, quando divenuti fra di loro aspri nemici s'infamarono l'un l'altro di cotal malvagità.

Fu Gentile tosto creato famigliar regio, il quale cominciò a trattar di concordia con Marcovaldo, ancorchè scomunicato, e nemico del Pontefice, come in effetto si fece, costituendolo sopra tutti i famigliari, e dividendosi i Governi del Reame, acciocchè l'uno regnasse in Sicilia e l'altro in Puglia. Strinsero l'amicizia col parentado, dando Marcovaldo al figliuolo del Conte Gentile una sua nipote; ed ordinò Gualtieri a tutti i Popoli soggetti in nome del Re fanciullo, che ciò ch'esso avea stabilito dovessero compiutamente ubbidire; ed egli lasciata sotto la cura di suo fratello in Palermo la persona di Federico, e 'l palagio reale, se ne passò in Calabria ed in Puglia, ove con incredibile rapacità tolse tutti i sacri vasi ed i preziosi arredi delle chiese, e taglieggiò i particolari uomini, ed i Comuni delle città e castella, logorando poi inutilmente la rapita moneta, come colui che di pari avido in raccorla, era prodigo in donarla e buttar via. Declamava ancora contro il Pontefice, che diceva, di Balio esser divenuto crudel nemico del Re e del Regno, per aver dato aiuto al Conte Gualtieri, che ostilmente travagliava la Puglia per torla al Re fanciullo, e che in vece di fargli ostacolo gli avea somministrata gente e denaro. E proccurando con tutti i suoi sforzi far lega e compagnia con diversi Baroni del Reame, s'accingeva di mover guerra a Gualtieri ed al Pontefice, per discacciar l'uno dalla Puglia, e l'altro perchè non avesse parte alcuna nel Governo di questi Reami.

Il Pontefice Innocenzio, a cui erano state significate le opere di costui, non tralasciò tosto provedervi di rimedio, poichè fattolo ammonire più volte, che si astenesse da tali imprese, nè volendolo ubbidire, finalmente lo scomunicò, privandolo dell'Arcivescovado di Palermo, del Vescovado di Troja e dell'Ufficio di Cancellier di Sicilia, e creò altri Prelati in suo luogo nelle Chiese, che tolte gli avea, ordinando a tutti i Siciliani e Regnicoli, che non ubbidissero sotto pena di scomunica in niuna guisa i suoi ordini. Percossero questi fulmini in maniera l'Arcivescovo, che perdendo in un subito ogni autorità presso i suoi sudditi, i quali, e perchè comunalmente l'odiavano, e per le censure lanciate non volendo più ubbidirlo, ne divenne in breve la favola di tutti. Il perchè vedendo ciò gli altri famigliari, ch'eran suoi partigiani, cominciarono a temere grandemente di lor medesimi: onde scrissero umilmente in nome del Re al Pontefice, pregandolo per Gualtieri, ed escusandosi essi; a cui Innocenzio rispose con quella lettera, che tolta, dalla Cronaca di sopra allegata, si legge nel registro delle sue epistole, la quale merita, che altri la leggano per favellar particolarmente dell'entrata nel Regno del Conte Gualtieri, la quale è stata assai confusamente scritta da coloro, che han trattato delle nostre memorie.

Intimidito per tanto Gualtieri, cercò di concordarsi col Pontefice, e venendo in Puglia a' piedi del Cardinal Legato giurò d'ubbidirgli in tutto quello, che gli avesse comandato; ma come il Legato gli ordinò, che non si fosse opposto al Conte di Brenna nell'acquisto del Principato di Taranto, e del Contado di Lecce, arditamente gli rispose, che se Pietro Appostolo inviato da Cristo fosse venuto a comandargli tal cosa, non gli avrebbe nè anche ubbidito ancorchè fosse stato certo d'avere ad esserne condannato alle pene infernali; e bestemmiando e maledicendo il Pontefice in presenza del Legato, tutto sdegnato da lui si partì, e se ne andò a congiungersi col Conte Diopoldo.

Era Diopoldo in questo mentre passato in Puglia insieme col Conte di Manieri suo fratello, e col Conte di Laviano, ed avea ragunato grosso esercito per discacciar il Conte Gualtieri da' luoghi, che vi avea occupati, animando tutti gli altri Baroni a quest'impresa contro Gualtieri, che come nemico del Re, veniva, com'ei diceva, per torgli il Regno. Ma venuto di nuovo con lui a battaglia nel sesto giorno d'ottobre nel famoso luogo di Canne, ove Annibale cartaginese diede la memorabil rotta a Flaminio e M. Varrone Consoli romani, con tutto che il Conte per essere stato colto improviso avesse assai minor numero di soldati, che Diopoldo, ciò non ostante, si portò co' suoi soldati sì valorosamente, che gli pose in rotta, con ucciderne, e far prigionieri la maggior parte, fra' quali furono Sigisfredo fratello del Conte Diopoldo, ed il Conte Ottone di Laviano, salvandosi a gran fatica Riccardo col Conte di Manieri nella città di Salpe, e Diopoldo nella Rocca di S. Agata.

Intanto il Conte Gentile, che dicemmo esser rimaso in Palermo alla cura di Federico, corrotto da molta moneta pose in poter di Marcovaldo non sol la città di Palermo, ma tutta l'isola di Sicilia, fuor che Messina; il quale avrebbe agevolmente fatto morire il Re, ed usurpatane la regal Corona, se non avesse temuto del Conte di Brenna, il quale per ragion di sua moglie, se moriva quel fanciullo, avrebbe preteso, che a lui per ragione perveniva il Reame. Soprastette adunque a ciò fare, attendendo tempo più opportuno per porre il suo cattivo intendimento ad effetto; procacciando intanto per mezzo di molta moneta, non ostante la repulsa, che un'altra volta ne avea avuta, di distorre Innocenzio dal favoreggiar Federico, e di far ritornar in Francia senza tentar altro il Conte Gualtieri. Ma ecco, che furono dissipati i suoi disegni da colei, che tutte l'umane speranze confonde ed abbatte; perciocchè non guari da poi, patendo egli di difficoltà d'orinare, cagionatagli da una pietra, che se gli era generata nelle reni, gli sopraggiunsero così acerbi dolori, che non potendogli soffrire si fece tagliar da basso per cavarnela, secondo che comunalmente si usa, ma non riuscito il taglio si morì subito scomunicato verso la fine di quest'anno 1202, terminando con la vita la sua vasta ambizione ed avidità di regnare. L'Autor delle gesta d'Innocenzio, lo fa pure morir di taglio; ma Riccardo di S. Germano lo fa morire di dissenteria.

In Puglia il Conte Diopoldo non si rimanendo di usare le solite malvagità, venuto l'anno di Cristo 1203 fu per opra de' partigiani del Conte Gualtieri posto in prigione dallo stesso Castellano della Rocca di S. Agata, in cui s'era salvato; nulladimeno poco giovò a Gualtieri tal prigionia, poichè il Castellano medesimo, poco stante, corrotto da lui con premj e promesse il ripose di nuovo in libertà.

Intanto in Sicilia la morte di Marcovaldo cagionò nuove rivolture; poichè Guglielmo Capparone, anche egli Capitano tedesco, saputa la di lui morte, incontinente andò a Palermo, ed occupò il palagio reale colla persona del Re, e cominciò a intitolarsi Custode del Re, e Governadore di Sicilia: la qual cosa dispiacendo a' seguaci del morto Marcovaldo, negarono di ubbidirgli, e formarono un altro partito, con grave danno degli affari dell'isola.

Gualtieri della Pagliara, giudicando esser questo il tempo opportuno di rimettersi in istato, scrisse al Pontefice con chiedergli l'assoluzione della scomunica, perch'egli l'avrebbe ubbidito in tutto quel che gli avesse comandato, e che in queste rivolture avrebbe impiegato tutti i suoi talenti per servigio della S. Sede: Innocenzio non differì di accordargliela, onde passato in Sicilia, e ripreso l'Ufficio di Gran Cancelliero, che niuno gliel vietò, scrisse sue lettere ad Innocenzio, nelle quali mostrando di procacciar solo l'utile di Federico, chiedea che inviasse colà per lo ben di quel fanciullo un Cardinal Legato, che ponesse fine all'autorità di tanti Tiranni, e governasse egli solo il tutto. Alla qual cosa acconsentendo il Pontefice vi inviò prestamente Gerardo Allucingolo da Lucca Cardinal di S. Adriano uomo di gran stima, e nipote del Pontefice, in mano di cui avendo giurato in Messina Guglielmo Capparone di riconoscer per Balio del Reame Innocenzio, e lui per suo Legato, e che l'avrebbe ubbidito in ciò che gli comandasse, fu assoluto dalla scomunica, nella quale come partigiano di Marcovaldo era insieme con lui incorso.

Andò poi il Legato a Palermo, ove poco prima era andato anche Guglielmo, e cominciando a trattare insieme i negozj del Regno, vennero tosto in aperte discordie, perchè Guglielmo deludendo il Legato, non faceva nulla di quanto questi gli dicea, onde il Legato stimando, che non era convenevole star in Palermo sprezzato in cotal guisa, significato il tutto al Pontefice, se ne ritornò a Messina.

Era in questo mentre il Cancellier Gualtieri andato in Puglia, e mandate sue lettere e messi al Pontefice con mezzi di persone potenti e grandi che vi adoperò, tentò ogni possibil modo di esser restituito all'Arcivescovado di Palermo, o almeno al Vescovado di Troja; ma Innocenzio fu sempre a ciò costante di non voler togliere l'Arcivescovado di Palermo a Parisio Vescovo di Messapa, nè quel di Troja ad un altro Prelato, a cui dati gli avea.

Dall'altra parte in Puglia Diopoldo teneva in terror quelle province, onde il Papa inviò in ajuto al Conte Gualtieri Giacomo Conte d'Andria suo Maresciallo, che lo creò ancora Maestro Giustiziero di Puglia, e di Terra di Lavoro; e nell'anno seguente 1204 collegatisi insieme i Conti Gualtieri di Brenna, il Conte Giacomo S. Severino di Tricarico, ed il Conte Ruggiero di Chieti, dopo altre minori imprese, posero l'assedio a Terracina di Salerno, del qual luogo a' nostri tempi non appare vestigio alcuno, e prestamente la presero; ma sopraggiunto immantenente Diopoldo, con l'ajuto de' Salernitani suoi partigiani, e coll'esercito che seco menò, vi assediò dentro il Conte Gualtieri, e sì fattamente con varj assalti il travagliò, che restò ferito Gualtieri con un colpo di saetta in un occhio, in guisa tale che ne perdette la vista di esso: ma venuti in suo soccorso i sopraddetti Conti di Tricarico, e di Chieti, fu Diopoldo vergognosamente scacciato dall'assedio, e da tutto il territorio di Salerno, restando egli assediato in Sarno dal Conte Gualtieri.

Ma mentre essendo già entrato il nuovo anno 1205 il Conte di Brenna mal si guardava da' pericoli della guerra, esponendo men cautamente la sua persona, ed il suo esercito, avvenne che avvertito Diopoldo di tal trascuraggine e baldanza, uscì di buon mattino improvviso con suoi soldati sopra l'esercito nemico, nè trovando in esso quella vigilanza, che conveniva, l'assalì e ruppe in un subito, con ucciderne grosso numero, e fatto prigione il Conte in più parti ferito da lance e da saette, mentre ignudo con la spada in mano valorosamente si difendeva, il condusse dentro di Sarno, ove non guari da poi per le ricevute ferite, di questa vita trapassò; come narrano Riccardo da S. Germano, e l'Autore della Cronica di Fois, amendue Autori di que' tempi.

L'infelice Albinia vedutasi, morto suo marito, sola e rimasa di lui gravida, si maritò prestamente col soprannomato Giacomo Sanseverino Conte di Tricarico, il quale soprastette a congiungersi con lei sin che partorì un figliuolo maschio, che in memoria del padre fu nomato parimente Gualtieri, e fu poscia Conte di Lecce; dalla cui progenie derivò la Regina Maria d'Engenio, e Brenna moglie del Re Ladislao II che appresso diremo.

La morte di Gualtieri Conte di Brenna sollevò in maniera il partito di Diopoldo, e de' suoi Capitani tedeschi, e pose in tanta costernazione il Conte Pietro di Celano, ed i suoi partigiani, che finalmente fu duopo ad Innocenzio istesso di pacificarsi con Diopoldo, e co' suoi partigiani tedeschi, e commetter ad essi la custodia del Regno; per la qual cosa nel seguente anno 1206 ricevette in sua grazia Diopoldo co' suoi, ed avendolo fatto giurare in mano d'un Fra Rinieri (secondo che scrive l'Autor della Cronaca di Fois) e di Maestro Filippo Protonotario Appostolico, che convennero per tal affare in Terra di Lavoro, di ubbidir liberamente il Pontefice e i suoi Legati, come a Balio del Regno, fu dalle censure assoluto; e nella stessa maniera giurando Marcovaldo di Laviano e Corrado di Marlei Signori di Sorella con tutti i lor partigiani e vassalli, furono parimente questi ricevuti in grazia del Pontefice, siccome tutti i tedeschi, che dimoravano in Puglia ed in Sicilia. Andò poi Diopoldo in Roma a piè del Pontefice, e fu da lui onorevolmente accolto, e ragionato insieme degli affari del Regno, ritornò con sua licenza a Salerno, ed indi sopra alcuni vascelli, per ciò apprestati, navigò a Palermo.

Giunto Diopoldo a Palermo, narra Riccardo da S. Germano, fece sì, che si pose in mano la persona del Re, e la guardia del suo palagio reale: ma ciò non potendo tollerare Gualtieri della Pagliara G. Cancelliero, in un convito, che di notte tempo fece apparecchiare a questo fine, lo fece dalle sue genti imprigionare con un suo figliuolo: ma perchè nol guardavano com'era mestiere, di là a poco, dalla notte favorito, fuggì via, ed imbarcatosi in un vascello ritornò di nuovo in questo seguente anno 1207 in Salerno, e di là passò in Terra di Lavoro, ove combattendo co' Napoletani, fece di essi strage sanguinosissima.

I. Cuma distrutta, e la sua Chiesa unita a quella di Napoli.

Ma qui non bisogna tralasciare ciò che un antico Scrittor napoletano, e l'Autor dell'Ufficio di S. Giuliana, che scritto da antichissimi tempi in pergameno si conserva nel monastero di Donnaromita, narrano in quest'anno della destruzione di Cuma, e di alcuni combattimenti ch'ebbero i Napoletani co' Tedeschi, ed Aversani con successi particolari, taciuti all'intutto da gravissimi Scrittori, e contemporanei a' fatti che si narrano.

Essi raccontano, che in questi tempi essendo la città di Cuma quasi che disfatta, e perduto per la malvagità degli abitatori il nome di città, divenne ricetto di ladroni e di corsari, che per mare, e per terra infestavano i viandanti e le vicine regioni, oltre alle continue scorrerie de' Tedeschi, i quali sovente nella Rocca di quella città ricovrando, tutta Terra di Lavoro, e particolarmente i tenimenti di Napoli, e di Aversa in varie guise aspramente travagliavano: il perchè per ovviare a questi mali, convenuti a parlamento i Cavalieri e popolani di Napoli, conchiusero concordemente, che si dovessero porre diverse squadre di soldati in guardia de' passi, donde per lo più solevano i ladroni tedeschi venire: la qual deliberazione risaputasi da' circonvicini Conti e Baroni, furon da questi i Napoletani grandemente incorati a sì lodevole opera con offerta d'aiutargli con le loro persone e con ogni lor avere. Posto adunque sì buon pensiero ad effetto e distribuite in più luoghi le guardie, stavano attendendo, che i nemici venissero per assalirgli. Or mentre in tale stato eran le cose, Goffredo di Montefuscolo Capitano di sommo valore, ed aspro nemico de' Tedeschi, essendo già il mese di marzo ne andò una sera con alcuni suoi famigliari a Cuma, ove fu dal Vescovo d'Aversa, che allora nel castello albergava, cortesemente accolto. Pose la venuta di Goffredo così di notte tempo in gran sospetto gli Aversani, temendo non gli volesse il Vescovo tradire, ed avesse ricevuto colà entro Goffredo per farlo fortificare a lor danni, com'era altre volte avvenuto. Pure perchè di ciò non poteano aver alcuna certezza, inviarono a Cuma alcuni lor cittadini ad informarsene, e con ogni diligenza, e secretezza a porsi in guardia del castello, acciocchè Goffredo occupar nol potesse. Goffredo intanto veggendo la loro venuta cadde nella stessa sospizione, nella quale erano in prima gli Aversani caduti, dubitando non il Vescovo gli avesse chiamati per farlo prigione; il perchè prendendo anch'esso a guardarsi di loro, si fortificò insieme co' suoi compagni in un particolar casamento. Or mentre gli uni dagli altri, e temevano e si guardavano, sospettando Goffredo non per lo picciol numero de' suoi fosse alla fine sopraffatto dagli Aversani, inviò prestamente in Napoli a chieder soccorso, ed a pregar i Napoletani, che non indugiassero a liberarlo dal pericolo, ed a far del castello quel che fosse lor paruto il meglio. A tal novella messosi a cavallo il Conte Pietro di Lettere, parente di Goffredo, velocemente a Giuliano se ne andò, e tolti seco molti soldati, che ivi eran posti in guardia de' Napoletani contro i Tedeschi, senz'alcuno indugio a Cuma se ne passò; della cui venuta lieto Goffredo gli uscì all'incontro e gli fece giurare, che se il castello si prendesse, avrebbero consignati a lui e mobili e gli uomini, che vi eran dentro; e così convenuti entrarono insieme nella città. Poco stante sopravvennero per l'ambasciata di Goffredo buon numero di Cavalieri e popolari napoletani, ond'egli veggendosi fuor di pericolo, tenuto consiglio con essi Napoletani e col Conte Pietro, fece conchiudere, che prima di partirsi di là avessero in ogni modo il castello nelle mani, e che la città da' fondamenti disfacessero, perchè così si sarebbero per sempre liberati da ogni timore d'essere infestati da' ladroni e da' Tedeschi. Richiesero perciò agli Aversani, ed al lor Vescovo, che fuori ne uscissero; ma gli Aversani ricusando d'uscirne; e fattesi sopra ciò molte parole, veggendo i Napoletani e Goffredo, che non era più da indugiare, accostatisi per mare e per terra, cominciarono a combattere valorosamente le mura, e poco dopo il castello, ed accesovi il fuoco, a gran fatica il Vescovo, e gli Aversani, che vi eran dentro, fuggendo camparono; ed i Napoletani fatta distrugger la città, ed abbatter la Rocca lietamente, e con gran trionfo a Napoli se ne ritornarono; onde Cuma essendo stata interamente distrutta, la sua Chiesa, ch'era prima suffraganea a quella di Napoli, riunì alla medesima con tutte le sue ragioni e beni.

Allora fu, come narra il soprannominato Autor dello ufficio di S. Giuliana, che Anselmo Arcivescovo di Napoli, e Lione Vescovo di Cuma, deliberarono, che si trasferissero dalla maggior chiesa della città disfatta i Corpi de' SS. Martiri Massimo, a cui era dedicata la chiesa, e di S. Giuliana, e d'un fanciullo di tre mesi, che si diceva Massimo aver fatto miracolosamente parlare alla presenza di Fabiano Prefetto; acciocchè da altre genti straniere rubati non fossero: spinti ancora da Brienna allora Badessa del monastero di Donnaromita, la quale con tutte le sue Suore ardentissimamente bramava il Corpo di S. Giuliana; il perchè andato a Cuma il detto Lione, Pietro Frezzarnolo Subdiacono del Duomo di Napoli, e gli Abati di S. Pietro ad Ara, e di S. Maria a Cappella, e buon numero di Cavalieri e popolani napoletani, aperte le casse dove le reliquie erano riposte, indi le tolsero, e con gran riverenza ed onore, via seco le portarono alla chiesa di S. Maria a piè di Grotta. Trovarono ivi la Badessa, e molte altre Monache del suddetto monastero di Donnaromita, e con esse buon numero di nobili madrone e donzelle, che l'attendevano, e con grand'allegrezza ricevettero. Dimorate poi là insino il seguente mattino, ritornò il nominato Vescovo Lione con molti Cavalieri del Seggio di Nido, nel cui quartiero è il suddetto monastero, ed altra innumerabil turba di Cavalieri e popolari napoletani con rami d'ulivi in mano, e tolte le reliquie cantando inni e salmi le portarono ad una chiesa che era sopra l'isola di S. Salvatore, ov'è al presente il Castel dell'Uovo. Giunse co' Canonici e con tutto il Clero l'Arcivescovo Anselmo, e nella città processionalmente entrati collocarono in Donnaromita il corpo di S. Giuliana, ed il suo quadro, che di Cuma recato aveano, e le reliquie di S. Massimo e del fanciullo nel Duomo, ove ora ancor si adorano, riposero.

Ecco ciò che scrivono questi Autori; all'incontro non mi par di tacere per la fede dovuta all'istoria, ciò che ritrovo scritto da gravi e veritieri Scrittori. Raccontano adunque Riccardo da S. Germano, e l'Autore della Cronaca, che si conserva in Monte Cassino, che il Conte Diopoldo in quest'istesso anno 1207 che si narrano questi successi, da Salerno venuto in Terra di Lavoro a battaglia co' Napoletani, diede loro una notabil rotta, con farne crudelissima strage; aggiungendovi ancora Riccardo, che sostenne, e menò seco prigioniero nelle sue castella esso Goffredo di Montefuscolo, senza far menzione alcuna della distruzion di Cuma. Puossi nondimeno per concordar queste relazioni dire e credere, che dopo la distruzion di Cuma, la quale avvenne nel mese di marzo, irato Diopoldo, o per tal cagione, o perchè fossero stati i suoi Tedeschi malmenati da' Napoletani, che s'eran posti in guardia contro di loro, ne gisse sopra Napoli, e che uscitigli all'incontro i Napoletani con Goffredo di Montefuscolo fosser stati in battaglia rotti, ed uccisi con rimaner prigione Goffredo secondo che quegli Autori scrivono; ma come ciò avvenuto fosse il rimetto al giudicio di chi legge.

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