CAPITOLO III.

Re Manfredi riceve con intrepidezza e valore il nemico: ferocemente si viene a battaglia, nella quale, tradito da' suoi, rimane infelicemente ucciso.

Dall'altra parte il Re Manfredi non tralasciava con intrepidezza e valore accorrere in tutte le parti per prepararsi ad una valida difesa. Dolevasi dell'avversa sua fortuna, e fremeva insieme e stupiva in veggendo il suo nemico non solo aver con tanta felicità su poche navi valicato il mare e sfuggito l'incontro delle sue galee, ma con giubilo e feste essere stato ricevuto in Roma e, istrutto il suo esercito, essere già ne' confini del Regno. Stupiva ne' medesimi suoi sudditi vedere tanta incostanza e volubilità, sembrandogli, che tutti chiamassero Carlo, e già per ogni angolo non s'udiva altro, che il suo nome e quello de' Franzesi. Non tralasciava intanto il mal avventuroso Principe inanimirgli ed incoraggiargli alla difesa; ed a tal fine convocò in Napoli una general Assemblea di tutti i Conti e Baroni, richiedendogli del loro ajuto: scorreva egli ora a Capua, ora a Cepperano, ora a Benevento, e commise la custodia dei passi a due, de' quali dovea promettersi ogni accortezza e fedeltà: al Conte di Caserta suo cognato, ed al Conte Giordano Lancia suo parente. Presidiò San Germano, ed ivi pose gran parte de' suoi Cavalieri tedeschi e pugliesi, e tutti i Saraceni di Lucera; ed intanto va in Benevento per tenere in fede quella città e per accorrere da quivi a' bisogni del suo esercito; ed indi passa a Capua.

Ma tutte queste cauzioni niente giovarono a quest'infelice Principe; poichè essendo Carlo giunto all'altra riva del Garigliano, presso a Cepperano, il Conte Caserta ch'era alla guardia di quel passo, con alcune scuse si ritirò indietro, e lasciò che passasse il fiume senz'alcuno ostacolo: il Conte Giordano stupisce del tradimento, e torna indietro per la via di Capua a trovar Manfredi. Così, come deplora l'Anonimo, ad malum destinatus Manfredus, qui apud Ceperanum gentis suae resistentiam ordinare debebat, passus Regni vacuos, et sine custodiae munitione reliquit, ut liber ad Regnum aditus pateat inimicis. Ecco come Carlo col suo vittorioso esercito entra nel Reame, e come tutti i luoghi aperti se gli rendono, tosto prendendo Aquino e la Rocca d'Arci.

Il Re Manfredi avendo inteso, che Re Carlo avea passato il fiume senz'alcun contrasto, inorridisce al tradimento, ed avendo subito unite le sue genti coll'esercito, che teneva il Conte Giordano, cominciò a temere non gli altri Baroni facessero il medesimo; ed avendo già per sospetta la fede de' Regnicoli, tentò di volersi render Carlo amico e di trattar con lui di pace; mandò per tanto i suoi Ambasciadori al medesimo a cercargli pace o almeno tregua. Ma il Re Carlo, che vedeva la fortuna volar dal suo canto, non volle perdere sì buone occasioni, onde agli Ambasciadori, nel suo linguaggio franzese, diede questa altiera, e rigida risposta: Dite al Soldan di Lucerna, che io con lui non voglio, nè pace, nè tregua, e che presto, o io manderò lui all'Inferno, od egli manderà me in Paradiso . Avea Carlo, per inanimire i suoi soldati, lor persuaso, che egli militava per la fede cattolica contro Manfredi scomunicato, eretico, e Saraceno: ch'essi erano soldati di Cristo, e che in qualunque evento, si sarebbero esposti ad una certa vittoria, o d'esser coronati colla corona del martirio morendo; o debellando l'inimico con corona trionfale d'alloro, e renduti gloriosi ed immortali per tutti i secoli.

Ricevuta Manfredi questa risposta, fu tutto rivolto all'armi, ed avendo riposta tutta la sua speranza nel gagliardo presidio, che avea lasciato in S. Germano, credea, che Re Carlo non avesse da procedere più oltre, per non lasciarsi dietro le spalle una banda così grossa di soldati nemici, e che per lo sito forte di S. Germano, si sarebbe trattenuto tanto, che o l'esercito franzese fosse dissoluto, per trovarsi nel mese di gennajo in que' luoghi palustri e guazzosi; o che a lui arrivassero gagliardi soccorsi di Barberia, dove avea mandato ad assoldare gran numero di Saraceni; o di Ghibellini di Toscana e di Lombardia. Ma ecco i giudicii umani come tosto vengono dissipati dagli alti giudicii divini: poichè contra la natura delle stagioni i giorni erano tepidi e sereni, come sogliono essere i più belli giorni di primavera; e quelli, ch'erano rimasi al presidio di S. Germano, non mostrarono quel valore nel difenderlo, ch'egli s'avea promesso; perchè in brevi dì, per la virtù de' Cavalieri franzesi, dato l'assalto alla terra, con tutto che i Saraceni valorosamente si difendessero, fu nondimeno quella presa e gran parte del presidio uccisa.

Come Manfredi intese la perdita di S. Germano, ritornando di là la gente sconfitta, sbigottì: e mandata molta gente a presidiar Capua, egli consigliato dal Conte Gualvano Lancia, e dagli altri suoi fidati Baroni, si ritirò nella città di Benevento, per aver l'elezione, o di dar battaglia all'inimico quando volea, ovvero di ritirarsi in Puglia se bisognasse. Il Re Carlo intendendo la ritirata di Manfredi in Benevento, si pose a seguitarlo, e giunse a punto il sesto dì di febbraio alla campagna di Benevento, e s'accampò due miglia lontano dalla città, e manco d'un miglio dal campo de' nemici. Allora Manfredi col consiglio dei principali del suo campo deliberò dar la battaglia, giudicando, che la stanchezza de' soldati di Carlo potesse promettergli certa vittoria. Dall'altra parte Re Carlo spinto dall'ardire suo proprio, e da quello, che gli dava la fortuna, la qual pareva, che a tutte l'imprese sue lo favorisse, posto in ordine i suoi, ancorchè stanchi, uscì ad attaccare il fatto d'arme, onde si cominciò quella memoranda, e fiera battaglia, la quale non è del nostro istituto descriverla a minuto, potendosi con tutte le sue circostanze leggere nell'Anonimo, nel Summonte, Inveges, Tutini; e presso molti altri Istorici, che la rapportano.

L'infelice Manfredi mentre la pugna tutta arde, ed egli la mira da un rilevato colle, vede due schiere del suo esercito, ch'erano malmenate da' nemici, e volendo movere la terza, ch'era sotto la sua guida, tutta di Pugliesi, grida a' Capitani suoi, che tosto ivi accorressero alla difesa, s'avvede che molti de' nostri Regnicoli corrotti da Carlo, seguivano il suo partito, e con infame tradimento non ubbidivano, ma s'astenevano di combattere, quando il bisogno più lo richiedeva. Allora Manfredi con animo grande ed invitto, deliberando di voler più tosto morire, che sopravvivere a tanti valorosi suoi Campioni, che vedea in quella strage morire; cala egli al campo, ed ove la pugna più arde si mischia nella più folta schiera de' suoi nemici, e tra loro combattendo, da colpi di sconosciuto braccio, perchè niuno potesse darsi il vanto di sua morte, restò infelicemente in terra estinto; e sconosciuto tra innumerabile folla di cadaveri estinti, tre dì, prima che fosse ravvisato, miseramente giacque. Così infamemente da' suoi tradito morì Manfredi. Il cui tradimento non potè Dante (siccome l'Anonimo) non imputarlo a' nostri Regnicoli, chiamati allora comunemente Pugliesi, quando nel suo Poema commemorando questa rotta, coll'altra data a Corradino, disse:

E l'altra, il cui ossame ancor s'accoglie

A Ceperan là dove fu bugiardo

Ciascun Pugliese; e là da Tagliacozze,

Ove senz'arme vinse il vecchio Alardo.

Ecco l'infelice fine di questo invitto e valoroso Eroe, Principe (se ne togli la soverchia ambizion di regnare e non avesse avuto l'odio di più romani Pontefici, che lo dipinsero al Mondo per crudele, barbaro e senza religione) da paragonarsi a' più famosi Capitani dei secoli vetusti. Ei magnanimo, forte, liberale ed amante della giustizia, tenne i suoi Reami in istato florido ed abbondante. Violò solamente le leggi per cagion di regnare, in tutte le altre cose serbò pietà e giustizia. Egli dotto in filosofia, e nelle matematiche fu espertissimo, non pur amante de' Letterati, ma egli ancora litteratissimo, e narrasi aver composto un trattato della caccia, a questi tempi da' Principi esercitata, ed in sommo pregio, e diletto avuta. Biondo era, e bello di persona e di gentile aspetto, affabilissimo con tutti, sempre allegro e ridente, e di mirabile ed ameno ingegno; tanto che non son mancati chi con ragione l'abbia per la sua liberalità, avvenenza e cortesia, paragonato a Tito figliuolo di Vespasiano, reputato la delizia del genere umano. Della sua magnificenza sono a noi rimasti ben chiari vestigi, il Porto di Salerno, e la famosa città di Manfredonia in Puglia, che dal suo ritiene ancor ora il nome. E se i continui travagli sofferti per difendere il Regno dalle invasioni di quattro romani Pontefici, gli avessero dato campo di poter più attendere alle cose della pace, di più magnifiche sue opere, e di altri più nobili istituti avrebbe egli fornito questo Reame.

Intanto l'esercito di Carlo avendo interamente disfatto quello dell'infelice Manfredi, inoltrossi nel Regno, ed in passando, non vi fu crudeltà e strage, che i Franzesi non usassero; Benevento andò a sacco ed a ruba, nè fu perdonato a sesso, nè ad età. Que' Baroni, che nella pugna non restarono estinti, parte fuggendo scamparono la morte, e parte inseguiti da quei di Carlo furono fatti prigionieri: alcuni ne furono mandati prigioni in Provenza, ove gli fece morire d'aspra e crudel morte; alcuni altri Baroni tedeschi e pugliesi ritenne prigioni in diversi luoghi del Regno; ed a preghiere di Bartolommeo Pignatelli Arcivescovo di Cosenza, e poi di Messina, diede libertà a' Conti Gualvano, e Federico fratelli, ed a Corrado, ed a Marino Capece di Napoli cari fratelli.

Erano intanto scorsi tre giorni, e di Manfredi non s'avea novella alcuna, tanto che si credea avesse colla fuga scampata la morte; ma fatto far da Carlo esattissima diligenza nel campo tra' corpi morti fu finalmente a' 28 di febbraio giorno di domenica, ravvisato il suo cadavero; e condotto avanti il Re, lo fece Carlo osservare da Riccardo Conte di Caserta, e dal Conte Giordano Lancia, e da altri Baroni prigionieri de' quali alcuni timidamente rispondendo, quando fu esposto agli occhi di Giordano, questi tosto che lo riconobbe, dandosi colle mani al volto, e gridando altamente, e piangendo se gli gittò addosso baciandolo, e dicendo: Oimè, Signor mio, ch'è quel che io veggio! Signor buono, Signor savio, chi ti ha così crudelmente tolto di vita! Vaso di filosofia, ornamento della milizia, gloria de' Regi, perchè mi è negato un coltello, ch'io mi potessi uccidere per accompagnarti alla morte, come ti sono nelle miserie ; e così piangendo non se gli potea distaccare d'addosso, commendando que' Signori franzesi molto cotanta sua fedeltà ed amore verso il morto Principe. E richiesto Carlo da' Franzesi stessi impietositi del caso estremo, che lo facesse onorar almeno degli ultimi ufficj, con fargli dar sepoltura in luogo sacro, si oppose il Legato Appostolico, dicendo che ciò non conveniva, essendo morto in contumacia di Santa Chiesa; onde Carlo loro rispose, ch'egli lo farebbe molto volontieri, se non fosse morto scomunicato. Perlaqualcosa fu il suo cadavero seppellito in una fossa presso il Ponte di Benevento, ove ogni soldato (affinchè almeno in cotal guisa fosse noto a' posteri il luogo del suo sepolcro, e l'ossa non fossero sparse, ma ivi custodite) vi buttò una pietra, ergendovisi perciò in quel luogo un picciol monte di sassi.

Ma l'Arcivescovo di Cosenza fiero inimico di Manfredi, cui non bastò la morte per estinguere il suo implacabil odio, ad alta voce gridando cominciò a dire, che se bene non fosse stato Manfredi sepolto in luogo sacro, era però stato il suo cadavero posto presso a Benevento, in terreno ch'era della romana Chiesa; che dovea quel cane morto levarsi da quel luogo, e portarsi fuori del Regno, e le ossa buttarsi al vento; del di cui zelo cotanto si compiacque Papa Clemente, che furono l'ossa dissotterrate ed a lume spento furono trasportate in riva del fiume Verde, oggi appellato Marino , ed esposte alla pioggia, ed al vento, tanto che gli abitatori di que' luoghi non poteron mai di quelle trovar segno, o memoria alcuna. Dante come Ghibellino, avendo compatimento d'un così miserabil caso, finge Manfredi penitente, e lo ripone perciò non già nell'Inferno, ma nel Purgatorio, e così gli fa dire:

son Manfredi

Nipote di Costanza Imperatrice:

Ond'io ti priego, che quando tu riedi,

Vadi a mia bella figlia, genitrice

Dell'onor di Cicilia e d'Aragona,

E dichi a lei il ver, s'altro si dice.

Poscia ch'i' ebbi rotta la persona

Di due punte mortali, i' mi rendei,

Piangendo, a quei che volentier perdona.

Orribil furon li peccati miei:

Ma la bontà infinita ha sì gran braccia

Che prende ciò, che si rivolve a lei.

Se 'l Pastor di Cosenza, ch'alla caccia

Di me fu messo per Clemente allora,

Avesse in Dio ben letta questa faccia,

L'ossa del corpo mio sariéno ancora

In co del Ponte presso a Benevento

Sotto la guardia de la grave mora:

Or le bagna la pioggia, e move 'l vento

Di fuor dal Regno quasi lungo 'l Verde:

Ove le trasmutò a lume spento.

Per lor maladizion sì non si perde,

Che non possa tornar l'eterno amore,

Mentre che la speranza ha fior del verde.

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