CAPITOLO IV.

Re Carlo entrato nel Regno comincia a reggerlo con crudeltà e rigori; onde il suo governo è abborrito, e gli animi si rivoltano, ed invitano alla conquista Corradino.

Sparsasi intanto la fama della rotta dell'esercito di Manfredi, e la sua morte, non fuvvi città così dell'uno, come dell'altro Reame, che non alzasse le bandiere de' Franzesi.

(Le Lettere del Re Carlo scritte a Clemente, per le quali gli dà avviso di questa vittoria, sono rapportate, oltre il Summonte, da Lunig).

Tutti gridavano il nome di Carlo, e promettendosi nel nuovo dominio franchigia e dovizia grande, credevano dover vivere sotto i Franzesi non solo liberi da straordinarie tasse, ma d'essere ancora liberati dai pagamenti ordinari. Non era città, ove Carlo conducevasi, che non fosse ricevuto con segni d'estrema allegrezza, e giubilo. Tosto da Benevento parte, e viene in Napoli, e non ancor quivi giunto, che i Napoletani mandarono a presentargli le chiavi della loro città. Entrò in quella con la Regina Beatrice sua moglie, con gran pompa e fasto, accompagnato da tutti i Nobili della città, che 'l gridarono loro Re, e dall'Arcivescovo di Cosenza assistito, si portò nel Duomo di S. Restituta a render grazie al Signore di così segnalata vittoria. Creò da poi Principe di Salerno Carlo suo figliuol primogenito il quale uscito da Napoli cavalcò per tutto 'l Reame per affezionarsi i nuovi vassalli: e con non interrotto corso di felicità tutte le cose succedono ai loro desiderii. Le reliquie del rotto esercito erano ritirate in Lucera, dove anche erasi salvata la Reina Elena moglie di Manfredi con Manfredino suo picciolo figliuolo, ed una figliuola. Re Carlo tosto mandò ivi Filippo di Monforte con la maggior parte dell'esercito ad assediarla, ma difendendosi i Saraceni, ch'erano dentro, valorosamente, bisognò abbandonar l'impresa, lasciandola però strettamente assediata, la qual città insieme colla Regina e 'l figliuolo non si rese, se non dopo la rotta data a Corradino, come diremo.

I Siciliani ancora, intesa la morte di Manfredi, subito alzarono le bandiere Franzesi, ed i primi furono i Messinesi. Mandò perciò Re Carlo Filippo di Monforte in quell'isola, e non passò guari, che tutta la ridusse sotto l'ubbidienza di Carlo.

Ecco come in un tratto si rese Carlo Signore di ambedue questi Reami, con allegria e giubilo de' Popoli, che si credeano liberati dal giogo, come dicevano, del Re Manfredi e de' Saraceni, e di vivere sotto il Regno di Carlo franchi d'ogni pagamento, in una perpetua ricchezza, ed in una tranquilla e quieta pace.

Ma restarono tosto delusi, poichè i Franzesi scorrendo per tutti i luoghi, portavano co' loro transiti danni e ruine insopportabili agli abitatori. Ed il Re chiamando i Baroni dell'uno e l'altro Regno, che venissero a servirlo, impose ancora un pagamento straordinario alle terre del Regno contro la loro espettazione e lusinga, falsamente stimando, che non solo non s'avessero da veder più soldati, nè pagar pesi estraordinarj, ma d'essere ancora liberati dagli ordinarj. Ma il novello Re all'incontro badando unicamente ad arricchire per questi mezzi il suo Erario, chiamò a questo fine tutti i Tesorieri e Camerari del Regno, e volle da quelli essere minutamente informato de' proventi del Regno, degli Ufficj, delle giurisdizioni, e di tutte altre sue ragioni del Regno; e poichè era stato informato, che un di Barletta nomato Giezolino della Marra era di queste cose instruttissimo, e che per tal cagione da Manfredi era stato adoperato in simili affari, valendosi della di lui opera per le nuove imposizioni d'angarìe, taglie e contribuzioni; fecelo a se venire, il quale per applaudir all'avidità sua ed acquistarsi perciò merito presso il novello Principe, portogli non solo tutti i Registri, ove erano notati i proventi degli Ufficj, delle giurisdizioni, e delle altre ragioni regie; ma anche i registri, ov'erano rubricate tutte le estraordinarie imposizioni d'angarìe, parangarìe, collette, taglie, donativi, e contribuzioni, colle quali sovente erano stati oppressi i miseri Regnicoli. Furon tali le insinuazioni, ed i consigli di Giezolino, che Carlo per porgli più speditamente in opera levò tutti gli Ufficiali, che prima erano nelle province, e creò nuovi Giustizieri, Ammirati, Protonotari, Portolani, Doganieri, Fondachieri, Secreti, Mastri Giurati, Mastri Scolari, Baglivi, Giudici e Notari per tutto il Regno, a' quali prepose altri Ufficiali maggiori che sopra di loro invigilassero. Questi esercitando le loro commissioni con inudita acerbità e rigore, gravarono di peso insopportabile i Popoli, scorticandogli e cavando loro il sangue e le midolle.

Ecco ora mutati i giubili in continui lamenti, gemono sotto il grave giogo i Regnicoli, e tosto mutano volere, e desiderano già, e sospirano Manfredi. In ogni angolo si sentono lagrimevoli querele: O Rex Manfrede (con amaro pianto dicevano) temet non cognovimus, quem nunc et ter etiam deploramus. Te lupum credebamus rapacem inter oves pascuae huius Regni, secuti spem praesentis dominii, quod de mobilitatis, et inconstantiae more sub magnorum profusione gaudiorum anxie morabamur, agnum mansuetum te jam fuisse cognoscimus, dulcia tuae potestatis mandata sentimus, dum alterius, et majora gustamus. Conquerebamur frequentius nostram partem, partem in dominii tuae Majestatis adduci, nunc autem omnia bona, quod prius est, et personas alienigenarum convertere debemus in praedam .

I. Invito di Corradino in Italia; e mal successo della sua spedizione.

Da' lamenti si venne alle mormorazioni, e finalmente alla risoluzione di chiamar Corradino da Alemagna per discacciare i Franzesi. Molti Baroni così di questo Reame, come di quello di Sicilia, s'accingono all'impresa, e istigano ancora, oltre i fuggitivi ed i raminghi, tutti i Ghibellini di Lombardia, e di Toscana a far il medesimo, a' quali, per maggiormente stimolargli, espongono l'insopportabile dominio de Franzesi. Que' che sopra gli altri si distinsero in questa mossa, furono i Conti Gualvano, e Federico Lancia fratelli, e Corrado, e Marino Capeci: costoro si portarono in Alemagna a sollecitar Corradino unico rampollo di tutta la posterità di Federico. Mandarono ancora, per quest'istesso fine, molte città imperiali i loro Ambasciadori, i Pisani, i Sanesi, ed altri Ghibellini, e con le promesse ed esibizioni, portarono ancora molto denaro per agevolar la venuta.

Era Corradino giovanetto di quindici anni: perciò sua madre Elisabetta di Baviera troppo amandolo temea esporlo a tanti pericoli per una impresa reputata malagevole; ma Corradino spinto da generoso cuore ruppe ogni indugio, ed abbracciò l'invito, stimolato ancora dal Duca d'Austria ancor egli giovanetto, che s'offerse venir ancora in sua compagnia a riporlo nei paterni Regni; e Corrado Capece tosto da Alemagna ne diede avviso in Sicilia.

S'accinse intanto Corradino al viaggio, e nel principio dell'inverno di quest'anno 1267 partì da Alemagna conducendo seco il Duca d'Austria, ed un esercito di diecimila uomini a cavallo, e per la via di Trento nel mese di febbraio giunse a Verona; ove convocò tutti i Principi della parte Ghibellina, che l'aveano sollecitato a venire; e presa risoluzione, che dovessero passare per la via di Toscana, si mosse da Verona, ed inviando la maggior parte dell'esercito per la via di Lunigiana, egli col resto tolse la via di Genova, ed in pochi dì giunse a Savona, dove ritrovò l'armata de' Pisani, nella quale s'imbarcò ed andò a Pisa. I Pisani l'accolsero con molto onore ed amorevolezza, lo providero di denari, e gli mostrarono l'armata, che volevan mandare a sollevare le terre marittime d'ambedue i Reami.

Giunto per tanto Corradino a Pisa insieme con molti Principi d'Alemagna, e con Corrado Capece di Napoli, costui cercò a' Pisani che gli dessero navi per poter tragittare in Tunisi a sollecitare il soccorso de' Saraceni. Erano in Tunisi agli stipendj di quel Re,

Federico, ed Errico di Castiglia, i quali lividamente invidiando la grandezza e prosperità del Re di Castiglia lor fratello, si tirarono sopra l'indignazione del medesimo, onde cacciati di Spagna militavano in Tunisi sotto gli stipendj di quel Re. E per la continua conversazione, che tenevano co' Saraceni, eransi quasi dimenticati della religione cristiana, e ne' costumi poco differivano da' Saraceni medesimi. Federico era in Tunisi quando vi giunse Corrado, dal quale informato delle cose di Corradino, l'indusse a prendere la difesa, e proccurare presso quel Re valido soccorso. Ma Errico per la sua natural superbia ed ambizione, entrato in sospetto del Re di Tunisi, era passato a trovar Carlo in Italia, e poi con finzioni ed astuzie si mise a tentare nella Corte di Roma i suoi avanzamenti; per la qualità de' suoi natali fu ricevuto onorevolmente da que' Ministri, e pose in trattato la pretensione, che promovea del Regno di Sardegna. Giunto a Roma, colle sue arti e macchinazioni, seppe far tanto, che ancorchè non vi concorresse buona parte di que' Nobili romani, e de' Cardinali, si fece eleggere Senatore di quella città. Fu prima amico di Carlo, che gli era cugino, da cui sperava col favor suo qualche Stato in Italia: ma vedendolo troppo ingordo di Signorie, e che voleva ogni cosa per se, cominciò ad odiarlo e ad invidiar la sua grandezza e cercar opportunità di ruinarlo. Altamente ancora si dolea di lui, che avendolo soccorso di molti denari quando era in bassa fortuna e quando calò in Italia contro Manfredi, da poi salito in tanta grandezza e con tante dovizie, che con facilità potea restituirglieli, non volea in conto alcuno renderglieli. Avendo adunque avuta novella dell'invito fatto a Corradino in Italia, credette aver nelle mani opportuna occasione di vendicarsi di Carlo, ed insieme collegandosi con Corradino, si pose in isperanza d'ottener da lui quello che non avea potuto ottener da Carlo; mandò perciò più lettere e messi a Corradino, affinchè si sollecitasse a venire, perchè egli avrebbegli facilitata l'impresa, desiderando il suo arrivo più che tutti i Regnicoli, Roma e tutta l'Italia, e sperava con certezza discacciarne i Franzesi.

Intanto Corradino sollecitato per queste lettere d'Errico, era, come si è detto, calato in Pisa, e per maggiormente istigare i Popoli d'Italia, e del Reame di Puglia e di Sicilia, fece spargere da per tutto più esemplari di un suo Manifesto , ove querelandosi acerbamente di quattro romani Pontefici, e di due Re, Manfredi e Carlo, invita i suoi devoti a dar mano all'espulsione de' Franzesi da' suoi Reami di Puglia e di Sicilia.

Non si può credere che grandi movimenti fece in Sicilia, Puglia e Calabria questa Scrittura: tutti gridavano il nome di Corradino; ed a questi stimoli si aggiunse un fatto d'arme accaduto al Ponte a Valle vicino Arezzo; poichè proccurando Guglielmo Stendardo e Guglielmo di Biselve, Capitani di molta stima del Re Carlo, impedire il passaggio all'esercito di Corradino, furono rotti, ed appena Guglielmo Stendardo si salvò con 200 lance, ed il Biselve restò prigione con alcuni pochi Cavalieri franzesi, ch'erano rimasti vivi.

La novella di questa rotta sparsa dalla fama per tutto il Regno di Puglia e di Sicilia, ed ingrandita assai più del vero, trovando gli animi già disposti, sollevò quasi tutte le province; ed i Saraceni, ch'erano soliti sotto l'Imperador Federico, e Re Manfredi d'esser stipendiati, rispettati ed esaltati con dignità civili e militari, e non poteano soffrire di stare in tanto bassa fortuna sotto l'imperio del Re Carlo, preso vigore, fecero sollevar Lucera, la quale inalberò tosto le bandiere di Corradino. Seguirono il di lui esempio quasi tutte l'altre città di Puglia, di Terra d'Otranto, di Capitanata e di Basilicata, ed era veramente cosa da stupire, vedere tanta volubilità, e leggerezza in que' medesimi Popoli, i quali poc'anzi ardentemente desideravano la venuta di Carlo co' suoi Franzesi, ed ora averne cotanto abborrimento, invocando incessantemente il nome di Corradino; dal che, e da molti altri esempi passati, e da quelli che si leggeranno, ne nacque, così presso gli antichi Storici, che moderni, quell'opinione de' nostri Regnicoli, d'essere i più volubili ed incostanti, e che sovente, tosto infastiditi di un dominio, ne desiderano un nuovo. Taccia, la quale nemmeno Scipione Ammirato ne' suoi Ritratti, osò di negarla a' nostri Regnicoli; e della quale mal seppe difendergli Tommaso Costa in quella sua infelice Apologia del Regno di Napoli.

Re Carlo stupiva pure di tanta volubilità, non men de' Regnicoli, che della sua fortuna: e posto in gran pensiero, era tutto inteso di accrescere il suo esercito, per andare ad opporsi a Corredino, il quale a grandi giornate se ne calava a Roma, ove da Errico di Castiglia e da' Romani era aspettato, per entrare per la via d'Abruzzi nel Regno.

Intanto Papa Clemente ch'era a Viterbo, avendo inteso i progressi di Corradino in Italia ed i moti del Regno, per opporsi dal suo canto in ciò che poteva, non avea mancato, tosto che Corradino giunse in Verona ed in Pavia, di scrivere calde e premurose lettere a varie città d'Italia inculcando loro, che non aderissero a Corradino; ma scorgendo, che queste lettere producevan poco frutto, volle vedere se per un altro verso potesse spaventarlo.

(Oltre di queste lettere scrisse pure ne' precedenti mesi una terribile lettera all'Arcivescovo di Magonza perchè dichiarasse pubblicamente scomunicato Corradino, co' suoi, che affettava invadere il Regno di Sicilia, che si legge presso Lunig.).

Gli spedì per tanto in aprile di quest'istesso anno 1267 una terribile citazione, colla quale se gli prescriveva certo tempo a dover comparire avanti di lui, se avesse pretensione alcuna sopra i Reami di Puglia e di Sicilia, e che non cercasse di farsi egli stesso giustizia colle armi, ma proponesse sue ragioni avanti la Sede Appostolica, che glie la avrebbe renduta; altrimente non comparendo, avrebbe contro di lui proferita la sentenza. Corradino non comparve già, ma proseguì armato il suo cammino; ed egli nella Cattedral Chiesa di Viterbo a' 28 aprile alla presenza di tutto il Popolo pronunziò la sentenza. Da poi invitò Carlo a venir a Viterbo, dove s'abboccarono insieme, e lo fece Governadore di Toscana; e poichè l'Imperio d'Occidente vacava, lo creò egli Paciero, ovvero Vicario Generale dell'Imperio. All'incontro a' 29 giugno nella festa degli Appostoli Pietro e Paolo, con grande apparato e celebrità scomunicò pubblicamente Corradino, e lo dichiarò nemico e ribelle della romana Chiesa, e decaduto da tutte le sue pretensioni. Scrisse ancora a Fr. Guglielmo di Turingia Domenicano, che scomunicasse tutti coloro che non volessero prestar ubbidienza a Carlo; ed all'incontro ricolmasse di benedizioni ed indulgenze quelli, che per lui prendessero l'arme contro Corradino. E dopo tutto questo, essendosi reso certo, che erasi confederato con D. Errico di Castiglia, lo scomunica di nuovo la seconda volta. Ma Corradino poco curando di questi fulmini, non s'atterrisce, e fermo nel proponimento bada unicamente ad unir gente, e denaro per l'impresa.

Dall'altra parte Corrado Capece, e D. Federico fratello di Errico, ch'erano ancora a Tunisi, seguendo le buone disposizioni di quest'impresa, partirono da Tunisi con 200 Spagnuoli, ed altrettanti Tedeschi, e 400 Turchi, che teneva a' suoi stipendj quel Re, e si portarono in Sicilia. Corrado giunto a Schiacca, pubblicandosi Vicario di Corradino, sparge lettere per tutta quell'Isola, sollevando que' Popoli a ricevere il loro Re Corradino, che con numeroso esercito veniva. Le lettere erano dettate in questo tenore: Ecce Rex noster cito veniet in celebri, etc. e sono rapportate da Agostino Inveges. Le quali furono cotanto efficaci, che in brieve, avvalorate dal coraggio di Capece, quasi tutta la Sicilia alzò le bandiere di Corradino, tanto, che Fulcone Vicario in quell'Isola per Re Carlo restò sorpreso, e volendo colle armi frenar la sollevazione, furono le sue truppe rotte, ed egli obbligato colle sue genti a mettersi in fuga. E qui terminando l'Anonimo la sua Cronaca, si ricorrerà ora al Villani, ed agli Scrittori non meno diligenti che fedeli rapportatori de' successi di questi tempi.

Papa Clemente avendo nel nuovo anno 1298 intesa la rotta di Fulcone in Sicilia, bandì la Crociata, e scomunicò tutti coloro, che assalivano la Sicilia di qua e di là dal Faro. A Corradino mandò nuovamente suoi Legati, perchè tosto uscisse d'Italia. Questi non ubbidendo, lo priva del Regno di Gerusalemme, lo dichiara inabile all'Imperio e ad ogni altro Regno. Scomunica di nuovo tutti i Popoli, le città e tutte le terre, che 'l favorissero. Fulminò anche scomunica contro D. Errico, e lo priva della dignità Senatoria, conferendola al Re Carlo per dieci anni.

Ma Corradino, niente di ciò curandosi, prosiegue il suo viaggio, e giunto a Roma, fu ricevuto in Campidoglio dal Senatore Errico e da' Romani con gran pompa ed allegrezze a guisa d'Imperadore; ed ivi ragunata molta gente e denaro, unito con D. Errico e colle sue truppe, inteso ancora i moti delle città e Baroni del Regno, si partì da Roma a' 10 d'Agosto con D. Errico e i suoi Baroni, e con molti Romani, nè volle far la via di Campagna, sapendo che il passo di Cepperano era ben guardato, ma prese la via delle montagne tra Abruzzo e Campagna, conducendo il suo esercito per luoghi non guardati e freschi, abbondanti di carni e di strame, e d'acque fresche, che fu a' Tedeschi impazienti del caldo di grandissimo ristoro, e finalmente nel piano di Tagliacozzo collocò il suo esercito.

Il Re Carlo dall'altra parte, avendo ordinato a Ruggiero Sanseverino, che con buon numero di altri Baroni suoi partigiani tenessero a freno i sollevati; egli con tutte le sue forze cavalcò da Capua per andare ad opporsi a Corradino; ma accadde, che in quelli dì capitò in Napoli Alardo di S. Valtri, Barone nobilissimo Franzese, che veniva d'Asia, dove con somma sua gloria avea per venti anni continui militato contro Infedeli, ed ora già fatto vecchio ritornava in Francia per morire nella sua patria. Costui non ritrovando il Re in Napoli, andò a ritrovarlo a Capua, dove era coll'esercito: Re Carlo, quando il vide, si rallegrò molto, e subito disegnò di valersi della virtù di tal uomo e del suo consiglio, e lo pregò che volesse fermarsi ad ajutarlo in sì gran bisogno: e bench'egli si scusasse, che per la vecchiezza avea lasciato l'esercizio delle armi, e s'era ritirato ad una vita cristiana, e che non conveniva, che avendo spesa la gioventù in combattere con Infedeli, alla vecchiezza avesse da macchiarsi del sangue de' Cristiani: nulladimanco avendogli Carlo dato a sentire, che militando contro Corradino, pure militava contro gl'Infedeli, essendo ribelle del Papa, scomunicato, e fuori della Chiesa, oltre che il Re di Francia l'avrebbe sommamente gradito; tanto fece, fin che lo strinse a restare; e sentendo che Corradino era alloggiato nel piano di Tagliacozzo, volle che l'esercito di Carlo da lui guidato s'accampasse forse due miglia lontano da quello: da poi con pochi cavalli salito in un poggio, e considerato bene il campo de' nemici, s'avvide l'esercito suo esser di numero molto inferiore di quello di Corradino, e perciò dover sperarsi più nella prudenza ed astuzie militari, che nella forza; ed avendo appiattato il terzo squadrone dietro ad una valle, fece presentare la battaglia al nemico, il quale avidamente la ricevè, sdegnato dall'ardire dei Franzesi, che con tanto disvantaggio di numero venivano a far giornata. Si attaccò il fatto d'arme, ed ancor che i Franzesi con due soli squadroni valorosamente sostenessero l'impeto de' nemici, a lungo andare bisognò che cedessero, facendosi una strage crudele de' Franzesi. Re Carlo che con Alardo sopra il Poggio vedea la ruina de' suoi, ardeva di desiderio d'andare a soccorrergli, ma fu ritenuto da Alardo, e pregato che aspettasse il fine della vittoria, la quale avea da nascere dalla rotta de' suoi, siccome avvenne; poichè cominciando i Franzesi a gettar l'arme, a rendersi prigioni, e gli altri a fuggire, le genti di Corradino, credendosi aver avuta intera vittoria, si dispersero, parte si misero ad inseguire i fuggitivi, altri attendevano a spogliare i Franzesi morti ed a seguitare i cavalli degli uccisi, ed altri a menare i prigioni. Allora Alardo volto al Re Carlo, disse: Andiamo, Sire, che la vittoria è nostra; e discendendo al piano con lo terzo squadrone, che era rimaso nella Valle, diedero con grand'impeto sopra l'esercito nemico in varie parti diviso, ed agevolmente lo posero in rotta, e spinti innanzi, trovarono, che Corradino e 'l Duca d'Austria, e la maggior parte de' Signori ch'erano con lui, certi della vittoria, s'aveano levati gli elmi, e stavano oppressi dalla stanchezza e dal caldo; e non avendo nè tempo, nè vigore da riarmarsi, si diedero a fuggire, e nella fuga ne fu gran parte uccisa.

Corradino ed il Duca d'Austria, col Conte Gualvano ed il Conte Girardo da Pisa pigliaron la via della marina di Roma, con intenzione d'imbarcarsi là, ed andare a Pisa; e camminando di giorno e di notte, vestiti in abito di contadini, arrivarono in Astura, terra in quel tempo de' Frangipani nobili Romani: dove con acerbo lor destino a caso scoverti, furono da uno di que' Signori fatti prigioni, e di là a poco condotti e consignati a Re Carlo, che gli mandò prigioni in Napoli, e gradì questo dono, come preziosissimo, donando a quel Signore la Pelosa ed alcune altre castella in Valle Beneventana, e volle, che si fermasse in Napoli: da cui discesero i Frangipani che goderono gli onori lungamente del Seggio di Portanova di Napoli.

D. Errico di Castiglia, mentre fuggiva, fu incontrato dalle genti di Carlo, i quali ruppero le sue truppe, e ne fecero molti prigioni; ed egli si salvò fuggendo per beneficio della notte. Alcuni narrano, che si ricovrò in Monte Cassino, ove da quell'Abate, che credette farsi un gran merito col Papa, fu fatto prigione, e fattosi assicurare di risparmiargli la vita, lo mandò in dono a Papa Clemente, il quale tosto l'inviò al Re Carlo, che insieme con gli altri lo fece condurre prigioniero in Napoli. Altri dicono, che fuggì verso Rieti, e che pure un Abate d'un altro monastero, dove capitò, fattolo prigione, lo mandò al Papa.

Soli scamparono dall'ira del Re, Corrado Capece, e Federico fratello d'Errico; i quali trovandosi in Sicilia ebbero modo d'imbarcarsi sopra alcune galee dei Pisani, ed a Pisa ne andarono.

In memoria di questa rimarchevole vittoria, per cui, se diam fede al Fazzello, fu sparso il sangue di dodicimila Tedeschi, fece Re Carlo edificare una Badia per li Monaci di S. Benedetto, nel luogo ove seguì la battaglia col titolo di S. Maria della Vittoria, dotandola di molte possessioni. Ma per le guerre seguenti fu disfatta e disabitata: ed oggi il Papa conferisce il titolo di quella Commenda, la quale è delle buone del Regno per li frutti delle possessioni, che ancora ritiene.

Non si possono esprimere le crudeli stragi, che fece Carlo de' ribelli e de' presi in battaglia dopo questa vittoria. Alcuni fece impiccar per la gola, altri furono fatti morire col ferro, e moltissimi condennati a perpetuo carcere. Le città delle nostre province, che alla venuta di Corradino ribellaronsi, furono da' Franzesi manomesse, portando da per tutto desolazioni, ruine ed incendi. Aversa fu disfatta, Potenza, Corneto, e quasi tutti i castelli di Puglia e di Basilicata furono crudelmente distrutti.

Nè minori furono le stragi nell'Isola di Sicilia. A Corrado d'Antiochia, ed a molti Signori del partito di Corradino furono prima cavati gli occhi, e poi fatti barbaramente impiccare. Ridusse i Siciliani in una quasi schiavitudine, gravandogli di nuovi tributi; ed i Franzesi insolenti non perdonavano nè all'onore, nè alle robbe degli abitatori, onde nacque il principio del famoso Vespro Siciliano; poichè i Siciliani per uscire da tanta servitù diedero poi mano alla cotanto celebre congiura di Giovanni di Procida, della quale parleremo più innanzi.

Debellò ancora i Saraceni, che s'erano fortificati in Lucera, ed avendo ridotta quella città sotto la sua ubbidienza, fece ivi prigioneri Manfredino, e sua madre Elena degli Angioli seconda moglie di Manfredi, che condotti in carcere nel castel dell'Uovo di Napoli, furono per opera del Re Carlo fatti ivi morire.

Scipione Ammirato ne' suoi Ritratti rapporta, che i figliuoli di Manfredi fossero stati tre, e che i lor nomi fossero Errico, Federico e d'Ansellino, a' quali infino a' tempi del Re Carlo II, essendo tenuti incarcerati nel castello di Santa Maria al Monte, si davano tre tarì d'oro per ciascun giorno. Ma altri, fra' quali è Inveges , rifiutano ciò, che scrive quest'Autore; poichè i due figliuoli di Manfredi, ch'ebbe della prima sua moglie Beatrice di Savoja, premorirono al padre, e sol Manfredino figliuolo della seconda fu fatto prigione con la madre, che furono da Carlo I fatti morire in prigione.

§. II. Infelice morte del Re Corradino, in cui s'estinse il legnaggio de' Svevi.

Avendo con tali mezzi di crudeltà Carlo recati questi Regni sotto la sua ubbidienza, ed usando rigore estremo, avendo ridotti i suoi sudditi in istato di non poterlo più offendere, gli rimaneva solo di deliberare ciò, che dovesse farsi di Corradino, del Duca d'Austria, e degli altri Signori prigionieri. Ne volle prima il Re sentirne il parere del Papa, con cui soleva consultare delle cose più ardue e gravi del Regno. Scrivono Errico Gualdelfier, il Villani, Fazzello, Collenuccio, ed altri, che Clemente alla domanda rispondesse queste brevi parole; Vita Corradini, mors Caroli: Mors Corradini, vita Caroli. Lo niegano il Costanzo, il Summonte e Rinaldo; ed il Summonte s'appoggia ad una ragion falsissima, dicendo, che ciò non poteva avvenire, trovandosi già dieci mesi prima morto Clemente, quando Corradino fu fatto decapitare: nientedimeno ciò non ripugna al testimonio di quegli Scrittori, i quali dicono, che Carlo richiedesse il Pontefice del suo parere, che gli fu dato; ma che poco da poi prevenuto dalla morte non potè vedere l'esecuzione del suo crudel consiglio. Il Costanzo avendo quel Papa per uomo di santissima vita, e perchè lo scrive il Collenuccio suo antagonista, non potè persuadersi a crederlo. Ma in ciò dee pur darsi tutta la fede al Villani, il quale con tutto che Guelfo, e capital nemico de' Svevi, difendendo il Papa, non ardisce di negarlo.

Papa Clemente non potè vedere l'esecuzione di sì fiero consiglio, poichè a' 29 di novembre di quest'anno 1268 o pure com'altri scrissero a' 30 dicembre trapassò; e per le continue fazioni contrarie de' Cardinali, che per la potenza di Carlo non potevano deliberarsi ad eleggere un successore di loro arbitrio e volontà, vacò la sede quasi tre anni, cioè infino all'anno 1271 siccome scrive il Gordonio.

Re Carlo, morto il Pontefice, nel nuovo anno 1269 essendo per la sua natural fierezza e crudeltà stimolato a prender di quell'infelice Principe le più crudeli risoluzioni: per dar altra apparenza e più speziosa a questo fatto, volle che si prendesse su ciò pubblica deliberazione; e fatti convocare in Napoli tutti i maggiori Baroni di quello, e quelli Signori franzesi che erano con lui ragunò un consiglio affinchè deliberasse ciò che dovesse farsi di Corradino. I principali Baroni franzesi erano in discordia; poichè il Conte di Fiandra genero del Re e molti altri Signori più grandi e di magnanimo cuore, e che non tenevano intenzione di fermarsi nel Regno, furono di parere, che Corradino e 'l Duca d'Austria si tenessero per qualch'anno carcerati, finchè fosse tanto ben radicato e fermato l'imperio di Carlo, che non potesse temer di loro. Ma quelli, che aveano avuto rimunerazione dal Re, e desideravano assicurarsi negli Stati loro (il che non parea, che potesse essere, vivendo Corradino) erano di parere, che dovesse morire. Altri, a cui era nota l'inclinazione del Re, per andar a seconda del suo desiderio s'unirono co' secondi. A questa opinione s'accostò il Re, o fosse per sua natura crudele, o per la grandissima ambizione e gran desiderio di Signoria, che lo faceva pensare agli Stati di Grecia, a' quali non poteva por mano senz'esser ben sicuro di non aver fastidio ne' Regni suoi, massime per le rivoluzioni, ch'avea veduto per la venuta di Corradino; onde dubitava, che i medesimi Saraceni, ch'erano rimasti nel Regno, ajutati da' Saraceni di Barberia, essendo egli lontano, non si movessero a liberarlo; fu conchiuso in fine, che se gli dasse morte.

A questo fine, fu imposto, che gli si fabbricasse il processo sopra queste accuse: di perturbatore della pubblica quiete, e dei precetti de' sommi Pontefici: di tradimento contro la Corona: d'aver ardito d'invadere ed usurpare il Regno con falso titolo di Re, e d'aver tentato anche la morte del Re Carlo. Fu il processo fabbricato e compito innanzi a Roberto da Bari, ch'era Protonotario del Re Carlo; il quale proferì la sentenza di morte, e quella lesse in pubblico, appoggiandola sopra le riferite accuse.

(Di questo Roberto e della poca sua letteratura, ne fa anche menzione Errico d'Isernia in quella lettera scritta a Fr. Bonaventura, che si legge nel Codice MS. della Biblioteca Cesarea di Vienna, N. 170 pag. 82 dove fra l'altre cose gli dice: Novimus etiam, si ad moderna tempora stilum retrahimus, quod Papa Clemens Robertum de Baro non magnae Literaturae hominem, imo tantum ex usu aliquid cognoscentem, apud Regem promovit Carolum.)

Fu da questa sentenza di morte sol eccettuato D. Errico di Castiglia, che fu condennato a perpetuo carcere in Provenza, per osservarsi la fede data all'Abate, che lo consignò al Papa sotto parola, che di lui non si spargesse sangue.

Fu a' 26 ottobre di quest'anno 1269 in mezzo del Mercato di Napoli con apparati lugubri e funesti, essendosi apprestato il talamo e l'altre pompe di morte, mandata in esecuzione sì barbara e scellerata sentenza; e narrasi che l'infelice Corradino quando l'intese leggere dal Protonotario, voltatosi a lui, gli avesse detto queste parole: Serve nequam tu reum fecisti filium Regis et nescis quod par in parem non habet imperium: poi rivolto al Popolo purgossi de' delitti, che falsamente se gl'imputavano, dicendo, ch'egli non ebbe mai talento d'offendere S. Chiesa, ma solo di acquistare il Regno a lui dovuto per chiare e manifeste ragioni, e del quale a torto n'era stato spogliato. Ch'egli sperava, che di sì inaudite e barbare violenze, ne dovessero prender vendetta i Duchi di Baviera della stirpe di sua madre, e che i Tedeschi, ancora non lasceranno invendicata la barbara sua morte. E dette queste parole, trattosi un guanto, come vuole il Collenuccio, e come altri un anello, lo buttò verso il Popolo, quasi in segno d'investitura. E vi è chi scrive, che per tal atto avesse voluto lasciar suo erede D. Federico di Castiglia figliuolo di sua zia, che, come s'è detto, erasi da Sicilia fuggendo, ricovrato a Pisa. Ma il Maurolico ed altri comunemente affermano, che Corradino con questo segno, morendo senza figliuoli, istituì erede D. Pietro d'Aragona marito di Costanza sua sorella cugina. E narra Pio II che questo guanto o anello fu raccolto da Errico Dapifero, da cui fu portato in Ispagna al Re Pietro. Ond'è che i Re aragonesi e gli austriaci prendono la lor ragione per la successione de' Regni di Sicilia e di Puglia, non già dagli Angioini, ma da questo Corradino, il quale tramandogli a' Re di Sicilia discendenti da Pietro e da Costanza figliuola di Manfredi, siccome, dopo Aventino, scrissero Besoldo, il Summonte ed altri. E gli Scrittori siciliani, che riguardando il testamento dell'Imperador Federico, dove Manfredi è trattato come suo figliuol legittimo, invitandolo alla successione de' suoi Regni nel caso che Corrado ed Errico mancassero senza figliuoli, riputano per vero, ciò che Matteo Paris narra, come una voce fatta insorgere da Manfredi stesso, cioè, che sua madre essendo vicina a morte, fattosi chiamar l'Imperadore, avesselo per le calde preghiere e sue pietose lagrime, indotto per quelle poche ore di vita, che le rimanevano a riconoscerla per vera moglie, con isposarla; ed in conseguenza, che per cotal atto Manfredi si venne a legittimare: tengono per cosa certa, che la successione di questi Reami per la morte di Corradino si fosse diferita a Costanza figliuola di Manfredi e moglie del Re Pietro, ed a' suoi discendenti; e che a ragione gli Arragonesi ne cacciarono i Franzesi, e con giustizia se ne rendesser poi Signori.

Ma perchè più dura e acerba fosse l'angoscia dell'infelice Corradino, non fu il primo ad essergli mozzo il capo, ma vollero riserbarlo al fiero spettacolo della decapitazione di Federico Duca d'Austria; poichè il primo ad esser decapitato fu quest'infelice, il cui capo mozzo dal carnefice prese in mano il dolente Corradino, e dopo averlo bagnato d'amare lagrime, baciollo e se lo strinse al petto, piangendo la sua sventurata sorte, ed incolpando se stesso ch'era stato cagione di sì crudel morte, togliendolo alla sua infelice madre. Poi rincrescendogli di sopravvivere a tanti acerbi spettacoli, postosi inginocchione chiedendo perdono a Dio de' suoi falli, diede segno al carnefice di dover eseguire il suo ufficio, il quale in un tratto gli recise il regal capo. E dopo lui, furon decapitati il Conte Girardo da Pisa, ed Hurnasio Cavalier tedesco, e nove altri Baroni regnicoli furono fatti morire su le forche.

(Questo Federico ultimo dell'antica stirpe Austriaca era della casa di Baden, e s'intitolava Duca d'Austria, com'erede di Federico II il Bellicoso. E' nacque da Gertrude figliuola d'Errico III ch'era fratello del Bellicoso, la quale si maritò con Ermando di Baden, come narra Gerardo a Roo : Cum Fridericus Austriae Ducum ex Babenbergensi gente ultimus Anno post mille ducentos sexto et quadragesimo ex vulnere in pugna cum Hungaris commissa accepto, obiisset, Hermanus Badensis, qui Gertrudim illius ex fratre Henrico Medlicense neptem in matrimonio habebat, Austriae gubernationem adierat. Ejus filius Fridericus annos tutelae vix egressus, Neapoli cum Cunradino Apuliae et Siciliae Rege, uti paulo post dicetur, capite plexus erat. Vedasi Struvio ).

Questo infelice fine, compianto da quanti videro sì funesto ed orrido spettacolo, ebbe il giovanetto Corradino in età di 17 anni. In lui s'estinse la chiara e nobilissima casa di Svevia, che per linea non men mascolina che femminina discendea da' Clodovei e dai Carolingi di Francia, e da' Duchi di Baviera. Famiglia, che sopra tutte le altre d'Europa contava più Imperadori, Re, Principi e Duchi, e che sopra tutte le famiglie di Germania teneva il vanto di nobiltà. In questo sangue incrudelì Re Carlo, portandogli cotal barbaro fatto eterna infamia presso tutte le Nazioni d'Europa; nè vi è Scrittore, ancor che franzese, che non detesti ed abbomini atto sì crudele, da non paragonarsi a quante empietà e scelleraggini si leggono de' più fieri Tiranni, ch'ebbe la terra. Quindi in Alemagna surse l'illustre Casa d'Austria; poich'estinta la stirpe de' Principi di Svevia, e Riccardo, fratello del Re d'Inghilterra, che aspirava all'Imperio, essendo morto, ed Alfonso Re di Castiglia suo competitore non avendo più partigiani in Alemagna, gli Elettori l'anno 1273 si ragunarono in Francfort, ed elessero per Imperadore Rodolfo Conte di Auspurg, il quale fu coronato l'istesso anno in Aquisgrana, e riconosciuto da' Principi d'Alemagna; ed avendo umiliato Ottogaro Re di Boemia, fece che restituisse l'Austria, la qual diede ad Alberto suo primogenito, i di cui discendenti presero il nome di Austriaci.

Ecco finalmente come dopo 69 anni terminò in Sicilia, ed in Puglia il Regno de' Svevi e con qual crudel principio cominciasse quello de' Franzesi, che portò in queste nostre province grandi mutazioni, così nello stato civile e temporale, come nello ecclesiastico e spirituale. Ciò, che dopo aver narrata la politia ecclesiastica di questi tempi, sarà il soggetto de' seguenti libri di quest'Istoria.

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