CAPITOLO V.

Napoli amplificata da Carlo II e resa più magnifica per edificii, per lustro della sua Casa regale, e per altre opere di pietà illustri e memorabili, adoperate da lui non meno quivi, che nell'altre città del Regno.

Inchinando questo Principe più agli studj di pace che a quelli della guerra, ed avendo così egli, come suo padre fermata la sede regia in Napoli, ed in conseguenza resala più numerosa di gente volle amplificarla; e fatti levare molti giardini, che avea intorno, fece in quelli far edificii, e allargando il recinto delle mura della città, fece più oltre trasferire le Porte, onde que' luoghi, che erano fuori, furono rinchiusi dentro: di che la città ricevè non picciola ampliazione; e per invitare altri ad abitarvi, fece franca la città d'ogni pagamento fiscale. Ordinò ancora a petizione della medesima, la gabella detta, del buon denaro, che fu molto grata a' cittadini servendo per riparazione delle strade, e per altri beneficii pubblici, come si vede ne' Capitoli del Regno sotto l'anno 1306. Perchè in essa il traffico ed il commercio fosse più sicuro e frequentato, per sicurezza delle navi fece edificare il Molo, che ora per l'altro più grande fatto a' tempi de' Re austriaci, appelliamo il Molo piccolo. Alcuni anche scrissero, che facesse egli edificare il castel di S. Eramo, chiamato così da una picciola Chiesetta, che prima era sopra quel Monte dedicata a questo Santo, ancorchè il Collenuccio, ed altri vogliano, che quella fabbrica fosse stata opera di Roberto suo figliuolo. Stabiliti in questa città quei due grandi e supremi Tribunali della G. Corte, e l'altro del Vicario, per maggior comodità de' Giudici e de' litiganti fece fabbricare appresso il Castel Nuovo con grandissima spesa un Palazzo, nel qual doveano quelli reggersi, siccome tutti gli altri Tribunali di giustizia; li quali da poi essendo stato dalla Regina Giovanna I quel palazzo converso in tempio ad onore della Corona di Cristo, furono trasferiti nel tenimento della Piazza di Nido nell'Ospizio del Comune di Venezia, siccome il Tutini raccoglie da uno istromento stipulato nell'anno 1431 ove si leggono queste parole: In quo Hospitio M. C. Magistri Justitiarii Regni regebatur et regitur ad praesens. Indi si portarono nella strada di S. Giorgio Maggiore in un palazzo attaccato al campanile di quella Chiesa, il qual fin oggi ritiene il nome di Vicaria vecchia; insino che ne' tempi di D. Pietro di Toledo nell'anno 1540 non si fossero tutti ridotti nel Castel capuano, ove oggi per l'infinito numero de' litiganti, Giudici ed Avvocati s'ammira per una delle cose più stupende, non pur d'Italia, ma di tutta Europa.

Non mancò ancora, per render questa città vie più magnifica di ciò che avea fatto suo padre, di ampliare i privilegi all'Università degli studj, e per maggiormente illustrarla, di chiamare a quella i più rinomati Professori d'Italia, invitandogli con grossi stipendii. Così nell'anno 1296 fece venire da Bologna Dino de Muscellis celebre Giureconsulto con salario di cento once d'oro l'anno. Richiamò ancora da Bologna Giacomo di Belviso, dandogli l'istessa provisione, che suo padre gli avea stabilita di 50 once d'oro l'anno. Nel 1302 con grosso stipendio fece venire ad insegnare in quest'Università il Jus Canonico Maestro Benvenuto di Milo Canonico di Benevento, e celebre Canonista di que' tempi, che fu Maestro del famoso Biase di Morcone. V'invitò ancora nell'anno 1308 Filippo d'Isernia famoso Legista a leggervi il Jus Civile. E poichè in que' tempi praticavasi il lodevol istituto, osservato oggi in Ispagna, che i Professori dalle cattedre passavano alle toghe ed alle mitre, si vide da poi il Canonista Milo fatto Vescovo di Caserta: e Filippo d'Isernia Consigliere del Re, ed a' tempi del Re Roberto Avvocato Fiscale. Richiamò ancora a leggervi Medicina Filippo di Castrocoeli, con accrescergli il salario, che suo padre gli avea prima assignato d'once 12 insino ad once 36 d'oro l'anno. Furonvi ancora chiamati a leggervi logica, Accorsino da Cremona, celebre in que' tempi per le arti liberali, ed altri insigni Professori per l'altre Scienze. E perchè ritenesse quello splendore e lustro, che Federico II aveale dato, rinovò la proibizione fatta dal medesimo a' Professori di non potere sotto pena di 50 once d'oro leggere in privato, o in altro luogo, eccetto solo in quella Università pubblicamente: di che nei regali registri de' suoi tempi se ne leggono molti divieti. Per la qual cosa avendo presentito, che in Solmona alcuni s'erano dati a leggere Jus Canonico, fu da questo Principe ad istanza de' Lettori napoletani spedito rigoroso ordine, che subito se n'astenessero, spettando ciò solo all'Università degli studj di Napoli.

Rese anche adorna non meno questa città, che il Regno, per le magnifiche chiese ed ampi monasterii, che parte vi costrusse di nuovo, e parte ampliò. Oltre d'aver ridotto a perfezione, ed in più ampia forma l'Arcivescovado di Napoli e la Chiesa di S. Lorenzo, a cui unì un ben grande Convento di Frati Conventuali di S. Francesco; opere incominciate da suo padre ma non già ridotte a fine; fondò egli di nuovo la Chiesa ed il convento di S. Pietro Martire de' PP. di S. Domenico. L'altra ch'egli nominò della Maddalena, ancorchè ritenesse il nome di S. Domenico per li Frati di quell'ordine, e per essere consecrata a quel Santo. Quella di S. Agostino , e l'altra di S. Martino sopra il monte S. Eramo: se bene di quest'ultima i più accurati Scrittori ne facciano autore Carlo Duca di Calabria suo nipote.

In Aversa edificò a' Frati di S. Domenico la chiesa e convento sotto il titolo di S. Luigi Re di Francia suo zio, dotandola di ricchissime rendite. Ma ove più rilusse la pietà insieme e la magnificenza di questo Principe fu in quelle tre celebri Chiese del Regno, cioè in quella di S. Niccolò in Bari, nell'altra di Santa Maria in Lucera, e in quella già prima fondata dall'Imperador Federico II in Altamura; nelle quali è da notare, che i Pontefici romani furono cotanto profusi in concedere non meno a' nostri Re angioini, che a lor riguardo a queste Chiese tanti privilegi e prerogative, che quasi scambievolmente comunicandosi il lor potere, siccome i Re erano profusi in donare a quelle beni temporali, così essi gli cumulavano di preminenze e favori spirituali.

§ I. Della Chiesa di S. Niccolò di Bari.

La regal chiesa di S. Niccolò di Bari, siccome fu narrato ne' precedenti libri di quest'istoria, ebbe il suo principio nell'anno 1087 nel quale alcuni mercatanti baresi da Mira città della Licia trasportarono nella lor Patria il Sacro Deposito. Urbano II nella fine di settembre del 1089 accompagnato da gran numero di Cardinali e di Vescovi, li quali insieme con lui erano intervenuti nel Concilio ragunato in Melfi, dedicò solennemente l'altare maggiore della chiesa inferiore, ove ripose le sacrosante Reliquie, conforme egli medesimo ne fa piena testimonianza in una sua Bolla spedita in Bari a' 9 ottobre 1089 secondo anno del suo Pontificato, riferita dal Baronio e dall'Ughello.

Fin dal tempo della sua fondazione, fu quella chiesa edificata nel palazzo antico de' Capitani, li quali mentre governarono la Puglia in nome degl'Imperadori d'Oriente, fecero in esso la loro residenza: tolta poi da' Normanni la Puglia a' Greci, passò in potere di Roberto Guiscardo primo Duca di Puglia, ed appresso, di Ruggiero suo figliuolo, la qual Chiesa fu libera ed esente fin dal suo principio della giurisdizione dell'Ordinario, del che fanno bastantissima fede il privilegio concedutole da Alessandro Conte di Cupertino e di Catanzaro per ordine di Ruggiero Re di Sicilia, che si legge presso Ughello medesimo, la celebre Bolla di Pascale II indirizzata ad Eustachio II Abate, che succedè al primo cotanto rinomato Elia, ottenuta per intercession di Boemondo Principe d'Antiochia e Signore di Bari fratello di Ruggiero nell'anno 1106, e le Bolle di Bonifacio VIII dell'anno 1296, di Clemente V, Paolo III, Pio V ed altri romani Pontefici.

Il Re Carlo II d'Angiò fatto prigione colla disfatta del suo armamento navale, fu, come si disse nel precedente libro, in grave pericolo d'essere decapitato; ma avendo scampata la morte, e liberato poi dalla sua prigionia, memore di così insigni beneficj, ch'egli credette per intercessione di questo Santo, di cui era divotissimo, aver ricevuti, rivolse l'animo ad accrescere il culto e la divozione, che gli portava, con arricchire la sua Chiesa d'amplissime rendite, facendole varie donazioni, con riserbarsi solo il poter godere delle distribuzioni, come Canonico di quella, sedendo nel Coro, come tutti gli altri. Per mezzo del Priore Guglielmo Longo Bergamasco, il quale fu creato Cardinal Diacono di San Niccolò in Carcere, nel 1294 ottenne da Bonifacio VIII ampi privilegi, esenzioni ed immunità. Vi destinò al suo servizio cento Cherici tra Canonici ed altre dignità, oltre il Priore, e la dichiarò sua cappella regia.

Impetrò dallo stesso Bonifacio VIII nell'anno 1296 Bolla, con cui gli diede facoltà di poter unire alla regal basilica le chiese e cappelle di sua collazione, che li paresse aggregarle, le quali, come quelle, a cui si sarebbero congiunte pleno jure, a lui appartenessero; e furono aggregati a quella la Badia e monastero di tutti i Santi.

Assegnò nell'anno 1298 per dote perpetua della chiesa trecento once d'oro per ciascun anno da esigersi sopra la dogana e fondaco dell'istessa città di Bari, alla qual somma, tre anni appresso, aggiunse altre once cento, con che di queste, ottanta se ne dassero al Priore, venti al Tesoriere, e le restanti trecento, si distribuissero fra' Preti e Ministri della chiesa; in iscambio delle quali, perchè molte volte dagli Ufficiali del Regno se ne differiva il pagamento, concedè alla chiesa tre castelli a lui devoluti, cioè Rutigliano, S. Nicandro e Grumo, de' quali n'investì il Tesoriere di quel tempo, e gli altri, che fossero eletti ne' tempi futuri.

Nel mese d'ottobre del medesimo anno 1298 in virtù della potestà datali da Bonifacio incorporò l'Arcipretura d'Altamura con tutte le sue chiese, cappelle, ragioni e pertinenze alla dignità di Tesoriere, il che confermò con altro Privilegio de' 2 dicembre del 1301 col quale anche unì le chiese della Trinità di Lecce e di S. Paolo d'Alessano all'Ufficio di Cantore; e la chiesa di S. Maria di Casarano a quello di Succantore.

A' 18 gennajo del 1302 istituì nel sagro Tempio quattordici Ministri, de' quali otto avessero pensiero ne' dì festivi d'assistere in guardia delle porte del Coro con una mazza regale d'argento in mano, donde presero il nome di Mazzieri, e sei per li Ministri più bassi, come per rappezzar le fabbriche, racconciar gli scanni, e cose simili, chiamati perciò Maestri di Fabbrica, a' quali diede l'esenzione del pagamento delle gabelle, e del Foro secolare nelle cause civili, sottoponendoli alla giurisdizione del Tesoriere, appellandosi da' decreti della di lui Corte a quella del Cappellano Maggiore, le quali esenzioni ed immunità, furono confirmate da Roberto nel 1340 e da Ladislao nel 1403, e gli altri Re successori, al suo esempio, di moltissime altre concessioni e preminenze arricchirono questa chiesa.

Dotata ch'ebbe in tal modo la regal Chiesa, v'introdusse una nuova forma di servizio a similitudine di quello usitato nella regal cappella di Parigi, ad esempio della quale volle ancora, che in quanto alla recitazione de' divini Uffici, si valessero i suoi Ministri dell'antico Breviario parigino; il che fu poi tolto all'ultimo di dicembre del 1603 con lettere di Filippo III, colle quali permise, che, quello tralasciato, nell'avvenire potessero servirsi del Breviario romano, detto volgarmente di Pio V.

Dispose per mezzo di un suo privilegio spedito a' 20 giugno del 1304 che oltre il Priore fossero in questa chiesa tre dignità, cioè quella del Tesoriere, che costituì la prima e la più riguardevole, e due altre, cioè di Cantore e Succantore e cento Preti beneficiati, quarantadue Canonici, fra' quali le dignità furono annoverate, ventotto Cherici mediocri e trenta bassi, siccome s'appellano nel privilegio, con molti particolari regolamenti attinenti al Priore ed al Tesoriere.

Dopo avere il Re Carlo II costituito in questa chiesa le dignità, il numero de' Canonici, ed altri Cherici inferiori, assignate le rendite, ed ordinato tutto ciò, che stimossi da lui espediente per buon reggimento e regolamento della medesima; riserbò per se, e suoi Serenissimi Successori nel Regno la dignità di Tesoriere colla prebenda a quello annessa, in modo che ritrovandosi in Bari, interveniva egli nel Coro come Tesoriere, sedendo nella seggia costrutta all'incontro di quella del Priore, in cui sono intagliate l'armi regie, e vi sta scritto con lettere d'oro, Sedes Regalis, coll'effigie di questo piissimo Principe, sotto il quale, scolpito in abito di Tesoriere, leggesi l'iscrizione: perpetuo monumento d'aver per se e suoi successori ritenuta la prima canonica dignità, ch'è quella di Tesoriere.

Avea ciò il Re Carlo appreso da' Franzesi, e massimamente da' suoi Angioini; e conforme nella recitazione dell'Ufficio, e nell'altre cose concernenti il culto di della Chiesa, così in questa volle imitare l'usanza della Francia; poichè si legge presso Eginardo che Carlo M. si dilettava ancor egli di cantare con gli altri nel Coro: e nella Cronaca d'Inghilterra lo stesso si legge di Fulcone III, cognominato il buono Conte d'Angiò, il quale nell'anno 960 fu ammesso nella Chiesa di S. Martino come Canonico, e spesse volte nella recitazione dell'ore canoniche con vesti canonicali intervenne. Parimente Ingelgero Console, ovvero Conte d'Angiò (poichè dell'uno e dell'altro titolo allora promiscuamente valevansi) dopo aver ottenuta nella Chiesa di S. Martino in Tours una prebenda perpetua, essendo vacata la dignità di Tesoriero, fu dichiarato tale, difensore della chiesa, e tutore delle sue possessioni; e mentre visse occupò la

sede di Tesoriere, nella qual dignità, a' Conti e Duchi d'Angiò succederono i Re di Francia, e quel Canonicato laico conseguirono.

Da' precedenti libri di questa Istoria ciascuno avrà potuto notare, che molte usanze di Francia furono da' nostri Re fra noi introdotte, cominciandosi sin dai Normanni, e moltissime poi ve ne furon portate dai Re angioini; onde non dee recar maraviglia se alcune nel nostro Regno oggi ancor durino totalmente difformi da quelle di tutto il resto d'Italia. In Francia il Tesoriere della regal cappella di Parigi, secondo ne rende testimonianza Coppino, oltre d'esercitar giurisdizione sopra i Canonici di quella, conserva egli i vasi sacri e gli ornamenti, ed anche tutti gl'istrumenti, privilegi e concessioni riguardanti a' Feudi, ed altre robe donate a quella Chiesa. Parimente il Tesoriere di Bari ha egli il pensiero e la custodia di tutto ciò; e come questa città fu lungamente governata da' Greci, si ritengono insieme ancora molti usi grecanici, e nel Tesoriere istesso di questa Chiesa si veggono ancora uniti gli uffici di Cartolario e di Cartofilace; poichè siccome in Oriente due erano i Cartofilaci, uno conservava le carte e monumenti della chiesa, e presiedeva all'Archivio; l'altro alle rendite della chiesa, e teneva conto delle spese; così in Bari il Tesoriere di questa chiesa ha di tutto ciò cura e pensiero. E poichè in alcuni luoghi era incombenza del Tesoriere non solo di custodire i privilegi e gli ornamenti della chiesa, ma anche il regio diadema; così alcuni, avendo per vera quella favola, che i nostri Re solevansi coronare in Bari colla Corona di ferro, scrissero che il Tesoriere di questa Chiesa, tra gli ornamenti di quella, custodiva ancora questa Corona.

A questo Principe adunque devono i nostri Re quelle tante prerogative e preminenze acquistate non men per fondazione e dotazione, che per privilegi dei Sommi Pontefici, delle quali oggi sono essi in possesso, onde sono reputati capi e moderatori di questa chiesa, ch'è di Regia collazione; conferiscon essi il Priorato e l'altre dignità di quella, e vi stabiliscono un Giudice d'appellazione, il qual'è il Cappellano Maggiore, che riveda i processi del Priore e del Tesoriere, con totale independenza dall'Arcivescovo Ordinario di Bari.

Secondo l'antica disciplina della Chiesa, tutte le basiliche, che si costruivano nella diocesi del Vescovo, erano sotto la sua potestà. Ma sin da' tempi di Carlo M. i Pontefici romani cominciarono per mezzo di loro privilegi ed esenzioni, a mutare l'antica polizia: e per invogliare maggiormente i Principi ad arricchire le Chiese di beni temporali, e rendersegli vie più devoti e soggetti, concedevano ad essi ed alle Chiese, che fondavano, ampi privilegi e prerogative, comunicandosi scambievolmente i loro poteri. Ma in ciò sempre i Principi vi perdevano, perchè arricchite e fondate, ch'essi aveano le Chiese, sorgevano delle grandi contese con gli Ordinarii, e non si disputava sopra i beni donati, acquistati già alla Chiesa, ma sopra i privilegi loro conceduti: i Pontefici che s'arrogano la potestà d'interpretargli, moderargli e sovente anche di rivocargli, eran sempre dalla parte degli Ordinarii; e quando ciò lor non riusciva, tiravano almeno il litigio in Roma, ed essi ne prendevan la conoscenza. Di che potranno esser bastanti prove le gravi ed ostinate contese insorte per ciò tra il Priore di questa chiesa e l'Arcivescovo di Bari, le quali, non ostante tanti privilegi ed esenzioni, per lo corso non meno che di ducento anni, non vi è stato modo di poterle affatto estinguere. Siccome non furono minori per le stesse cagioni li contrasti nati fra l'Arciprete d'Altamura col Vescovo di Gravina, e per l'altre Chiese di regia collazione. Ciocchè dovrebbe essere documento non meno a' Principi, che a' privati, di lasciare alla Chiesa ed a' suoi Ministri ciò che a loro s'appartiene, e non intrigarsi in tali faccende, e nell'andar regolando Capitoli e confratanze, come se loro non restasse niente da fare attendendo a' loro proprii impieghi; perocchè la sperienza n'ha dimostrato, che tali cose se bene da principio s'intraprendono per impulsi di divozione, da poi riescono di vanità, dove non vi è niente dello spirito, e tutto del mondo e della carne. Ed all'incontro i Preti ed i Monaci da poi ch'essi avranno arricchite le chiese e le cappelle, vogliono amministrar le rendite, dimandarne conto, ed aver coloro, che voglion prenderne cura, per loro ligi e sudditi, con tirargli per l'orecchie dove la lor ambizione e la loro avarizia gli portano.

Ciò che dovrebbe ancora condannare l'istituto pur troppo da un secolo in quà frequentato in questa città e Regno di tante Confraterie di secolari e d'artigiani, li quali invece d'attendere a' loro mestieri, ed adempiere le parti della giustizia in non fraudare con inganni il prossimo, si mostrano tutti ardenti di devozione nelle loro cappelle e Confraterie, e cotanto si compiaciono d'una processione, di portare stendardi, croci, turibuli e torchi, e di proccurar da Roma divise pei loro abiti, le quali molti se le procacciano di colori di porpora per mostrarsi nelle funzioni più vistosi, e tanto si gonfiano d'un titolo di Priore, di Primicerio o Assistente, che credono con ciò aver ben soddisfatto all'ufficio di buoni Cristiani. E la meraviglia è, che da poi che la domenica avranno nelle loro Congregazioni intonato bene l'ufficio, sentito il sermone del Padre, e girato attorno per la città con croci e stendardi; il lunedì la mattina tornando nelle loro botteghe, non perciò al primo, che vi capita, non cercano ingannarlo, e con frodi e menzogne circonvenirlo ne' prezzi delle robe o ne' lavori di mano.

Quindi i Preti ed i Frati, riputandogli non in tutto secolari, se accade lite per precedenza, per custodia de' vasi e d'ornamenti, per amministrazione, conti o altro, vogliono essi riconoscere di queste cause, e gli tirano al Foro ecclesiastico, tenendo erette per ciò particolari Congregazioni, onde si sentono tutto il giorno contrasti non meno ne' Tribunali ecclesiastici, che avanti il Delegato della regal giurisdizione, e quando dovrebbero attendere a' loro lavori, perdono le giornate intere dietro a queste frasche. Ciò che ben loro sta, perchè quando a ciò potrebbero essere sufficienti i loro Parochi, essi, come se vi fosse scarsezza di Preti e di Monaci, vogliono intrigarsi in tali funzioni, e non conoscono, che da poi che vi avranno consumato il tempo e le loro sostanze, niente profittano nello spirito, nè migliorano di costumi, anzi vivono in continue soggezioni ed in continui contrasti, che cagionano fra di loro odj e rancori, e sovente anco gravi inimicizie e disordini.

§. II. Della chiesa di S. Maria di Lucera.

Dappoichè Re Carlo ebbe sconfitto Manfredi, e debellati i Saraceni, che teneva a' suoi stipendj, il misero avanzo di quelli ricovrossi in Lucera di Puglia, ed in quel castello si fortificarono; ed ancorchè il Regno si fosse per Manfredi interamente perduto, renduti che furono, ricevettero a buon patto da quel Re di poter quivi abitare colle loro famiglie; ma Carlo suo figliuolo come Principe pietoso e zelantissimo della fede cattolica, conoscendo, che per l'abitazione di questi Infedeli in quella città, il culto Divino era vilipeso, la chiesa cattedrale poco men che ruinata, e la religione in pessimo stato ridotta, si risolse discacciargli affatto, come fece, ed invitarvi nuovi abitatori Cristiani; ed affinchè la città tosto si popolasse, assegnò a' nuovi abitatori Cristiani molte terre, ripartendole secondo la qualità e condizione degli abitanti; ed affinchè la città in cotal maniera purgata, si reputasse tutta nuova, volle ancora, che non più si chiamasse col nome antico di Lucera, ma di Santa Maria, titolo della sua cattedral Chiesa. Perchè questa Chiesa era posta in luogo meno frequentato, e fuori della città, e minacciava ruina, ed avea così picciole facoltà, che il Vescovo di quella non poteva sostentarsi conforme ricercava la dignità Pastorale, e per la povertà dell'entrate pativa anche difetto di Ministri; Carlo II la trasferì dentro la città, costruendone una più magnifica, con ordinare nel 1303 al Castellano della vecchia Fortezza di quel castello, che dasse certo metallo rotto, che ivi era per farsene una campana. La dotò d'ampie e ricche entrate; e nello stesso anno gli donò cento once d'oro l'anno sopra le rendite sue regali, che teneva in quella città, per sostentamento de' Canonici, che accrebbe sino al numero di venti, con obbligo di quivi risedere, ed assistere alli divini Uffici tanto di notte, quanto di giorno, da dividersi fra di loro le rendite, che assegnava, egualmente, in maniera che ciascuno avesse cinque once d'oro l'anno in beneficio, ovvero prebenda. Si riserbò per se e suoi successori nel Regno la collazione de' Canonicati suddetti per la metà, e la restante parte, che fosse del Vescovo, in modo che quello, che primo vacherà sia a collazione del Re, e quel che vacherà la seconda volta sia del Vescovo. Oltre a ciò instituì nella medesima Chiesa le dignità di Decano, Arcidiacono, Tesoriero e Cantore, assegnando per ciò trenta once di oro l'anno, e che fossero di regia sua collazione.

Il Pontefice Benedetto XI lodando la pietà e munificenza del Re, per mezzo d'una sua Bolla spedita a' 28 novembre dello stesso anno 1303 approvò e confermò l'istituzione, concedendo al Re Carlo e suoi eredi e successori di presentare al Vescovo le persone, ch'egli volea innalzare al Decanato, Archidiaconato e Cantoria, le quali dovesse il Vescovo istituire e confermare. Gli concedè ancora di poter in luogo del Papa conferire la metà delle prebende di sopra accennate quando vacherebbono, con poter anche conferire le altre dignità. Di vantaggio, se occorresse crear altre prebende, che potesse egli farlo, con riserbarne l'altra metà al Vescovo e suoi successori, quando vacheranno. Ed in fine, per ispezial favore, ancorchè per le convenzioni passate con Carlo suo Padre si fosse tolto l'assenso, che prima era necessario nell'elezioni dei Vescovi; gli concedè, che occorrendo eleggersi il Vescovo di questa città, debbia il Capitolo, prima di domandare la confermazione di quello, ricercare l'assenso dei Re e suoi successori, e non si possa l'Eletto confermare, se prima non sarà ricercato detto assenso; come si legge nella Bolla trascritta dal Chioccarelli, della quale non si dimenticò Tommasino, con rapportarne anche le parole. Ciò che si vede essersi praticato anche a tempo del Re Alfonso I come per due carte di questo Re, una scritta al Vicario di Napoli nel 1450, e l'altra al Pontefice, rapportate dal Chioccarelli.

Non soddisfatto questo Principe di ciò, nel seguente anno 1304 volle maggiormente arricchire questa Chiesa da lui fondata, donando a Stefano Vescovo di quella città e suoi successori le terre dell'Apricena, Palazzuolo e Guardiola poste nella provincia di Capitanata, e glie le concedè in feudo nobile, contento solo del giuramento di fedeltà, senz'altro servizio personale o reale, eccetto che ogni anno il Vescovo e suoi successori fossero tenuti dare al Re un bacile d'argento con 25 libbre di cera, cioè in un anno nella festività del Natale di N. S., ed un altro nel dì della Pentecoste; il qual bacile anche solevasi restituire al Vescovo per doverlo convertire in vasi d'argento per divin culto della Chiesa suddetta. Stabilisce inoltre, che vi siano in detta Chiesa il Decano, l'Arcidiacono, il Tesoriero, il Cantore, ed oltre i Canonici, otto Cherici: che il Decano abbia ogni anno quindici once di oro, l'Arcidiacono altrettante, il Tesoriero dodici once, il Cantore altrettante, e gli otto Cherici ciascheduno d'essi quattro once; ed il Tesoriero abbia anche quattro once pei lumi. Comanda che queste somme se gli paghino dalla Bagliva e da altri diritti ed entrate regali, che la regia Corte possiede in detta città; e vuole, che le dignità di Decano, Arcidiacono, Tesoriero e Cantore quando vacaranno, si conferiscano dal Re e suoi successori; però la metà de' Canonicati si conferisca dal Re, e la restante metà dal Vescovo alternativamente nella maniera detta di sopra: che gli altri Cherici s'ordinino dal Vescovo; che il Decano abbia da dare al Re e suoi successori ogni anno per se e Capitolo dodici libbre di cera; e che le persone, che avranno dette dignità e Personati, debbano insieme colli Canonici eleggere il Vescovo, con doverne presentare al Re l'elezione, e ricercare il suo assenso. Il qual privilegio nel seguente anno fu confermato da Carlo stesso, e nel 1332 da Roberto suo figliuolo.

Siccome Carlo II statuì nella Real Chiesa di Bari, che nel celebrare ivi i divini Ufficii, si osservasse il rito Franzese; così parimente volle, che si praticasse in questa chiesa di S. Maria di Lucera; onde a' 25 novembre dell'anno 1307 scrisse al Vescovo e Capitolo di quella città, dicendo loro, che desiderando che in questa sua Chiesa da lui fondata si facesse progresso non meno nelle cose temporali, che spirituali, voleva perciò, che si governasse secondo le approvate consuetudini delle chiese cattedrali del Regno di Francia; onde ordinò loro e prescrisse alcuni riti, che si osservavano in Francia circa il celebrare l'Ufficio divino ed altre cerimonie di Chiesa.

Ritengono per tanto i nostri Re ancora oggi queste preminenze sopra la Chiesa di Lucera, se non che sin da' tempi d'Alfonso venne loro contrastato (non ostante la Bolla di Benedetto XI) l'assenso ricercato nell'elezione del suo Vescovo, il quale ora si è proccurato con varii maneggi e trattati di toglierlo affatto; siccome dall'altra parte furono tolte al Vescovo le terre, che da questo Principe furon concedute, ond'è, che ora è sciolto dal tributo del bacile d'argento e della cera.

§. III. Della chiesa d'Altamura.

La Chiesa d'Altamura, ancorchè fondata dall'Imperadore Federico II, e per suo privilegio spedito in Melfi l'anno 1282 confermato da poi da Innocenzio IV per la sua Bolla data in Lione l'anno 1248, fu resa esente dalla giurisdizione di qualunque Ordinario: con tutto ciò Carlo II ne prese la protezione, allorchè Sparano da Bari Protonotario del Regno, sotto colore che il Re Carlo suo padre gli avesse donato Altamura, tentava appropriarsi anche questa Chiesa, ch'era di jus patronato regio; onde scrisse nell'anno 1292 con molta premura a Carlo Martello suo figliuolo Re d'Ungheria, che comandasse al Protonotario di non impacciarsi a cosa veruna appartenente a questa Chiesa, per essere sua cappella regia, e si guardasse molto bene a non provocarlo ad ira; anzi ordinò, che non portasse rispetto in modo alcuno al suddetto Sparano in eseguire subito suoi ordini. Maggior protezione ne prese quando il Vescovo di Gravina tentò di sottoporla alla sua giurisdizione. Egli nell'anno 1299 commise al Vescovo di Bitonto ed a Lupo Giudice della medesima città, che portandosi di persona in Altamura esaminassero la pretensione del Vescovo; e dopo matura discussione, d'accordo compose egli la contesa, stabilendo, che la chiesa suddetta fosse Cappella Regia; che la collazione appartenesse al Re; che fosse colle sue cappelle e Clero esente; e che la giurisdizione spirituale contenziosa in Altamura, spettasse all'Arciprete: quella che appartiene all'ordine Vescovile spettasse al Vescovo, al quale parimente il Re Carlo donò sette once d'oro l'anno in perpetuo.

Dichiarata questa chiesa cappella regale, ed esente dalla giurisdizione dell'Ordinario, si proccurò poi dai Re successori di Carlo d'illustrarla con altre prerogative; onde nell'anno 1485, a richiesta di Pietro del Balzo Principe allora d'Altamura, s'ottenne da Innocenzio VIII Bolla, ovvero privilegio per cui fu innalzata da Parrocchiale ch'era, in Collegiata, con tutte l'insegne e dignità collegiali: fu conceduto ancora di potervi quivi creare nuove dignità, cioè d'Archidiaconato, Cantorato, Primiceriato e Tesorierato, con la creazione di ventiquattro Canonici, la provvisione dei quali si diede all'Arciprete. Fur concedute al medesimo le ragioni e preminenze Vescovili, il portar il Roccetto, la Mitra, l'anello e tutte le altre insegne Pontificali: di dare la solenne benedizione, colla potestà ancora di conferire gli Ordini minori alli suoi sudditi, e la superiorità e punizione circa tutti i Preti, e d'assolvere tutti i suoi Parrocchiani e sudditi di tutti li casi Vescovili. E poichè i Pontefici romani s'arrogavano ancora la potestà d'ergere le terre e castelli in città quando vi creavano un Vescovo; Innocenzio innalzando il suo Arciprete quasi al pari d'un Vescovo, dichiarò egli Altamura città, e comandò che ne' futuri tempi tale dovesse nominarsi, come si legge nella sua Bolla, rapportata dal Chioccarelli.

Innalzata a tale stato la Chiesa d'Altamura ed il suo Arciprete, quindi è che oggi i nostri Principi vantino questa singolare e grande prerogativa di crear essi l'Arciprete senz'altra provvisione del Papa, il quale, ottenute le lettere regie di sua provvisione, esercita giurisdizione nel suo territorio sopra i Preti e Cherici di quella Chiesa e suoi sudditi, e gode di tutte le ragioni vescovili, e di tutte l'altre prerogative di sopra rapportate; poichè quantunque i nostri Re abbiano la presentazione di molte chiese cattedrali, nominando essi molti Vescovi ed Arcivescovi ancora, nulladimanco non la sola loro presentazione e nomina gli fa tali, ma vi bisogna ancora la provvisione del Papa, che gli ordini e confermi nelle loro Sedi, ciò che non si richiede nell'Arciprete d'Altamura; ond'è avvenuto che i nostri Re non abbiano mai permesso, che questa Chiesa da collegiata passasse in cattedrale, ed il suo Arciprete da tale passasse ad esser Vescovo.

Ma con tutto che il privilegio di Federico II confermato da Innocenzio IV, la provvisione del Re Carlo II, e la Bolla d'Innocenzio VIII avessero favorito tanto questa Chiesa, non furono però bastanti d'evitar le contese, che dal Vescovo di Gravina, favorito da Roma, si posero negli ultimi tempi, intorno l'anno 1605, di nuovo in campo; poichè pretese visitare l'Arciprete e la sua Chiesa, e n'avea già ottenute provvisioni da Roma; ma essendosegli impedito di potersene valere, fece egli pubblicare per iscomunicati il Capitolo ed il Reggimento di Altamura, ed affisse cedoloni d'interdetto a tutta la città, che si componeva non meno di 18 mila anime: e furono con tanto ardore sostenute queste contese dal Vescovo col favore di Roma, che per gran tempo furono impiegati i più gravi personaggi e più cospicui Ministri del Re per sedarle, le quali dopo il corso di 22 anni furono finalmente composte con dichiararsi che nella visita, che s'era concordato con S. M. che potesse fare il Vescovo, come Delegato della Sede Appostolica, potesse solamente provvedere e correggere, e non gastigare o punire; e che non si permetta al Clero d'Altamura d'avere un Giudice d'appellazione in partibus per li decreti e sentenze che s'interpongono dall'Arciprete, ma, come era stato solito, dovesse appellarsi alla Corte del Cappellano Maggiore. Ebbe gran parte in quest'affare il Consigliere Giovanni Battista Migliore mandato con tal incombenza in Roma dal Cardinal Zapatta allora Vicerè, per la vigilanza del quale dopo essere stata interdetta la città 18 anni, e scommunicati il Capitolo e Reggimento della medesima, si pose a tal negozio fine, riputato di grandissima importanza. Gli atti di questa controversia, e molte consulte ed allegazioni fatte per la medesima, insieme col Breve di Papa Gregorio XV, col quale si conferma la transazione, ed accordo seguito sopra queste differenze, si leggono presso Chioccarello nel tomo 6 dei suoi MS. giurisdizionali.

Tengono i nostri Principi del Regno molte altre chiese e cappelle di regia collazione, e Carlo II nell'anno 1300 ordinò, che di loro se ne formasse un distinto e compito inventario; dal cui esempio gli altri Re suoi successori, e particolarmente negli ultimi tempi il Re Filippo II, si mossero per conservarne memoria, di ordinarne altri più esatti. Per aver essi dai fondamenti erette molte Chiese ed altre dotate d'ampissime rendite, furono meritevoli di tal prerogativa; e siccome il fondamento, dove s'appoggia il diritto, di cui godono i Serenissimi Re di Spagna di presentar i Vescovi alle chiese cattedrali, non è altro, come dice il Vescovo Covarruvias, se non perch'essi le fondarono e dotarono; così i nostri Re, perchè, siccome si è potuto notare da' precedenti libri di quest'istoria, e da quel che si dirà ne' seguenti, moltissime Chiese ancor essi a loro spese fondarono, e di grandi entrate dotarono: quindi o per concessione de' Sommi Pontefici, o per consuetudine e prescrizione immemorabile, ottennero che le medesime fossero di loro collazione, senza che nel provvederle avesser bisogno del ministero del Vescovo o del Papa istesso. Ciò che non dee recar maraviglia, particolarmente nelle persone de' Re, i quali non sono riputati puramente Laici; poich'essendosi da molti secoli introdotta tra' Principi cristiani quella spiritual cerimonia, che mentre si incoronano per mano de' Vescovi, sogliono anche ungersi col sacro olio, s'è riputato perciò che questa sacra unzione rendesse le lor persone sacrate, e capaci di tali e simili prerogative e dignità.

Quindi è nato, che nel Regno i nostri Principi, oltre la presentazione che tengono in moltissime chiese di patronato regio, eziandio in alcune chiese cattedrali, delle quali si parlerà a più opportuno luogo, tengono la collazione di molte chiese e cappelle regie fondate da essi e dotate di loro rendite, siccome in Napoli la chiesa di S. Niccolò del porto, ovvero del Molo, di S. Chiara, di S. Agnello, di S. Angelo a Segno, di S. Silvestro, e de' SS. Cosma e Damiano, di S. Severino piccolo e moltissime altre. E nel Regno in tutte le sue province, come in Lecce la cappella della Trinità, la cappella di S. Angelo posta nel castello della medesima città ed altre: in Apruzzo la Badia di S. Maria della Vittoria: nella Diocesi di Sarno la Badia di S. Maria di Real Valle: in Salerno la cappella di S. Pietro in Corte, di S. Cattarina ed altre: in Bari la badia di S. Lionardo: in Barletta la chiesa di S. Silvestro: nella diocesi di Sora la chiesa di S. Restituta di Morea: in Montefuscoli la chiesa di S. Giovanni: nella Diocesi di Nardò la chiesa di S. Niccolò di Pergolito: in Catanzaro le cappelle di S. Maria e di S. Giovanni Battista, e tante altre che possono vedersi presso il Mazzella, e negli inventarii fatti d'ordine di Carlo II e di Filippo II, rapportati dal Chioccarello nel sesto volume de' suoi MS. giurisdizionali.

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