SCENA TERZA

Fulgenzio e la suddetta.

FULGENZIO:        (Povera casa! In che stato sei tu ridotta!).

VITTORIA:        Bravo, bravo, signor Fulgenzio.

FULGENZIO:        Servitor suo, signora Vittoria.

VITTORIA:        Che voglia è venuta a vossignoria di scrivere a mio fratello che nostro zio stava mal per morire, per farci venire a Livorno a rotta di collo?

FULGENZIO:        Io, dacché siete di qua partiti, non ho scritto una riga a vostro fratello; e vostro zio sta benissimo di salute, ed io in tal proposito non so quello che vi diciate.

VITTORIA:        Ma la lettera l'ho veduta io.

FULGENZIO:        Che lettera avete veduto?

VITTORIA:        Quella che fu scritta da voi.

FULGENZIO:        A chi?

VITTORIA:        A mio fratello.

FULGENZIO:        Signora, io dubito che ve lo abbiate sognato.

VITTORIA:        Come sognato, se siamo corsi a Livorno per essere a tempo, pria che spirasse lo zio?

FULGENZIO:        E chi vi ha detto questa bestialità?

VITTORIA:        La vostra lettera.

FULGENZIO:        Cospetto! voi mi fareste uscire de' gangheri. Vi dico ch'io non l'ho scritta, e non poteva ciò scrivere, e non l'ho scritta. (Con isdegno.)

VITTORIA:        Ma che può essere dunque questa faccenda?

FULGENZIO:        Che può essere? Ve lo dirò io: cabale, invenzioni, alzature d'ingegno.

VITTORIA:        E di chi?

FULGENZIO:        Di vostro fratello.

VITTORIA:        Come di mio fratello?

FULGENZIO:        Sì, di lui, che ha menato finora una vita la più pazza, la più disordinata del mondo. Mi era stato detto da qualcheduno che le cose sue andavano per la mala strada; ma non credeva ch'ei fosse giunto a tal segno. Mi pento di essere entrato nell'affare di questo suo matrimonio; di aver colle mie parole accreditato in faccia del signor Filippo un uomo che non merita la sua figliuola.

VITTORIA:        Signor Fulgenzio, ella è un signore di garbo, le sono obbligata del panegirico che ci ha fatto, e della buona intenzione che ha di precipitar mio fratello.

FULGENZIO:        Si è precipitato da sé. Io sono portato per far del bene; ma quando però il bene di uno non rechi danno o disonore ad un altro.

VITTORIA:        Se foste portato per far del bene, procurereste almeno di liberare ora la nostra casa da questi insolenti, che per poche monete mettono a repentaglio la nostra riputazione.

FULGENZIO:        Fin qui ho potuto farlo, e l'ho fatto. In grazia mia si sono tutti partiti. Non ho fatto loro la sicurtà, perché non sono sì pazzo; ma con delle buone parole mi è riuscito far che si partissero, e sospendessero quella risoluzione che avevano in animo di voler prendere. Ma, signora mia, se non possono essere pagati, non gl'insultate almeno, non dite loro insolenti. Quando vostro fratello ha avuto d'essi bisogno, li ha maltrattati, li ha insultati; oppure con carezze, con parole dolci, con buone grazie ha cercato blandirli, allettarli, per essere servito, e servito bene? Ed ora che vengono per la quinta, sesta o settima volta a chiedere le loro mercedi, e perdono le loro giornate per essere stentatamente pagati, il fratello s'asconde e la sorella gl'insulta? È una ingiustizia, è una ingratitudine, è una tirannia.

VITTORIA:        A me non serve che facciate di tai sermoni.

FULGENZIO:        Sì, lo so benissimo. È un predicare a' sordi.

VITTORIA:        Fateli a mio fratello, che ne ha più bisogno di me.

FULGENZIO:        E dov'è egli vostro fratello?

VITTORIA:        È andato a far visita alla signora Giacinta.

FULGENZIO:        Sono anch'eglino ritornati? Ho piacere...

VITTORIA:        Avvertite di non andar colà a far degli strepiti fuor di proposito.

FULGENZIO:        Farò tutto quello che crederò dover fare.

VITTORIA:        Non vi mettete all'azzardo di far disciogliere un contratto di matrimonio, ché queste cose non si possono fare.

FULGENZIO:        Eh! signora mia... scusatemi... Sapete cosa non si dee fare? Spendere più di quel che si può; far debiti per divertirsi; e stancheggiare e vilipendere i creditori. (Parte.)

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