SCENA DODICESIMA

Giacinta, Filippo, Fulgenzio, Leonardo e detti.

FILIPPO:        Siamo qui, scusateci, signora Costanza.

COSTANZA:        Padrone, signor Filippo.

VITTORIA:        Che nuove abbiamo, signor fratello? (Con caricatura.)

LEONARDO:        Buonissime, signora sorella; domani di buon mattino partirò per Genova.

VITTORIA:        Per Genova?

LEONARDO:        Sì, signora.

VITTORIA:        Solo, o in compagnia?

LEONARDO:        In compagnia.

VITTORIA:        Con chi, se è lecito?...

LEONARDO:        Colla signora Giacinta.

VITTORIA:        M'immagino che prima vi sposerete.

LEONARDO:        Senz'alcun dubbio.

VITTORIA:        E noi, signor Guglielmo?

GUGLIELMO:        Va a Genova la signora Giacinta?

GIACINTA:        Sì, signore, vo a Genova: per grazia del cielo, di mio padre, e dell'amorosissimo signor Fulgenzio. Vi stupirete tutti ch'io vada a Genova, tutti vi farete le maraviglie che in un momento mi sia lasciata condurre ad una sì violenta risoluzione. Confesso che il distaccarmi dalla mia Patria, che abbandonare quella persona ch'io amo più di me stessa... parlo di voi, caro padre, padre mio tenerissimo; ah! nell'abbandonare un sì caro oggetto mi si stacca il cuore dal seno, ed è un miracolo ch'io non soccomba. Ma lo stato mio lo richiede, la mia virtù mi sollecita, l'onore a ciò mi consiglia. Chi mi ascolta, m'intende. Voi, sposo mio, m'intendete; voi, che nelle contingenze in cui siamo, miglior destino non potevate desiderare. Partirò da una patria per me funesta, mi scorderò i miei deliri, gli affanni miei, le mie debolezze... Sì, scorderommi, voglio dir, l'ambizione, la vanità, il fanatismo delle mie superbe villeggiature. Se seguitata avessi la strada incautamente calcata, chi sa in qual precipizio sarei caduta? Cangiando cielo, si ha da cangiar sistema. Ecco il mio sposo, ecco colui che mi destinano i numi, e che mi ha accordato mio padre. Io farò il mio dovere, facciano gli altri il loro. Signor Leonardo, domani si ha da partire: voi avrete gli affari vostri da porre in ordine. A me pure non mancheranno le occupazioni, gl'impicci. Senza perdere molto tempo in cosa che si può far sul momento, alla presenza del padre mio, della padrona di questa casa, di tutti questi signori, vi esibisco la mano, e vi ridomando la vostra.

FILIPPO:        Ah! che ne dite? Mi fa piangere per tenerezza. (A Fulgenzio.)

LEONARDO:        Sì, adorata Giacinta, se il vostro genitor lo acconsente...

FILIPPO:        Contentissimo, contentissimo.

LEONARDO:        Eccovi la mano accompagnata dal cuore.

GIACINTA:        Sì, anch'io... (Oimè! mi si oscura la vista, non posso reggermi in piedi).

LEONARDO:        Oh cieli! impallidite? tremate? Ah! quest'è segno di poco amore. Deh! se forzatamente vi uniste meco...

GIACINTA:        No, forzatamente non mi conduco a sposarvi. Niuno potrebbe usarmi violenza, quand'io non fossi da me medesima persuasa. Scusate la debolezza del sesso, se non vi pare che meriti qualche lode la verecondia. Passar dallo stato di libera a quello di maritata non si può far senza orgasmo, senza una interna commozione di spiriti e di pensieri. Staccarsi tutt'ad un tratto un affetto dal seno per introdurne un novello, lasciar il padre per seguire lo sposo, non può a meno di non agitar un cuor tenero, un cuor sensibile e indebolito. La ragione mi scuote. La mia virtù mi soccorre, ecco la mano: son vostra sposa. (Dà la mano a Leonardo.)

LEONARDO:        Sì, cara, io son vostro, voi siete mia. (Dà la mano a Giacinta.)

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