SCENA SETTIMA

Giacinta, poi Guglielmo.

GIACINTA:        Ah! Guglielmo vuol essere il mio precipizio. Non so dove salvarmi. Mi seguita dappertutto. Non mi lascia in pace un momento.

GUGLIELMO:        Ma perché mi fuggite, signora Giacinta?

GIACINTA:        Io non fuggo; bado a me, e vado per la mia strada.

GUGLIELMO:        È vero, ed io sono sì temerario di seguitarvi. Un'altra, che non avesse la bontà che voi avete, mi avrebbe a quest'ora per la mia importunità discacciato. Ma voi siete tanto gentile, che mi soffrite. Sapete la ragione che mi fa ardito, e la compatite.

GIACINTA:        (Non so che cosa abbiano le sue parole. Paiono incanti, paiono fattucchierie).

GUGLIELMO:        S'io credessi che la mia persona vi fosse veramente molesta, o ch'io potessi pregiudicarvi, a costo di tutto vorrei in questo momento partire; ma esaminando me stesso, non mi pare di condurmi sì male, che possa io produrre verun disordine, né alterare la vostra tranquillità.

GIACINTA:        (Eh! pur troppo mi ha fatto del male più di quello che egli si pensa).

GUGLIELMO:        Signora, per grazia, due parole a proposito di quel che vi ho detto.

GIACINTA:        Quest'anno non ci possiamo discontentare. Il bel tempo ci lascia godere una bella villeggiatura.

GUGLIELMO:        Ciò non ha niente che fare con quello ch'io vi diceva.

GIACINTA:        Che cosa dite della cena di ieri sera?

GUGLIELMO:        Tutto è per me indifferente, fuor che l'onore della vostra grazia.

GIACINTA:        Non so se il nostro pranzo di questa mattina corrisponderà al buon gusto del trattamento, che abbiamo avuto iersera.

GUGLIELMO:        In casa vostra non si può essere che ben trattati. Qui si gode una vera felicità, e s'io sono il solo a rammaricarmi, è colpa mia, non è colpa di nessun altro.

GIACINTA:        (Si può dare un'arte più sediziosa di questa?).

GUGLIELMO:        Signora Giacinta, scusatemi se v'infastidisco. Mi date permissione ch'io vi dica una cosa?

GIACINTA:        Mi pare che abbiate parlato finora quanto avete voluto. (Con un poco di caldo.)

GUGLIELMO:        Non vi adirate: tacerò, se mi comandate ch'io taccia.

GIACINTA:        (Che mai voleva egli dirmi?).

GUGLIELMO:        Comincio ad essere più sfortunato che mai. Veggio che le mie parole v'annoiano. Signora, vi leverò l'incomodo.

GIACINTA:        E che cosa volevate voi dirmi?

GUGLIELMO:        Mi permettete ch'io parli?

GIACINTA:        Se è cosa da dirsi, ditela.

GUGLIELMO:        So il mio dovere, non temete ch'io ecceda, e che mi abusi della vostra bontà. Dirovvi solamente ch'io vi amo; ma che se l'amor mio potesse recare il menomo pregiudizio o agli interessi vostri, o alla vostra pace, son pronto a sagrificarmi in qualunque modo vi aggrada.

GIACINTA:        (Chi può rispondere ad una proposizione sì generosa?).

GUGLIELMO:        Ho detto io cosa tale, che non meriti da voi risposta?

GIACINTA:        Una fanciulla impegnata con altri non dee rispondere ad un tale ragionamento.

GUGLIELMO:        Anzi una fanciulla impegnata può rispondere, e deve rispondere liberamente.

GIACINTA:        Sento gente, mi pare.

GUGLIELMO:        Sì, ecco visite. Rispondetemi in due parole.

GIACINTA:        È la signora Costanza con sua nipote.

GUGLIELMO:        Vi sarò tanto importuno, fino che mi dovrete rispondere.

GIACINTA:        (Sono così confusa, che non so come ricevere queste donne. Converrà ch'io mi sforzi per non mi dar a conoscere).

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