H. Mazzini e Garibaldi a Roma.

Quell’arruffone dello Sterbini scriveva a Mazzini da Frosinone, 29 maggio 1849: «Il tuo cuore troppo umanitario e poetico ti guasta, e non volendo tu fai del male. Se non ti senti l’animo, lascia fare a me. Intendila una volta: la repubblica non si salva che con la energia rivoluzionaria. Garibaldi generale in capo e solo, e il voto universale deciso; prima che ti forzi il popolo, fallo tu.....»

Celebre è il biglietto di Garibaldi, 2 giugno ’49: «Mazzini, giacchè mi chiedete ciò che io voglio ve lo dirò. Qui io non posso esistere per il bene della Repubblica che in due modi: o dittatore illimitatissimo o milite semplice ed invariabilmente. Scegliete.»

Queste pretese potevano giustificarsi con l’interesse militare della difesa di Roma: gravi inconvenienti recava al contrario la soverchia correntezza di Garibaldi negli arruolamenti. Misurando tutti alla stregua del suo cuore magnanimo, Garibaldi non sempre sapeva discernere il valor vero morale degli uomini che l’attorniavano; e credeva poi troppo nella virtù purificatrice del patriotismo – un crogiuolo, secondo lui, dove ogni scoria più impura poteva convertirsi in nobile metallo di guerra. Così è che «35 anconetani imputati per omicidi» furono liberati da Garibaldi, con l’illusione di trarne «partito decorosamente e in modo proficuo alla causa». Mazzini espresse recisamente la sua disapprovazione con queste laconiche righe:

«Generale, il governo aveva posto sotto custodia e processo i detenuti d’Ancona. La giustizia doveva avere il suo corso; dove no, non vi è più repubblica, nè governo, nè giustizia, nè altro, fuorchè un partito che domina. Non possiamo dunque a meno di veder con dolore e con biasimo il vostro operato.» (Beghelli, La Repubblica Romana, Lodi 1874, II, 23.)

Ai galeotti d’Ancona si riferisce anche il severo ammonimento d’una lettera del 26 giugno 1849 di Mazzini a Garibaldi, citata dal Loevinson (G. Garibaldi e la sua legione, Roma, 1904, II,18.)

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