I.

Cominciamo dal restituire alla storia ciò che le appartiene dell’episodio dei Promessi Sposi.

Il Manzoni, che intraprese il suo romanzo con così larga e diligente preparazione storica, notò nel Ripamonti, da cui attinse anche per l’Innominato, il racconto d’uno scandalo avvenuto in un monastero del milanese.

Il Ripamonti narra che una giovinetta di sangue principesco era stata costretta a rendersi religiosa, per obbedire all’ambizione e all’avarizia dei parenti. Nel chiostro per alcun tempo si rimase la vittima abbastanza tranquilla, e vi godeva fama ed onori, dacchè volgarmente la si chiamava la Signora. Per il sangue ond’era uscita, e per le virtù che dapprima spiegò , venne scelta a maestra e direttrice delle nobili fanciulle che stavano là in educandato. Da qui cominciò il male. Era contigua al monastero una casa, che dalla parte posteriore dava sopra un cortiletto, dove le educande solevano stare nel pomeriggio. Un giovinastro che abitava in quella casa si diè prima ad amoreggiare con un’educanda, ma questa poco dipoi andò sposa, e allora lo sciagurato rivolse l’occhio e il desiderio alla maestra.

Trovarono facilmente modo alla colpa. Alcuni anni stette occulta la cosa, sebbene la monaca avesse avuto dei figli. E non fu sol uno il sacrilegio: due monache erano state date compagne alla signora, e queste pure vennero contaminate. Rotta ogni disciplina, le colpevoli s’imposero con l’audacia, col terrore. Una conversa, che accortasi di qualche cosa aveva lasciato andare imprudentemente la lingua, fu uccisa nella camera della Signora, e per sedare ogni sospetto si sparse la voce della fuga. Finalmente avuto sentore d’altri atrocissimi fatti, del disordine gettato nel convento, del pauroso scandalo serpeggiante nel paese, il Cardinal Borromeo fa portar via la monaca e perseguire il violatore. Questi disperato va nel convento, mena a forza le altre due monache, l’una ferisce di pugnale e getta nel Lambro, l’altra dirupa in un precipizio.

La Signora, che dapprima aveva dato in ismanie e furori, dicendo d’esser stata forzata da’ parenti, d’aver proferito i voti prima dell’età stabilita, e volersi maritar ora ed a cui meglio credesse, finì per convertirsi e prendere la vita più aspra di penitenza, passando presto in odore di santità. Il Ripamonti, che la conobbe, ce la presenta in due tratti efficacissimi: «scribentibus ista nobis adhuc superstes, curvæ proceritatis anus, torrida, macilenta, veneranda, quam pulchram et impudicam aliquando esse potuisse vix fides.» – Perchè, del resto, la giustizia divina fosse in tutto compiuta, il Ripamonti termina la sua narrazione con la morte del violatore per mano d’un suo amico e compagno di delitti.

Ognun vede che, pur tenendo presenti tutti i dati di questa narrazione storica, il Manzoni ha sorvolato sulla parte più scabrosa; ed ha preferito invece ritornare diligente, con la sua analisi profonda, viscerale, dove il Ripamonti era passato incurioso.

L’episodio infatti consta più che altro delle pagine mirabili in cui il Manzoni ha voluto ricostruire quella tela di artifizi, d’inganni, di seduzioni, di minaccie, per le quali dovette bene Gertrude essere addotta da’ parenti al mal passo. Manzoni abbandona la monaca, appena ci ha fatto balenare gli inizi della relazione colpevole, con le sue prime ansie, prime gioie e terrori. La profondità dell’abisso in cui l’infelice è caduta, vien per noi misurata solo allora che Lucia, gettata dal caso sulla via della Signora, ne divien vittima. Dopo l’iniquo tradimento della povera fanciulla, noi non rivediamo più la monaca; e quando Lucia, guarita dalla peste, ne domanda alla sua compagna e benefattrice, questa le apprende brevemente e confusamente il sèguito della storia, che Manzoni non ama riferire, soddisfatto meglio di accennare alla edificante conversione e rinviando i curiosi al Ripamonti.

L’entusiasmo sollevato dai Promessi Sposi, fece sbucciare gli imitatori e i continuatori come fungaia pullulante sotto i grand’alberi; e allora saltò in testa al vanitoso e mediocre Rosini di continuare la storia della Signora di Monza, lasciata quasi a mezzo dal Manzoni, e della quale perciò si sarebbe potuto trarre ancora partito. Ma per il buon Rosini qualunque argomento era un pretesto: egli aveva da sciorinare non si sa quanta erudizione o imbottitura storico-critico-artistico-pittorica; e ne ha infatti rimpinzato il suo romanzo, per il quale pretendeva d’esser alla pari, per lo meno, del Manzoni, e in grazia del quale inflisse molte seccature al Leopardi.

Più che la sconciatura del Rosini (che fa il paio con qualche altra tentata continuazione: sull’Innominato, su’ Figli di Renzo) doveva destare una viva curiosità la scoperta e pubblicazione del Processo originale della Monaca, che veniva a gettare luce piena e sinistra su’ punti lasciati oscuri, o adombrati appena, dal Ripamonti. Questo processo, in un manoscritto di dieci grossi fascicoli, capitò in mano al conte Tullio Dandolo, che ne dava, nel 1855, un assai copioso estratto, riprodotto poi nell’op. cit. Il Secolo XVII in Italia. In quell’estratto, illustrando i preziosi documenti con lo stile enfatico che gli è proprio, il conte Dandolo, per crescere l’orror sacro ne’ lettori, divide il processo in tanti atti di tragedia, dramma, a piacimento; per altro la sua è una ben scialba e fredda cosa – malgrado le declamazioni, gli ammirativi e i puntini, i tre soliti amminicoli con cui credon compensare il difetto di osservazione e d’analisi i romanzieri mestieranti. Eppure nulla di più facile che ricreare sullo schema larghissimo degli interrogatorî e de’ processi verbali la storia commovente della vera Monaca. L’interesse drammatico sorge spontaneo dalla narrazione de’ fatti, dalla pittura di certe scene, che riescono efficaci perfino sotto la penna del cancelliere di Tribunale.

La Signora, la Monaca di Monza, è suor Virginia, figlia del «fu illustrissimo signor Martin de Leyva» monaca di Santa Margherita in Monza. All’epoca del processo (1607) aveva trentadue anni. Era bellissima. – Il suo seduttore si chiamava Giampaolo Osio: la tresca aveva durato oltre sette anni! Avevano avuto più figli: di essi viveva solamente una bambina, che suor Virginia faceva spesso venire, come di estranea, in convento, e a cui prodigava carezze in presenza delle monache che sapevano tutto. Le altre volte aveva sempre abortito; non si capisce bene se d’aborto procurato. La bambina, per favore d’un Melzi, fu legittimata nel 1606 dall’Osio, che la disse avuta da un’Isabella de Meda.

Le altre due monache complici erano suor Ottavia Ricci e Benedetta Homati; la conversa uccisa, Caterina Cassini.

Dagli interrogatorî delle tre colpevoli, della priora, della vicaria ed altre monache, finalmente da una lettera dell’Osio al cardinal Borromeo, si riesce a raccogliere l’intera storia ne’ più minuti particolari.

L’Osio amoreggiava dapprima con Isabella degli Ortensi; partita quest’educanda si volse a suor Virginia. Comincia dal salutarla, le mostra più tardi una lettera. Per vincere le ripugnanze di lei, l’Osio si fa ispirare da prete Paolo Arrigone, il quale gli serve di segretario nella corrispondenza erotica. Costui aveva tentato sedurre suor Virginia; ributtatone aveva iniziato una tresca con certa suor Candida. Contro le crescenti insistenze, contro la propria debolezza suor Virginia combatte lungamente; ma le concessioni purtroppo si seguono rapide. Come trascinata da una forza, che nel suo interrogatorio chiama diabolica, consente di parlare con l’Osio alla finestra, poi al confessionale, infine aprendogli la porta del monastero: piange, trema, sviene, corre agli altari, implora soccorso da Dio. Ne’ primi colloqui, la passione si contiene in un imbarazzo, in un riserbo pudico; ma un giorno nell’Osio trabocca e alle strette violente dell’amato ella fugge e si propone di non rivederlo mai più. Per qualche tempo mantiene il suo giuramento, ma ne ammala: poi alle istanze che l’Osio le fa giungere, si arrende costretta dalla stessa «forza diabolica» – e così grado a grado deve cadere. Da allora in poi l’Osio entra addirittura nel monastero, vi si trattiene nascosto anche per quindici giorni (cercato dalla giustizia per un delitto di sangue) e le monache fanno per lui cucina a parte. Suor Virginia pure si reca a casa di lui, restandovi le intere notti, vivono addirittura licentia sane coniugali, ricambiandosi doni e servigi: ed è invano che per romper la tresca e toglier lo scandalo si carcera l’Osio e lo si traduce a Pavia, donde non appare come e quando sia evaso o sia stato dimesso.

Dopo il primo aborto, suor Virginia manda alla Madonna di Loreto una tabella votiva raffigurante una monaca e un bambino inginocchiati che piangono, per scongiurare la Vergine di toglierla alla via ruinosa della colpa. Ma purtroppo deve percorrerla sino in fondo: – e qui sarebbe lungo descrivere la vita agitata, tormentosa, che mena, causa forse degli altri aborti, con tutti gli incidenti a cui dà luogo la relazione colpevole, e finalmente, nota truce del dramma, l’uccisione d’uno speziale e della conversa che avevan gettato là delle parole sulla tresca, e la seconda in specie minacciava di svelar tutto.

Dagli interrogatorî risulta abbastanza chiaramente la reità delle altre due monache; ma la lettera dell’Osio al Cardinale reca l’accusa più esplicita contro suor Benedetta e suor Ottavia, complici e istigataci, che per amore di suor Virginia egli doveva soffrire e che a lei lo contendevano . L’Osio uccide la conversa, e costoro son presenti, anche con altre compagne, al delitto, e aiutano a nasconderne le traccie sanguinose: se pure, come l’Osio pretende, non furono esse stesse a commetterlo. Ad ogni modo, quale viene esposta ne’ minuziosi verbali, non potrebbe darsi scena più cupamente drammatica di quest’ultima: e ci vuole tutta la cattolica ingenuità del conte Dandolo, per non vedere nell’intero processo una ben trista rivelazione sulla storia ecclesiastica di quel secolo. Dal processo non si rileva nulla della conversione: suor Virginia fu sottoposta alla tortura de’ sibilli alle mani, e subì quindi insieme alle altre l’avuta condanna. «Furono le dette monache murate separatamante in un carcere per una, con lasciarvi le fenestrole per poter respirare e ricevere il vitto, come si conviene in simili casi». Quanto all’Osio, fu «condannato dal Senato in pena della vita, e d’esser tenagliato, tagliata la mano dritta, con fiscatione di tutti li beni, e fattogli spianare a fundamentis la casa, fattone pubblica piazza, con erigervi in mezzo una colonna di marmo» – su cui un’iscrizione infamatoria.

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