II.

Quale fu, quale dovett’essere l’intento del Manzoni nel raccogliere dal Ripamonti il racconto della monaca? – Certo, non si trattava per lui d’un qualunque espediente, di cui avesse stretto bisogno per gettar Lucia nel castello dell’Innominato. Potrebbe farlo credere l’aver egli voluto prestare quest’altro delitto alla Signora; ma naturalmente, inserendo l’episodio, bisognava coordinarlo e renderlo utile all’economia del romanzo. È perciò fuori di dubbio che il Manzoni mirò sopratutto con esso a compiere il quadro di quello sciagurato secolo, da lui così intimamente rivissuto: e l’episodio valeva a mostrare quanto l’ambizione, lo spirito di casta potessero allora, sino a rendere i genitori freddamente snaturati verso la prole.

Come e con che arti fosse stata «la Signora» forzata a prendere il velo, era un punto neanche toccato dal Ripamonti. Manzoni s’impadronì di questo motivo, come d’una incognita da esplorare e lumeggiare: – ed è qui che s’affacciano spontanei, nel puro campo immaginativo, i raffronti tra le due vittime: Gertrude, e Susanna Simonin; la monaca di Monza, e la Religieuse del Diderot.

Gertrude è figlia di principe, e perciò deve esser sacrificata alla religione della famiglia. – Susanna è figlia di adulterio, e deve espiare nel convento un delitto non suo. – Per il padre di Gertrude è assurdo che si abbia a smembrare fra tutti i figli il vistoso retaggio, e che il primogenito non continui solo il lustro e la potenza della casa. – Per la signora Simonin è mostruoso che la figlia della colpa divida con le altre sorelle legittime, i beni d’un marito ingannato; ed è quindi inevitabile che Susanna, per risparmiare dolori alla madre, cui richiama anche la memoria dolorosa d’un troppo amato traditore, vada nel chiostro a nascondere l’onta della nascita, assicuri alle sorelle la possessione intera de’ beni, e tolga ogni cagione di sospetto e di rancori dall’animo dell’ombroso padre putativo.

Queste due ragioni diverse, per cui Gertrude e Susanna son destinate al convento, rendono a meraviglia il carattere del diverso ambiente storico, cui rispettivamente appartengono. Nel secolo XVII la tirannia nobilesca, nel XVIII la corruzione, il rilassamento della famiglia, determinano i genitori alla stessa violenza. Prima che nascessero, la sorte dell’una e dell’altra era irrevocabilmente decisa: di Gertrude, nelle deliberazioni d’un orgoglio geloso; di Susanna, tra’ rimorsi cocenti della colpa – si aspettava non il loro consenso, ma la loro presenza.

A Gertrude fin dall’infanzia, e il nome che le si era imposto pensatamente, e i balocchi fanciulleschi, e le parole abilmente gettate per avezzarla all’ordine d’idee prestabilito da’ genitori, dovevan mettere in testa che aveva ad esser monaca. A Susanna, l’avversione non dissimulata da’ genitori per lei, qualche parola scappata in momenti di collera, le preferenze concesse alle sorelle maggiori, una sorda gelosia per le doti naturali ond’era riconosciuta a queste superiore, promettevano lo stesso avvenire.

Gertrude, a sei anni è collocata, per educazione e ancor più per istradamelo all’imposta vocazione, in un monastero. Susanna vi è cacciata già grande, per impedire che possa togliere uno sposo ad una delle sorelle.

A questo punto ci è permesso osservare assai chiaramente il carattere opposto che impronta i due racconti. – Il Principe mette Gertrude nel monastero di Monza, perchè lì, pensava – «meglio che altrove, la sua figlia sarebbe trattata con quelle distinzioni e con quelle finezze che potessero più allettarla a scegliere quel monastero per sua perpetua dimora. Nè s’ingannava: la badessa e alcune altre monache faccendiere, che avevano, come si suol dire, il mestolo in mano, esultarono nel vedersi offerto il pegno d’una protezione tanto utile in ogni occorrenza, tanto gloriosa in ogni momento; accettarono la proposta, con espressioni di riconoscenza non esagerate, per quanto fossero forti; e corrisposero pienamente alle intenzioni che il Principe aveva lasciate trasparire sul collocamento stabile della figliuola: intenzioni che andavan così d’accordo con le loro. Gertrude appena entrata nel monastero fu chiamata per antonomasia la signorina: posto distinto a tavola, nel dormitorio; la sua condotta proposta all’altre per esemplare; chicche e carezze senza fine, e condite con quella famigliarità un po’ rispettosa, che tanto adesca i fanciulli, quando la trovano in coloro che vedono trattare gli altri fanciulli con un contegno abituale di superiorità.»

Vi ha in tutto questo qualche cosa d’illodevole, ma non risulta una complicità chiara, decisa; una coscienza aperta del male. Non appare nelle monache un’associazione diretta alla violenza: si tratta d’una bambina, figlia di principe, e nulla di più naturale che prodigarle «distinzioni e finezze.» Il Principe ha solo «lasciato trasparire» le sue intenzioni: che male c’è a favorire le tendenze, già promosse in casa, nella fanciulla? Se, nel convento stesso, delle altre ragazze non avesser contrapposto idee più varie e luccicanti alle «immagini maestose ma circoscritte e fredde, che può somministrare il primato in un monastero» Gertrude sarebbe cresciuta su badessa: sarebbe stata per sempre acquisita a Dio. Solo più tardi s’intravede un po’ di «tristo incarico» assunto da qualche monaca «di far sì che Gertrude s’obbligasse per sempre, con la minor cognizione possibile di ciò che faceva»; ma non si ha propriamente un estremo colpevole. Esse l’impegnano soltanto a un atto preliminare: le fanno cioè trascrivere e firmare una supplica al Vicario; «e a fine d’indurla a ciò più facilmente non mancaron di dirle e di ripeterle che finalmente era una mera formalità, la quale (e questo era vero) non poteva aver efficacia se non da altri atti posteriori, che dipenderebbero dalla sua volontà.»

Quando Gertrude, indettata dalle compagne, fa sapere con una lettera al padre le nuove idee brulicanti nel suo cervello di giovinetta, la badessa si limita a chiamarla nella sua cella; «e con un contegno di mistero, di disgusto e di compassione» le dà «un cenno oscuro d’una gran collera del Principe, e d’un fallo ch’ella doveva aver commesso, «lasciandole però intendere, che, portandosi bene, poteva sperare che tutto sarebbe dimenticato.» Non è certo una bella parte, ma non tale da provocare viva riprovazione e disgusto; e si vedrà poi che la stessa badessa, per quanto debolmente, più per obbedire a una formalità che a un dovere, con tutti i termini di rispetto, pure rammenta al Principe che la Chiesa commina la scomunica a chi violenta la volontà di una figlia. – Del resto, Manzoni, dopo accennate quelle piccole arti, con cui si cercava legare Gertrude al convento, si affretta a soggiungere: «non che tutte le monache fossero congiurate a tirar la poverina nel laccio: ce n’erano molte delle semplici e lontane da ogni intrigo, alle quali il pensiero di sacrificare una figlia a mire interessate avrebbe fatto ribrezzo; ma queste, tutte attente alle loro occupazioni particolari, parte non distinguevano quanto vi fosse di cattivo, parte s’astenevano dal farvi sopra esame, parte stavano zitte, per non fare scandali inutili. Qualcheduna anche rammentandosi d’essere stata con simili arti condotta a quello di cui s’era pentita poi, sentiva compassione della povera innocentina, e si sfogava col farle carezze tenere e malinconiche; ma questa era ben lontana dal sospettare che ci fosse sotto mistero; e la faccenda camminava.» – In ogni caso dunque la complicità sarebbe circoscritta a poche, e nella sola fase, per così dire, preparatoria: la colpa della vera violenza fatta a Gertrude si rovescia tutta sul padre, sui parenti; e voi vedete qui condannato il secolo, che profana co’ suoi calcoli una santa istituzione, che infiltra in quell’aure serene i suoi malsani miasmi.

Nel racconto invece del Diderot si dà, è vero, una colpa non lieve alla corruzione del secolo; ma i genitori di Susanna sono certamente men rei, perchè il signor Simonin ha de’ dubbi troppo fondati sulla sua paternità, e la moglie è lacerata dai rimorsi. Se il primo è giustificato abbastanza della sua avversione, l’altra trova la sua pena negli strazi che soffre, e pel ricordo incessante della colpa, e pel sacrificio stesso che deve imporre alla figlia. Quando questa madre è costretta a rivelarle il mistero della nascita, è in qualche modo già assolta dall’umiliazione che l’opprime. E come resistere all’accento disperato con cui ella dice: «vuoi tu, figlia mia, rendermi più terribili gli estremi momenti; vorrai tu, vicino al mio letto di morte, esser là fra le altre sorelle, come una minaccia, come il segno vivente che Dio non m’ha perdonato?» – Più dunque che non contro i Simonin, l’indignazione nostra è eccitata contro preti e monache, congiurate in massa a’ danni di Susanna, contro l’istituzione che si presta al delitto; e a questo fine son rivolti gli stessi particolari del racconto, derivati poi nell’episodio manzoniano. Quanto peggiore infatti de’ piccoli artifizi con cui le monache impegnano Gertrude a scrivere la supplica al Vicario, è la malizia con cui la badessa della Religieuse ottiene da Susanna di acconciarsi al noviziato, pur dicendole egualmente: «qu’est-ce qu’on demande de vous? Que vous preniez le voile? Eh bien! que ne le prenez-vous? À quoi cela vous engage-t-il? A rien; à demeurer encore deux ans avec nous. On ne sait ni qui meurt ni qui vit; deux ans, c’est du temps: il peut arriver bien des choses en deux ans... – Elle joignit à ces propos insidieux tant de caresses, tant de protestations d’amitié, tant de faussetés douces!... Je me laissai persuader. Elle écrivit donc à mon père... avec quelle célérité tout fut préparé!...» (p. 14).

La stessa diversità offre la scena della Religieuse, in cui la badessa reca a Susanna una lettera della madre: «Un matin après l’office, je vis entrer la supérieure chez moi. Elle tenait une lettre. Son visage était celui de la tristesse et de l’abattement: les bras lui tombaient; il semblait que sa main n’eût pas la force de soulever cette lettre: elle me regardait; des larmes semblaient rouler dans ses yeux.... Elle me demanda comment je me portais; que l’office avait été bien long aujourd’hui; que j’avais un peu toussé....» Le dà finalmente la lettera; e nel dolore, nell’indignazione dell’atterrita fanciulla le prodiga le solite frasi melate ed ipocrite: «.... comptez toujours sur tous mes secours. Je n’ai jamais attiré personne en religion; c’est un état où Dieu nous appelle, et il est très dangereux de mêler sa voix à la sienne. Je n’entreprendrai point de parler à votre coeur si la grâce ne lui dit rien; jusqu’à présent, je n’ai point à me reprocher le malheur d’une autre: voudrais-je commencer par vous, mon enfant, qui m’êtes si chère?» (pp. 18-19).

Oh non sembra che questa diversità nel trattamento degli stessi particolari sia stata dal Manzoni cercata in opposizione al Diderot? – Ma continuiamo.

Nel caso di Gertrude, la qualunque complicità delle monache cessa al momento che il Principe ritira in casa sua figlia. Allora voi fremete sulla fredda e implacata crudeltà dell’uomo, che sottopone un’infelice giovinetta a lunghe torture morali; che chiude per lei tutte le pure sorgenti degli affetti di famiglia, affinchè esasperata dalle persecuzioni, stanca dall’abbandono, dal vuoto che le si è fatto attorno, si decida a finirla, subisca la sua sorte. La violenza si compie in famiglia: Gertrude ritorna al convento, affranta e stordita dall’impari lotta.

Nella Religieuse, invece, la complicità nauseante delle monache è portata all’estremo. La badessa si fa decisamente strumento de’ parenti, da cui è pagata. «Et cela – dice tristamente Susanna – pour un millier d’écus qu’il en revient à leur maison. Voilà l’objet important pour lequel elles mentent toute leur vie, et préparent à de jeunes innocentes un désespoir de quarante, de cinquante années.» (p. 17). Si tratta ben altro che «di protezione tanto utile in ogni occorrenza, tanto gloriosa in ogni momento.» E del resto attorno a Susanna c’è un arrabattarsi di baciapile: «J’eus des lances à rompre avec des femmes pieuses qui se mêlèrent de mon affaire sans que je les connusse; c’étaient des conférences continuelles avec des moines et des prêtres.» (p. 19). La badessa per piegar Susanna adopera ogni artifizio, si mostra tutta amore, compassione per la vittima, finge di aver sposato la causa di lei, e simula un carteggio con la famiglia per intercederne la grazia. Intanto però non trascura di fare apparir bella alla reluttante la vita monastica, e ponendole sott’occhio gli affanni, gli attriti che l’aspettano in famiglia, la induce a rimaner ancora per qualche tempo in convento. Il noviziato, che secondo le regole dovrebb’essere d’una austerità spaventevole, è reso delizioso a Susanna: è addirittura un corso di seduzione. «Une mère des novices – dice Susanna – est la soeur la «plus indulgente qu’on a pu trouver. Son étude est de vous dérober toutes les épines de l’état; c’est un cours de séduction la plus subtile et la mieux apprêtée... Si j’avais éternué deux fois de suite, j’étais dispensée de l’office, du travail, de la prière; je me couchais de meilleure heure, je me levais plus tard.... Il ne se passe pas une histoire fâcheuse dans le monde qu’on ne vous en parle; on arrange les vraies, on en fait de fausses, et puis ce sont des louanges sans fin et des actions de grâces à Dieu, qui nous met au couvert de ces humiliantes aventures.» (p. 16).

Così, in una forma però semplicemente scherzosa, l’uno degli zii di Gertrude, le diceva: «ah furbetta! voi date un calcio a tutte queste corbellerie; siete una dirittona voi; piantate negli impicci noi poveri mondani, vi ritirate a fare una vita beata, e andate in paradiso in carrozza.»

C’è di più: nell’episodio manzoniano, quando stremata Gertrude si lascia soccombere, vediamo un «buon prete», il Vicario, che, venuto per scrutare la più o meno sincerità della vocazione della monacanda, adempie il suo dovere con coscienza, deliberato a dare in caso un voto contrario. Ma Gertrude mènte a lui e a sè stessa, Gertrude è costretta ad ingannarlo; e induce nel «buon prete» nell’«uomo dabbene» – come ripetutamente lo chiama il Manzoni – il convincimento che si tratti della più vera, incontrastabile vocazione.

Che cosa avviene al contrario nella Religieuse? Il P. Serafino, direttore spirituale della madre di Susanna, non è propriamente un tristo: eppure si assume di persuader Susanna, a nome della madre; da buon confessore si fa complice di costei, e concede solamente alla vittima una sterile compassione. «C’était – dice Susanna – le père Séraphin, directeur de ma mère; il avait été aussi le mien; ainsi, il n’eut pas d’embarras à m’expliquer le motif de sa visite: il s’agissait de m’engager à prendre l’habit...» (p. 13). Così, la prima volta; quando Susanna vien chiusa in casa – come Gertrude – è ancora il P. Serafino, che viene a catechizzarla. «Je me plaignis (p. 25) de ma mère surtout avec amertume et ressentiment. Ce prêtre était entré tard dans l’état religieux; il avait de l’humanité...» e si limita ad ascoltarla tranquillamente e infine le rivela il segreto doloroso, che determina la condotta della madre.

Passiamo ad un altr’ordine di considerazioni. – La stessa sorte ravvicina Susanna e Gertrude; ma non son meno tra loro lontane per tempo che per carattere. Gertrude è debole, irresoluta; Susanna, piena di coraggio, decisa a tutto ciò che può una fanciulla sola, inerme.

Appena Gertrude ha intraveduto, da’ discorsi delle compagne, un più largo e sorridente orizzonte, abbandonando le idee che a poco a poco aveva accettate, si piace di pregustare col desiderio l’avvenire, di cui le balenano confusamente i lusinghieri fantasmi. Però l’immagine di suo padre sorge ben presto a sfatare questi facili sogni, e allora comincia a oscillare tra le incertezze, ora ostentando una sicurezza che non ha, ora accasciandosi nel dolore. In un momento di debolezza si lascia strappare il consenso per la supplica; in un momento di coraggio apre al padre l’animo suo. Finalmente come stordita dalle conseguenze d’un tentativo di conciliazione si fa trascinare al convento: «lei medesima stanca del lungo strazio» chiede d’entrarvi per sempre il più presto possibile. E là dove la lega un voto, che solo la morte può sciogliere, Gertrude si rode d’inutile rammarico: il turbinìo della vita mondana riappare più vertiginoso alla sua fantasia tra il silenzio del chiostro. Due vie le si parano davanti: la rassegnazione, o la colpa – ella sceglie questa.

Susanna non conosce, nè desidera il mondo e le sue seduzioni: ma vuol esser libera, ecco tutto; il chiostro le ispira orrore. In questo sentimento attinge una forza morale straordinaria per una debole fanciulla: essa è risoluta a lottare con tutto e con tutti; piange, prega, ma non mènte mai. Ridotta agli estremi, finge di accettare la sua sorte, ma, davanti all’altare, al sacerdote, che deve ricevere la professione di lei, pronunzia un no tondo, reciso, per quanto le monache che le stanno attorno cerchino gridare di ; e in questo modo fa la più solenne e strepitosa protesta contro la violenza che si voleva compiere. È questa una delle scene più curiose della Religieuse: «On avait – racconta Susanna – tout disposé dès la veille. On sonna les cloches, pour apprendre à tout le monde qu’on allait faire une malheureuse. Le coeur me battit encore. On vint me parer: ce jour est un jour de toilette; à présent que je me rappelle toutes ces cérémonie, il me semble qu’elles avaient quelque chose de solennel et de bien touchant pour une jeune innocente que son penchant n’entraînerait point ailleurs. On me conduisit à l’église: on celebra la sainte messe: le bon Vicaire, qui me soupçonnait une résignation que je n’avais point, me fit un long sermon où il n’y avait pas un mot qui ne fût à contre-sens...» Siamo all’ora della professione: «est-ce de votre plein gré et de votre libre volonté que vous êtes ici? – Je répondis: non; mais celles qui m’accompagnaient répondirent pour moi, oui.» Così, replicatamente; e allora «les religieuses m’entourèrent, m’accablèrent de reproches; on me conduisit dans ma cellule et l’on m’enferma sous la clef.» (p. 21 e segg.).

Questi sforzi disperati non approdano a nulla: sottoposta in famiglia alla stessa relegazione che infranse il coraggio di Gertrude, Susanna resiste fortemente dapprima, respira la libertà e ciò le basta, ma come non cedere alle preghiere d’una madre che le si getta in ginocchio?

E qui veramente son parecchie le derivazioni manzoniane dal racconto del Diderot. Per Gertrude appena ricondotta in casa «la clausura era stretta e intera, come nel monastero, d’andare a spasso non si parlava neppure; e un coretto che, dalla casa, guardava in una chiesa contigua, toglieva anche l’ultima necessità che ci sarebbe stata di uscire....» – Susanna racconta: «J’entrai dans ma nouvelle prison, où je passai six mois, sollicitant tous les jours inutilement la grâce de lui parler, de voir mon père ou de leur écrire. On m’apportait à manger, on me servait; une domestique m’accompagnait à la messe les jours de fète, et me renfermait. Je lisais, je travaillais, je pleurais, je chantais quelquefois; et c’est ainsi que mes journées se passaient.» (p. 24). – Susanna come Gertrude la finisce scrivendo un’improvvida lettera: «J’écrivis donc sur un bout de papier (ce fatal papier s’est retrouvé, et l’on ne s’en est que trop bien servi contre moi): – maman, je suis fâchée de toutes les peines que je vous ai caussées, ecc., ecc. – La servante prit cet écrit et le porta à ma mère. Elle remonta un moment après, et elle me dit avec transport: mademoiselle, puisqu’il ne fallait qu’un mot pour faire le bonheur de votre père, de votre mère et le vôtre, pourquoi l’avoir différé si longtemps? Monsieur et madame ont un visage que je ne leur ai jamais vu....» (p. 31). La gioia che si spande nella casa di Gertrude trova riscontro nella Religieuse: «voilà la joie répandue dans toute la maison, les caresses revenues avec toutes les flatteries et toute la séduction. – Dieu avait parlé à mon coeur; personne n’était plus faite pour l’état de perfection que moi. Il était impossible que cela ne fût pas, on s’y était toujours attendu.» (p. 20).

Il motivo che determina Susanna è un motivo nobilissimo: è il sacrificio della propria volontà all’amore filiale. – Invece Gertrude è costretta a cedere per la vergogna d’un fallo, che pesa su lei. Ella ha osato fermar gli occhi sopra un paggio, ha osato abbassarsi fino a lui, accoglierne i sentimenti rispettosi, scrivergli. Non ha quasi ragione il Principe, se a questa signorina, che dà tali prove di sè, addita un mezzo onorevole d’espiazione?

Diderot, come si spiegherà più largamente in appresso, stimò condizione capitale del suo racconto che Susanna fosse pura e prima e poi: un fallo avrebbe troppo menomato ogni interesse. – Il Manzoni s’apre la via a spiegare logicamente come più tardi Gertrude s’abbandoni alla colpa, trovando un antecedente di leggerezza nella sua vita: tuttochè (bisogna pure notarlo) il Ripamonti ammettesse che sul primo la Signora spiegò delle virtù vere – e dal processo abbiamo veduto non essere stata la caduta senza lunga e fierissima lotta.

Per fini e per vie diverse, le due giovinette son finalmente monache; nè l’una, nè l’altra, naturalmente, rassegnate alla propria sorte. Abbiam detto, naturalmente; ma pel Manzoni, Gertrude avrebbe dovuto e potuto rassegnarsi. È vero: la vista delle monache, che in qualche modo avevano tenuto mano a tirarla là dentro, non poteva non esserle odiosa, e sorgeva con ciò potente in lei il desiderio di vendicarsi. Ma «avrebbe dovuto sentire una certa propensione per l’altre suore, che non avevano avuto parte in quegl’intrighi, e che senza averla desiderata per compagna l’amavano come tale; e pie, occupate e ilari le mostravano col loro esempio come anche là dentro si potesse non solo vivere, ma starci bene.» Al contrario queste eran odiose a Gertrude, perchè la loro aria di contentezza e di pietà le riusciva come un rimprovero; e quindi «non lasciava sfuggire occasione di deriderle dietro le spalle, come pinzocchere, o di morderle come ipocrite.» Se avesse voluto, dunque, qualche consolazione non sarebbe mancata a Gertrude; nel costoro amore di sorelle, nell’esempio nobilissimo che le porgevano avrebbe potuto trovare conforto ed aiuto, per esser se non altro meno insofferente del giogo. Abbiamo già visto che, quando Gertrude era bambina nel monastero, qualche monaca, memore delle stesse arti con cui avevan tirato pur essa là dentro, si sfogava a fare «carezze tenere e malinconiche» alla povera innocentina, e quest’attitudine mesta v’indica che non c’era più rivolta nelle vittime: s’eran rassegnate. Perchè alla sua volta non avrebbe fatto altrettanto Gertrude? – Oltrechè, la religione era, in ogni caso, là per accoglierla amorosa tra le braccia: essa le avrebbe fatto dimenticare il mondo e le sue effimere gioie, l’avrebbe consolata, avrebbe sopita lentamente l’irrequietezza della sua anima. «È una delle facoltà singolari e incomunicabili della religione cristiana, il poter indirizzare e consolare chiunque, in qualsivoglia congiuntura, a qualsivoglia termine, ricorra ad essa. Se al passato c’è rimedio, essa lo prescrive, lo somministra, dà lume e vigore per metterlo in opera, a qualunque costo; se non c’è, essa dà il modo di far realmente e in effetto, ciò che si dice in proverbio, di necessità virtù. Insegna a continuare con sapienza ciò ch’è stato intrapreso per leggerezza; piega l’animo ad abbracciar con propensione ciò che è stato imposto dalla prepotenza, e dà a una scelta che fu temeraria, ma che è irrevocabile, tutta la santità, tutta la saviezza, diciamolo pur francamente, tutte le gioie della vocazione. È una strada così fatta che, da qualunque labirinto, da qualunque precipizio, l’uomo capiti ad essa, e vi faccia un passo, può d’allora in poi camminare con sicurezza e di buona voglia, e arrivar lietamente a un lieto fine. Con questo mezzo Gertrude avrebbe potuto essere una monaca santa e contenta, comunque lo fosse divenuta.» Ebbene, perchè invece Gertrude si dibatte sotto il giogo, in tante smanie penose, come descrive mirabilmente con pochi tocchi il Manzoni? Perchè la religione «come l’avevano insegnata alla nostra poveretta» era per modo privata della sua essenza da non esser più che una larva come tant’altre.

Si noti orbene l’evidenza d’un contrasto che non può essere fortuito, ma deve ritenersi pensato, voluto. Diderot, a cui non sarebbe potuto mai entrare in testa che la vittima abbia a rassegnarsi, ci mostra in Susanna un’anima buona, soave, a cui non erano ignote le consolazioni della religione. Nell’inferno in cui è gettata, la religione lenisce i suoi dolori, asciuga le sue lacrime; che più? la giovinetta arriva sino a respirare per un istante gli inebriamenti del misticismo. – «Ce fut alors que je sentis la supériorité de la religion chrétienne sur toutes les religions du monde: quelle profonde sagesse il y avait dans ce que l’aveugle philosophie appelle la folie de la croix. Dans l’état où j’étais de quoi m’aurait servi l’image d’un législateur heureux et comblé de gloire? Je voyais l’innocent, le flanc percé, le front couronné d’épines, les mains et les pieds percés de clous et expirant dans les souffrances; et je me disais: voilà mon Dieu et j’ose me plaindre!... Je m’attachai à cette idée, et je sentis la consolation renaître dans mon coeur; je connus la vanité de la vie, et je me trouvai trop heureuse de la perdre avant que d’avoir eu le temps de multiplier mes fautes. Cependant je comptai mes années, je trouvais que j’avais à peine vingt ans, et je soupirais; j’étais trop affaiblie, trop abattue, pour que mon esprit pût s’élever au-dessus des terreurs de la mort; en pleine santé, je crois que j’aurais pu me résoudre avec plus de courage.» (p. 77 e seg.).

Susanna era dunque nelle condizioni migliori per rassegnarsi; ma più forte della religione stessa in quella frale giovanezza era l’angoscia della perduta libertà, era il triste spettacolo di brutture, di ferocie, di nefandezze che le offre il convento.

Qui i due racconti completamente si scindono: Gertrude entrata nel monastero rialza la testa di vittima, e si vendica e rivendica; sopra Susanna invece s’aggreva sempre più la miseria. Gertrude riesce alla colpa: Susanna non ha che uno scampo ultimo e disperato, la fuga.

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