X. Il Conte del Sagrato dopo la sua conversione.

[328]

[329]

Giunsero a Chiuso che il Cardinale, il clero e il popolo erano ancora nella chiesa. La buona donna fece andar la lettiga a casa sua, dove discese e condusse Lucia, già tutta rassicurata, e tosto le fece animo a ristorarsi dopo un sì lungo digiuno. L'invito era ben altrimenti gradevole che non nella bocca della vecchia del castello, e Lucia, che sentiva il bisogno di nutrimento, accondiscese con riconoscenza.

Intanto Don Abbondio e il Conte entrarono nella casa del curato, e quivi si stettero ad aspettare il Cardinale. Questi non tardò molto a venire, precedendo velocemente il clero, che gli faceva codazzo, ed entrato nella stanza, e veduti i due tornati, chiese tosto con ansietà: E qui?

—È qui, rispose il Conte.

—L'abbiamo condotta sanamente, rispose Don Abbondio.

—Dio sia lodato! sclamò il Cardinale, e ve ne rimeriti entrambi. E preso in disparte il Conte,[330] mentre gli altri si ritiravano: Non siete più contento ora? gli chiese. Vedete, se Dio ancor sa che fare di voi? Quindi, per quella gentile e minuta sollecitudine ch'egli metteva anche nelle cose più gravi: voi dovete essere affaticato; disse al Conte: certo voi non mi abbandonerete oggi; e.... ma questa mattina voi non avete certo pensato a far colazione?

—No davvero, rispose il Conte.

—Bene, bene, rispose il Cardinale, io voglio cominciare a provare se posso farmi obbedire da voi, e traendolo per la mano si avvicinò al buon curato di Chiuso, che se ne stava cheto fra gli altri, e gli disse con aria sorridente:

—Signor curato, voi siete tanto umile, che sarebbe dabbenaggine il non far da padrone in casa vostra. Io invito il signor Conte a pranzare con noi.

Il curato, che non lasciava mai scappare l'occasione di rispondere con un testo della Bibbia, disse, levando le mani al cielo e poi stendendole amorevolmente verso il Conte: Benedictus qui venit in nomine Domini .

Don Abbondio, invitato anch'egli, si rifiutò, dicendo di non volere abbandonare per lungo tempo il suo ovile; uscì dalla casa del curato, entrò in quella[331] dove era ricoverata Lucia, alla quale raccomandò ancora fortemente di non parlare di matrimonio col Cardinale, quindi se ne andò a casa.

Intanto la refezione fu pronta e il Cardinale si sedette a mensa, tenendosi presso, da un lato il curato, dall'altro il Conte e poscia gli altri ecclesiastici del suo seguito in un ordine consueto. La frugalità di Federigo era tanto al di qua della temperanza, che, virtù in lui, sarebbe divenuta indiscrezione se egli avesse voluto imporla agli altri: quindi nel suo palazzo la mensa dei famigliari non si misurava dalla sua, anzi in paragone di questa si poteva dir lauta. Quando poi, visitando la diocesi, egli era ospite dei parrochi, questi sapevano troppo bene che un trattamento fastoso non era il mezzo di entrare in grazia a quell'uomo e si regolavano in conseguenza. Il curato di Chiuso poi aveva un modo di pensare molto singolare. Egli riteneva che trattare sontuosamente un uomo il quale predicava a tutta possa la povertà e la modestia, sarebbe stato un dirgli coi fatti, se non in parole: io vi credo un ipocrita. Per altra parte, la borsa del curato era ordinariamente, e tanto più in quell'anno, fornita a un dipresso come quella d'un figlio scialacquatore che abbia il padre spilorcio: e l'aspetto poi della miseria universale era tanto terribile e tanto presente ad ogni momento, che un trattamento fastoso avrebbe fatto ribrezzo anche a chi non avesse avuta la carità delicata e profonda del cardinal Federigo e del curato di Chiuso. Da[332] tutti questi fatti venne di conseguenza che la tavola di quel giorno somigliò molto più alla tavola ordinaria del Cardinale che a quella dei suoi famigliari.

Ma quella compagnia, resa così singolare dalla presenza del Conte, fu gioconda. Il Cardinale, benchè atterrato dalle fatiche e angustiato dalle cure continue e dalla vista continua dei mali, pure aveva sentita in quel giorno una consolazione, che traspariva nella sua faccia e si diffondeva nei suoi discorsi e passava nei suoi commensali. Il Conte stesso, quantunque la sua vita intera pesasse in quel giorno su la sua memoria, quantunque tanti fatti si presentassero alla sua mente spogliati di quella maschera con cui gli aveva veduti nel momento della esecuzione, e lasciassero ora vedere la loro forma vera e spaventosa, pure sentiva una certa pace in quel nuovo consorzio fra quelle idee che gli facevano intravedere una nuova vita di mente, un nuovo interesse, una serie di pensieri coi quali si potesse vivere. Dopo la mensa usava il Cardinale nelle sue visite di prendere un breve riposo e poi di continuare le faccende pastorali per le quali era venuto. Ma in quel giorno non v'era riposo per lui che nello stare più che poteva unito all'animo del Conte per uniformarlo al suo; e la vigna di quel buon prete Morazzone era tanto ben coltivata, che aveva poco bisogno della ispezione di Federico. Si levò egli dunque, e preso per mano il Conte, che lo seguì volenteroso, si chiuse in una stanza con lui. Del colloquio ivi tenutosi non[333] v'è traccia nel nostro manoscritto, nè, a dir vero, noi ne facciamo carico all'autore: maravigliati come siamo ch'egli abbia potuto pescar qualche cosa di quel primo abboccamento; quando il Ripamonti stesso, un famigliare del Cardinale e biografo di lui, protesta che delle cose passate tra questo e il Conte nel secondo colloquio nulla ha trapelato. Quel poco però che il Ripamonti dice degli effetti di questo secondo colloquio serve molto a dare una idea della importanza della mutazione d'un uomo in quei tempi, e a dipinger meglio il Conte. Noi crediamo far cosa opportuna traducendo quel poco dal bel latino di quello scrittore poco conosciuto e che meriterebbe certamente di esserlo più di tanti altri, e perchè in tanta perversità di idee, di cognizioni, di giudizj e di stile, egli (checchè ne dica molto leggiermente il Tiraboschi) fu uno di quelli che più si avvicinarono a quella castigatezza e a quella semplicità che da sè stessa si attacca alle parole dove è espresso il vero; e perchè in qualche parte delle sue storie, e principalmente nella vita del cardinal Borromeo e nella descrizione della peste di Milano, si trovano osservazioni e pitture di costume, che invano si cercherebbero altrove, e che possono arricchire la storia tanto scarsa dell'animo umano. Ecco il passo del Ripamonti: «Che sia stato detto in quel colloquio, non è a nostra notizia; perchè nè fra noi v'era chi fosse ardito d'inchiederne il Cardinale, nè mai quell'altro ne fece motto con chicchessia. Certo, dopo[334] il colloquio, tanta e sì repentina fu la mutazione d'animo e di costumi di quell'uomo, che nessuno dubitò di attribuire il prodigio alla efficacia di quel colloquio, e tutta quella famiglia di scherani vide in quel fatto la mano del Cardinale, e lo colse in odio come colui che le aveva tolto il suo guadagno. L'altra famiglia pure, che, sparsa ed appostata nei due Stati, viveva degli ordini sanguinolenti di costui, s'accorse, dal cessare delle orribili paghe, della nuova mansuetudine di lui. Ad un tempo, molti dei principali della città, uniti con lui in occulta società di atroci consiglj e di funeste faccende, poichè videro le operazioni già accordate e avviate rimanersi a mezzo, abbandonate da lui, supposero tosto ch'egli aveva cangiato vita, nè disconobbero l'autore d'un tanto cangiamento. E dovettero pure avvertirlo alcuni principi stranieri, che da lontano avevano adoperato quest'uomo a qualche grande uccisione e gli avevano più volte mandati ajuti e ministri; ma sospesi, andavano fantasticando la cagione del cangiamento, fin che fu loro manifestata dalla fama. Io, siccome non avrei voluto per ingrandire il fatto aggiungervi nulla del mio, così non debbo pure toglier fede a ciò che è toccato con mano. Vidi io stesso poco dopo quell'uomo ancora in salda e robusta vecchiezza; non gli restava più dell'antica ferocia che i vestigj e le marche con che la natura manifesta le inclinazioni e le pecche d'ognuno; ma queste marche stesse[335] apparivano temperate e quasi velate dalla recente mansuetudine e indicavano una natura disciplinata e vinta come da una forza gagliarda».

Le notizie che si ricavano da questo passo, quantunque ravvolte in termini tanto generali, ci sono sembrate adattate a supplire, almeno in parte, alla scarsezza del nostro autore, il quale, dopo avere eccitata tanta curiosità su quel personaggio e sulla sua conversione, non ne accenna altro effetto che la liberazione di Lucia; forse perchè gli altri gli sono paruti estranei al suo racconto, o fors'anche perchè a parlarne, gli conveniva rimescolare più maneggj e toccare più persone che non comportasse la sua squisita prudenza.

Riferisce egli però compendiosamente le prime disposizioni che il Conte diede in quel giorno stesso al nuovo governo della sua famiglia; e noi le ripeteremo dietro la sua relazione.

Staccatosi dal Cardinale, egli si avviò solo, a piede e disarmato com'era, al castello, e fece la strada e l'entrata con quella sicurezza e fortezza d'animo che non aveva avuta nella spedizione del mattino: perchè egli non aveva ora una innocente da mettere in salvo: i pericoli, se ve n'aveva, erano tutti per lui; e il disprezzo dei pericoli, fatto già in lui un sentimento abituale, acquistava allora una nuova forza, una nuova ragione dai suoi nuovi pensieri. La sua condotta di tanti anni lo aveva posto in una situazione tale che per assicurare la sua vita, egli aveva mestieri[336] di molto più mezzi e riguardi che non abbisognassero al comune degli uomini; e una delle prime riflessioni che gli erano occorse dopo il suo proposito di nuova condotta si era che una gran parte di questi mezzi non poteva più conciliarsi con questa sua nuova condotta. Ma egli aveva sentito con persuasione, (e probabilmente fu questo uno dei capi ch'egli discusse in quel colloquio col Cardinale), aveva sentito che le ingiustizie passate non potevano rendergli necessarie nuove ingiustizie, che egli doveva assicurare la propria vita solo perchè questo era un dovere, e che era un dovere soltanto fin dove per adempirlo non si dovesse ricorrere a mezzi illeciti; che i pericoli che potevano nascere per lui nel suo nuovo genere di vita inoffensiva ed espiatoria, erano una conseguenza del male da lui fatto a man salva per sì lungo tempo, una punizione ch'egli doveva subire. Quindi tutta la vigorìa d'animo ch'egli impiegava altre volte nell'offendere, s'era ora trasformata in una vigorosa disposizione a tollerare: era un dissimile, ma eguale, anzi più forte coraggio: e continuò a produrre l'effetto solito di questo dono, quello di far rispettare colui che ne è fornito.

Entrato il Conte nel castello, comandò che si ragunassero tutti i suoi...... non sapeva trovare un nome che tutti gli abbracciasse...... Tutti gli uomini, disse, dopo d'avere esitato un momento. L'apparizione misteriosa del mattino, la ripartita e l'assenza avevano destato una grande curiosità: erano[337] già corse fino al castello romori che annunziavano la conversione del Conte e il tripudio di tutti gli abitanti del vicinato e di quelli che erano concorsi in quel giorno all'arrivo del Cardinale: tutti i bravi, che si trovavano al castello, o nei primi dintorni, vennero alla chiamata con molta ansietà. Congregati che furono, il Conte, con viso fermo, con voce risoluta e senza tergiversare, dichiarò a tutti ch'egli aveva proposto di mutar vita, che si doleva e si vergognava della passata, che a tutti chiedeva perdono degli orribili esempj e degli incitamenti che aveva loro dati a mal fare, che quanto era in lui egli gli avrebbe tutti ajutati con un nuovo esempio e coi mezzi ch'erano in sua facoltà ad operare diversamente: che quelli i quali fossero del suo parere, rimanendo con lui, potevano esser certi ch'egli avrebbe avvisato tosto al modo d'impiegare la loro opera in un modo utile ed onesto, e ad ogni modo avrebbe diviso con essi fino all'ultimo tozzo di pane: ma che protezione per ribalderie non ne avrebbe più data ad alcuno: e che finalmente quelli ai quali non piacesse di sottoporsi a questa nuova regola, dovessero partirsi dal suo servizio, ch'egli era dolente di perdergli, ma risoluto.

La più studiata orazione di Demostene non produsse mai tanto varie e forti impressioni nel popolo d'Atene, quanto il breve discorso del Conte in quel picciolo popolo selvaggio. Ma per quanto diversi fossero i pensieri che sorbollivano in quei cervelli[338] ad un tale annunzio, l'effetto esterno fu un solo: un cupo silenzio. Molti di quei ragunati erano contadini del Conte, stabiliti sui suoi poderi, avvezzi dall'infanzia ad obbedirgli, e taluni fra di essi erano divenuti scellerati per obbedienza, tutti questi non vedevano un avvenire un po' sicuro che rimanendo con lui, e questi risolvettero di sottomettersi alle nuove condizioni e di rassegnarsi a divenire galantuomini. Altri, fuorusciti di mestiere, venuti da altri paesi, senza famiglia, nè avviamento, bestemmiavano in cuor loro la risoluzione del padrone, tanto era il predominio che il carattere di lui aveva preso sull'animo loro, che non ardivano fare un motto di lamento. Questa idea di conversione era confusa nei loro cervellacci, e non potevano nemmeno immaginarsi che in un uomo come il Conte potesse produrre l'effetto di fargli sopportare una risposta arrogante: pensavano che l'effetto d'una temerità usatagli produrrebbe il solito effetto, con la sola differenza che il temerario morrebbe ora per le mani d'un santo. Così, incerti l'uno dell'altro, nessuno osava fiatare il primo; e la sommissione dei primi, che si manifestava più sui loro volti e nel contegno, toglieva ancor più a quei secondi l'animo di poter dire o far nulla che potesse spiacere al Conte. Quel tripudio poi, quel rincoramento che s'era manifestato nella popolazione gli rendeva ancor più irresoluti; avrebbero potuto ridersi di questa gioja impotente finchè avevano il Conte per loro, alla lor testa, ma quando la folla era con lui, e sarebbe stata contra loro, si trovavano come smarriti.

[339]

Dopo quel breve silenzio, il Conte si rivolse a quello che più gli era vicino, e gli chiese risolutamente quale fosse il partito ch'egli sceglieva, e così di mano in mano con tutti. Dava lodi e promesse a quelli che chiedevano di rimanere, ammoniva gli altri, e quando ripetevano di voler partire, chiedeva loro quanta parte di salario fosse loro dovuta; vi aggiungeva una gratificazione, scriveva la somma sur una cartolina, che teneva nella mano sinistra, la dava a colui che voleva partire, gli comandava di andare dall'intendente a farsi pagare e di uscir tosto dal castello. Tutti pigliavano la carta, e se ne andavano senza far motto. In tutti questi parlamenti il carattere del Conte aveva fatto naturalmente, e senza che il Conte lo sapesse bene, ciò che fatto a disegno sarebbe stato un miracolo di presenza di spirito e di artificiosa prudenza, e forse non avrebbe potuto così bene riuscire. Nelle ammonizioni ch'egli dava a coloro, nelle esortazioni a meglio riflettere, nelle preghiere stesse, fino nelle scuse non v'era mai un momento in cui il suo interlocutore potesse sentire una superiorità, intravedere in lui una punta di debolezza, d'irresoluzione, di abbassamento, che invitasse nemmeno uno di quegli animi ad elevarsi e a cadergli addosso.

Quale divenisse il castello dopo la partenza di quei più facinorosi, il manoscritto non lo dice, nè ci è venuto fatto di trovarne notizia altrove. Il nostro autore dice che il Conte andò ogni giorno ad[340] abboccarsi col Cardinale finchè durò la visita di esso in quei contorni: di un solo di questi abboccamenti egli riferisce le particolarità; e il nome del Conte del Sagrato non ricompare poi più nel manoscritto.

[341]

Share on Twitter Share on Facebook