II. Lucia e Agnese a Monza—Presentazione al monastero—Storia Della Signora—suo Colloquio con Lucia.

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Dove siamo? Il nostro autore non lo dice, anzi protesta di non volerlo dire. Abbiam già avvertito che delle due classi fra le quali era divisa la società al suo tempo, di circospetti cioè e di facinorosi, d'uomini che avevano, e d'uomini che facevano paura, egli apparteneva alla prima. La sua timida discrezione raddoppia però a questo punto della narrazione: e il progresso della narrazione stessa ne fa vedere il motivo. Le avventure di Lucia nel suo novello soggiorno si trovano implicate con intrighi tenebrosi, misteriosi, terribili, di persone, che deggiono essere state potenti, e imparentate assai: e l'autore si scopre impacciato tra il desiderio di raccontare quello che sa, e il terrore di offendere di quelle famiglie, il mormorare contra le quali era un peccato punito in questo mondo. Quindi egli va col calzare del piombo, e, narrando i fatti, sopprime tutte le indicazioni che potrebbero servir di filo a trovar le persone, e fra queste indicazioni anche quella del luogo. Ma in questa parte almeno egli[16] non è stato destro abbastanza, e noi possiamo annunziare, senza timore d'ingannarci, il luogo dove si è fermata Lucia: poichè l'autore, senza avvedersene, ci ha dato un filo, che condurrebbe alla scoperta anche un ragazzo. Egli dice, in un passo del suo racconto, che Lucia giunse ad un borgo nobile ed antico, al quale di città non mancava che il nome; altrove parla del Lambro, che vi scorre; altrove ancora dice che v'era un arciprete: con queste indicazioni non v'ha in Europa uomo che sappia leggere e scrivere, il quale tosto non esclami: Monza.

La madre e la figlia si trovavano dunque, dopo la partenza di Fermo, solette in una osteria di Monza, senza alcuna pratica del paese, senza alcuna conoscenza, non avendo in così alto mare altra bussola che la lettera del Padre Cristoforo. La lettera era diretta al Padre Guardiano dei Cappuccini. Agnese chiese conto del convento alla moglie dell'albergatore; la quale non lo diede che dopo aver tentata ogni via per avere un pagamento anticipato di un così picciol servizio, in tante informazioni sul nome e sulla qualità delle donne, sui motivi del loro viaggio, sugli affari che potevano avere col Padre Guardiano. Ma le donne, alle quali era stato dal loro protettore raccomandata la discrezione, seppero ingannare le ciarle della ostessa, la quale fu obbligata di insegnar loro gratuitamente la via del convento. Si mossero quindi tosto, benchè dovessero risentirsi del travaglio della notte e del giorno antecedente; la lepre cacciata[17] non sente la stanchezza che quando ha trovato un ricovero.

Agnese, a cui l'aspetto di Monza non era nuovo, perchè v'era passata molti anni addietro, nè imponente, perchè aveva soggiornato a Milano, camminava francamente, guidando e incoraggiando Lucia, la quale andava rasente il muro tutta sospettosa. Girando di via in via, e ad ogni rivolta di canto trovando ancora vie e case, era Lucia colpita da una maraviglia mista di non so quale afa, come chi vede una brutta grandiosità. Ma il sentimento predominante di accoramento e di terrore non le dava campo di esprimere quello che allora provava, nè provarlo distintamente e con forza. Giunte alla porta del convento, tirarono il campanello, e al portinajo, che sopravvenne, chiesero del Padre Guardiano, al quale avevano una lettera da consegnare. Quando Lucia vide una tonaca cappuccinesca le parve di essere in paese conosciuto, e si riebbe alquanto. Il Padre Guardiano non si fece aspettare, salutò le donne, prese la lettera dalle mani di Agnese, e veduta la soprascritta, disse con una voce che annunziava la compiacenza: Oh! il mio Padre Cristoforo. Il Padre Cristoforo era stato suo collega nel noviziato, e d'allora in poi essi avevano contratta una amicizia da chiostro, voglio dire una amicizia cordiale, intima più che fraterna,[18] simile a quelle che si narrano di qualche pajo d'uomini dell'antichità, di quelle che si formano in tutte le società separate con vincoli particolari dalla società universale degli uomini. Queste frazioni, questi crocchj creano fra tutti i membri che li compongono un vincolo particolare d'interessi, di amor proprio comune e di benevolenza, vincolo talvolta debole assai e che non basta ad impedire odj accaniti e mortali, ma forte però abbastanza per contenere gli odj nell'interno della picciola società, e per dare a quegli stessi che si odiano una apparenza e una condotta da amici ogni volta che essi si trovino in contrasto cogli estranei. Quando poi una conformità di patimenti e di inclinazioni, crea fra due individui di queste società una benevolenza particolare, essa è tanto più forte, quanto più essi si sono scelti in un picciol numero già separato dal resto degli uomini.

Il Padre Guardiano aperse la lettera, e di tempo in tempo alzava gli occhi dal foglio e guardava Lucia e la madre con aria di compassione e d'interessamento. Quand'ebbe terminato, crollò alquanto il capo, pensò, passò la mano sul mento barbuto, e quindi sulla fronte, e disse, come chi spera di aver trovato quello di che aveva bisogno:—Non c'è altri che la Signora: se la Signora vuol pigliarsi l'impegno....—Fece[19] quindi a bassa voce ad Agnese alcune interrogazioni, alle quali essa soddisfece, indi domandò:—Volete seguirmi? Io spero di aver trovato ove collocare in sicuro questa buona ragazza.—Le donne si disser pronte a far tutto ciò che sarebbe da lui suggerito: e il Padre—venite con me, disse; statemi soltanto alcuni passi addietro; perchè, vedete, il paese è maligno, e Dio sa quante storie si farebbero se si vedesse il Padre Guardiano con una bella giovane, voglio dire con donne per la via.—Lucia arrossì, e con la madre tenne dietro al Guardiano alla distanza ch'egli aveva indicata. Giunti al monastero, il Guardiano si fermò sulla soglia, le aspettò, e raccomandatele alla moglie del fattore, la quale le introdusse in una stanzetta che dava sulla via, progredì nel cortile, promettendo di tornare a momenti.

L'interrogatorio della fattora fu, come doveva essere, più imperioso, più astuto, più pressante d'assai che non fosse stato quello dell'albergatrice; e Agnese, schermendosi a stento, andava già componendo una filastrocca nella sua mente, perchè vedeva di non potersi sbrigare senza raccontar qualche cosa, quando, per buona sorte, ritornò il Padre Guardiano, con faccia giuliva, ad annunziare alle donne che la Signora si degnava riceverle. La fattora le lasciò partire, guardando con dispetto il Guardiano ch'era venuto a farle fuggir di mano una preda che stava per cadere nel laccio.

Attraversando il cortile, il Guardiano addottrinò le donne sul modo da tenersi colla Signora.—Siate[20] umili e riverenti, raccomandatevi alla sua protezione, rispondete con semplicità alle interrogazioni ch'ella sarà per farvi, e quando non siete interrogate, lasciate fare a me.—

Agnese e Lucia stavano in grande aspettazione, mista di speranza e di pensiero, di questa Signora: ma non ardirono nemmeno domandare al Padre chi ella fosse. Probabilmente un lettore di questi tempi non sarà così modesto, e per prevenire la sua impazienza è forza dirgli chi fosse la Signora; ma, come si usa con chi vuol troppo pressare, si potrà dargli una risposta, la quale, sembrando soddisfare a tutta la sua inchiesta, contenga però solo quel tanto che non si potrebbe tacere.

Era la Signora una giovane donna, uscita di sangue principesco, che era stata posta dall'adolescenza in quel monastero, e vi aveva assunto il velo, e fatta la professione. Aveva essa l'incarico di vegliare sulle fanciulle che erano nel monastero per educazione, e il suo titolo sarebbe stato maestra delle educande, ma per la sua nascita, per le parentele, e per la superiorità che queste le davano sulle altre sorelle, non era chiamata con altro nome che di Signora; ed era da tutte riguardata come la protettrice, la donna principe del monastero; e, con una distinzione unica, due suore erano destinate ai suoi servizi ed abitavano seco lei in un picciolo quartiere ch'ella teneva invece di cella. La sua protezione e la sua influenza si estendeva fuori delle mura del[21] monastero; e i cappuccini, i quali di generazione in generazione, o per meglio dire di vestizione in vestizione, erano ab immemorabili in rapporto di amicizia col monastero, godevano essi pure di questa protezione. Ecco perchè il Padre Guardiano fece tosto assegnamento su la Signora, ed ecco perchè Lucia è condotta ora dinanzi a lei.

Dal cortile si entrò in una stanza terrena, e da questa si passava al parlatorio; prima di porvi il piede, il Guardiano, accennando la porta aperta, disse sottovoce alle donne:—qui è la Signora,—come per farle rissovenire di tutti gli avvertimenti che dovevano seguire. Lucia non aveva mai veduto un monastero; ponendo, tutta timorosa, il piede sulla soglia del parlatorio, si guardò intorno, per vedere dove fosse la Signora, a cui si doveva fare l'inchino, e non iscorgendo persona, stava come smemorata, quando, osservando il Padre, che andava ritto verso una parte, e Agnese che lo seguiva, guatò, e vide un pertugio, alto la metà d'una finestra e largo quasi il doppio, con una doppia grata, la quale, togliendo ogni passaggio alla stanza vicina, la lasciava però quasi tutta vedere, e presso alla grata vide la Signora in piedi, e le s'inchinò profondamente, come avevano già fatto gli altri due. L'aspetto della Signora, d'una bellezza sbattuta, sfiorita alquanto, e direi quasi un po' conturbata, ma singolare, poteva[22] mostrare venticinque anni. Un velo nero, teso orizzontalmente sopra la testa, scendeva a dritta e a manca dietro il volto, sotto il velo una benda di lino stringeva la fronte, al mezzo; e la parte che si vedeva diversamente, ma non meno bianca della benda, sembrava un candido avorio posato in un nitido foglio di carta: ma quella fronte, liscia ed elevata, si corrugava di tratto in tratto quando due nerissimi sopracigli si riavvicinavano per tosto separarsi con un rapido movimento. Due occhi, pur nerissimi, si fissavano talvolta nel volto altrui con una investigazione dominatrice, e talvolta si rivolgevano ad un tratto come per fuggire: v'era in quegli occhi un non so che d'inquieto e di erratico, una espressione[23] istantanea, che annunziava qualche cosa di più vivo, di più recondito, talvolta di opposto a quello che suonavano le parole che quegli sguardi accompagnavano. Le guancie pallidissime, ma delicate, scendevano con una curva dolce ed eguale ad un mento rilevato appena come quello d'una statua greca. Le labbra regolarissime, dolcemente prominenti, benchè colorate appena d'un roseo tenue, spiccavano pure fra quel pallore, e i loro moti, come quelli degli occhi, vivi, inaspettati, pieni di espressione e di mistero. Una gorgiera bianca, increspata, lasciava intravedere una striscia di collo bianco e tornito. La nera cocolla copriva il rimanente dell'alta persona, ma un portamento disinvolto, risoluto, rivelava o indicava, ad ogni rivolgimento, forme di alta e regolare proporzione. Nel vestire stesso v'era qua e là qualche cosa di studiato, o di negletto, di strano insomma, che, osservato in uno colla espressione del volto, dava alla Signora l'aspetto di una monaca singolare. La stoffa della cocolla e dei veli era più fine che non s'usasse a monache, il seno era succinto con un certo garbo secolaresco, e dalla benda usciva sulla[24] tempia manca l'estremità d'una ciocchetta di nerissimi capegli: il che dimostrava o dimenticanza o trascuraggine di tener, secondo la regola, sempre mozze le chiome, già recise nella cerimonia solenne della vestizione. Questa stessa singolarità si faceva osservare nei moti, nel discorso, nei gesti della Signora. S'alzava ella talora con impeto a mezzo il discorso, come se temesse in quel momento di esser tenuta, e passeggiava pel parlatorio; talvolta dava in risa smoderate, talvolta levando gli occhi, senza che se ne intendesse una cagione, prorompeva in sospiri; talvolta, dopo una lunga e manifesta distrazione, si risentiva, ed approvava con negligenza ragionamenti che la sua mente non aveva avvertiti. Queste cose non si facevano scorgere a Lucia, non avvezza a scernere monaca da monaca, e neppure ad Agnese: l'occhio del Padre Guardiano era certamente più esercitato, ma perciò appunto era avvezzo ad osservare senza maraviglia nei grandi sempre qualche cosa di straordinario; e quindi s'era già da molto tempo addomesticato all'abito e ai modi della Signora. Ma ad un viaggiatore, che l'avesse veduta per la prima volta, ella avrebbe potuto parere non molto dissimile da una attrice ardimentosa, di quelle che nei paesi separati dalla comunione cattolica facevano le parti di monaca in quelle commedie dove i riti cattolici erano soggetto di beffa e di parodia caricata.

In quel momento ella ora, come abbiamo detto, ritta in piedi presso la grata, appoggiata ad essa mollemente[25] con una mano, intrecciando le bianchissime dita nei fori di quella, e colla faccia alquanto curvata osservando quelli che si presentavano, e specialmente Lucia.

—Reverenda madre, e signora illustrissima, disse il Padre Guardiano, colla fronte bassa e colla destra tesa sul petto; ecco quella innocente derelitta, per la quale imploro la sua valida protezione.—E sulle ultime parole accennava alle donne che accompagnassero con atti e con inchini la sua supplicazione; la povera Agnese, dopo d'aver fatto al Padre un cenno del volto, che voleva dire: so quel che va fatto, raddoppiava gl'inchini, rannicchiandosi e risorgendo come se una molla interna la facesse muovere, e Lucia s'inchinò pure, da inesperta, ma con una certa grazia, che la bellezza, la giovinezza e la purità dell'animo danno a tutti i movimenti. La Signora curvò leggermente il capo verso il Padre Guardiano, fece alle donne cenno della mano che bastava, e ch'ella gradiva i loro complimenti, fece a tutti cenno di sedersi, sedette, e sempre rivolta al Padre, rispose:—Ho appreso dai miei antenati a non negare la mia protezione a chiunque la meriti: io non ho da essi ereditato che il nome; e son lieta che anche questo possa almeno essere buono a qualche cosa. È una buona ventura per me il poter render servizio a' nostri buoni amici i padri cappuccini.—Queste parole furono accompagnate da un sorriso, che ad altri avrebbe potuto parere di compiacenza, ad altri di scherno. Il Padre Guardiano[26] si faceva a render grazie, ma la Signora lo interruppe:—Non mica complimenti, Padre Guardiano; i servizj fatti agli amici hanno con sè il loro guiderdone; e del resto, ad ogni evento, io non dubiterei di far conto sul ricambio dei nostri buoni padri. Il mondo è pieno di tristi e d'invidiosi: e nessuno può assicurarsi che non venga un momento in cui possa aver bisogno di una buona testimonianza, e d'aiuto.—Il Guardiano rispose premurosamente con una frase di gesti: la prima parte della quale significava che la Signora non avrebbe mai bisogno di nessuno, e la seconda che i padri avrebbero tenuto a ventura ogni occasione di far cosa grata alla Signora. Questa proseguì:—Ma via, mi dica un po' più particolarmente il caso di questa giovane, e così si vedrà meglio che si possa fare per essa.—

Lucia arrossò tutta e chinò la faccia sul seno.

—Deve sapere, reverenda madre, cominciò Agnese, che questa mia povera figliuola, perchè io sono sua madre....—

Il Guardiano le gittò un'occhiata e interruppe:—Questa giovane, signora illustrissima, mi è raccomandata da un mio confratello: essa ha bisogno per qualche tempo di un asilo nel quale possa stare sconosciuta, o nel quale nessuno ardisca toccarla; e questo per sottrarsi a dei gravi pericoli.—

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—Pericoli! disse la Signora. Quali pericoli? di grazia, Padre Guardiano. Mi dica la cosa per minuto: ella sa che noi altre monache siamo vaghe di intendere storie.—

—Sono, rispose il Padre, pericoli dei quali la reverenda madre non conosce nemmeno il nome, beata lei! e parlarne più distintamente sarebbe offendere le purissime vostre orecchie e contaminare l'illibatezza dei vostri pensieri, Signora illustrissima.—

—Oh certamente!—rispose precipitosamente la Signora, senza molto badare all'aggiustatezza della risposta, e si fece tutta di porpora. Era verecondia? Chi avesse osservata una subitanea, ma viva espressione di scherno e di dispetto, che accompagnò quel rossore, avrebbe potuto dubitarne; e tanto più se lo avesse paragonato con quello che di tratto in tratto saliva sulle guance di Lucia.

La Signora si alzò in fretta, come per avvicinarsi più alle donne, e stava per rivolgere il discorso a Lucia, quando il Guardiano, temendo di non aver mal detto, ripigliò così il discorso:—Non tutti i grandi del mondo si servono dei doni di Dio a gloria di lui e a vantaggio del prossimo, come fa la Signora illustrissima. Un cavaliere, prepotente e senza timor di Dio, ha tentato ogni via, giacchè deggio pur dirlo,[28] per insidiare la castità di questa creatura, e dopo d'aver veduto che i mezzi di lusinga gli andavano falliti, non temè di ricorrere alla forza aperta, tentando insomma di farla rapire. Ma Dio non l'ha lasciata cadere in quei sozzi artigli, e le ha invece preparato un ricovero sotto le ali incontaminate...—

—Ma voi, disse la Signora, rivolta repentinamente a Lucia,—voi che dite di codesto signore? A voi tocca a dirci se egli era un persecutore, e se aveva gli artigli sozzi.—

—Signora, madre, illustrissima, balbettò Lucia, che sarebbe stata confusa a dover rispondere su questa materia, quando pure l'inchiesta le fosse venuta da una persona sua pari e conosciuta. Ma Agnese venne in soccorso,—Illustrissima signora, diss'ella, ella parla troppo alto per questa povera figliuola. Ma io posso far testimonio che la mia Lucia aveva in orrore colui, come il diavolo l'acqua santa; voglio dire, il diavolo era egli; ma ella mi compatirà se parlo male, perchè noi siam gente come Dio vuole; del resto, questa povera ragazza aveva un giovane che le parlava, un nostro pari, timorato di Dio, e bene avviato, e se il signor curato avesse avuto un po' più di giudizio; so che parlo d'un religioso, ma il Padre Cristoforo, amico intrinseco qui del Padre Guardiano, è religioso al pari di lui e davvantaggio, [29]e potrà attestare...

—Voi siete ben pronta a parlare senz'essere interrogata, disse la Signora, dando sulla voce ad Agnese.—Non so che fare dei parenti che rispondono pei loro figliuoli.—Agnese voleva aprir bocca, ma la Signora, con tuono ancor più brusco, riprese:—Zitto, zitto; le vostre parole non servono a nulla.—Così dicendo, il suo aspetto prendeva sempre più un non so che di sinistro, di feroce, che quasi faceva scomparire ogni bellezza, o almeno la alterava, di modo che chi avesse osservato quel volto in quel punto ne avrebbe conservata una immagine disgustosa per sempre. I suoi guardi erano fissi sopra Agnese, torvi e sospettosi, come se cercassero a raffigurare un nemico. E continuò:—Voi fate conto forse, che perchè io son qui rinchiusa, fuori del mondo, senza esperienza, mi si possa dare ad intendere qualunque cosa. Povera donna! Appunto perchè son qui, sono men facile ad essere ingannata su certe materie. Certo lo sposo che i parenti destinano ad una figlia è sempre un uomo compito, e il monastero dove la vogliono rinchiudere è così allegro! in così bella situazione! così tranquillo! è un paradiso! Poveretti! portano invidia alla loro figlia; vorrebbero anch'essi ritirarsi in quel porto di pace, ah! a far vita beata, ma..... pur troppo son legati nel mondo. Scusi il mio caldo, Padre, ma ella sa meglio di me, almeno ella deve saper troppo bene come vanno queste cose, la menzogna la più imperterrita, la più persistente, la più solenne è quella che sta sul labbro di colui che vuole[30] sagrificare i suoi figli, e far loro violenza. Questi sono i peccati contra i quali si dovrebbe predicare: a costoro bisognerebbe minacciare l'inferno.—

A queste parole, la Signora si pose a sedere, tutta turbata, ed ognuno si sarebbe avveduto che un pensiero, che i discorsi di Agnese avevan fatto nascere, dominava allora la sua mente, e che gli affari di Lucia non erano che un oggetto di considerazione secondaria.

Agnese intanto rimproverava alla figlia che il suo non saper parlare le avesse tirata addosso questa tempesta; il Guardiano voleva pure animar Lucia a parlare, ma questa, animata già dalla circostanza, si avvicinò alla grata e in tuono modesto, ma sicuro, disse:—Reverenda signora, quanto le ha detto la mia buona madre è la pura verità. Il giovane che mi parlava, e qui arrossò, lo sposava io... di mio genio; mi perdoni se parlo da sfacciata, ma è per difendere mia madre: e quanto a quel signore...

—Buona fanciulla, interruppe la Signora, con voce raddolcita—credo un po' più a voi, ma non vi credo ancora del tutto. Vi ha due linguaggi che si somigliano; quello che parte dal fondo del cuore, e quello d'una figlia oppressa, che dice il falso per terrore, e[31] protesta di amare ciò ch'ella abborre più al mondo. Voglio sentirvi da sola a sola. Padre Guardiano, se ella conoscesse per testimonianza degli occhi suoi i casi di questa giovane, certo ch'io non istarei ora in dubbio: ma ella non li conosce che per relazione: e per me, piuttosto che servire alla violenza fatta ad una povera giovane...

—Il Padre Cristoforo, disse il Guardiano, che mi ha posto nelle mani questo affare, è uomo tanto oculato, quanto lontano dal favorire una violenza, ed alla sua asserzione io credo quanto ai miei occhi. Stimo però cosa molto savia, che la Signora illustrissima esamini col suo senno consumato questa faccenda, e spero che l'esame, mostrandole la verità dell'esposto, la determinerà ad accordare il suo appoggio a questa famiglia perseguitata.

—Lo spero, rispose la Signora, con una placidezza garbata, e come desiderosa di far dimenticare il trasporto passato: lo spero, e quel poco ch'io potrò fare prego il Padre Guardiano di attribuirlo in gran parte alla sua intromissione. Per ora ecco quello che mi sovviene di poter fare. La fattora del monastero ha collocata da pochi giorni l'ultima sua figliuola. Questa giovane potrà occupare la stanza abbandonata da quella, e supplire ai pochi servizi ch'ella faceva. Ne parlerò colla madre Badessa, ma da quest'ora le do la cosa per fatta, sempre che Lucia ne sia contenta.—Il Guardiano proruppe in ringraziamenti, che la Signora troncò gentilmente, ma lasciando però capire[32] ch'ella faceva assegnamento sulla riconoscenza dei cappuccini. Chiamò quindi una delle monache che le facevano da damigelle, e datole le opportune istruzioni, disse ad Agnese che andasse alla porta del chiostro, per intendersi colla monaca e colla fattora, e per andar quindi a disporre l'alloggio che sarebbe destinato a lei ed a Lucia. Il Padre si congedò, promettendo di ritornare ad informarsi della decisione: le tre donne furono tosto a consulta, e Lucia rimase sola con la Signora a subire l'esame.

Le parole della Signora nel colloquio che abbiamo trascritto non annunciavano certamente un animo ordinato e tranquillo; eppure ella s'era studiata in tutto quel colloquio per comparire una monaca come le altre. Ma quando ella si trovò sola con Lucia, ella si studiava tanto meno, quanto meno temeva le osservazioni di una giovane forese, di quelle d'un vecchio cappuccino. Quindi i suoi discorsi divennero sì stranj, per una monaca singolarmente, che prima di riferirli è necessario raccontare la storia di questa Signora, e rivelare le passioni e i fatti che renderanno tale il suo linguaggio.

Questi fatti sono tristi e straordinarj, e per quanto a quei tempi, di funesta memoria, fossero comuni,[33] molte cose che sarebbero portentose ai nostri, l'autorità di un anonimo non avrebbe bastato a farci prestar fede a quello che siam per narrare: frugando quindi, per vedere se altrove si trovasse qualche traccia di questa storia, ci siamo abbattuti in una testimonianza, la quale non ci lascia alcun dubbio. Giuseppe Ripamonti, canonico della Scala, cronista di Milano, etc. scrittore di quel tempo, che per le sue circostanze doveva essere informatissimo, e negli scritti del quale si scorge una attenzione di osservatore non comune, e un candore quale non si può simulare, il Ripamonti racconta di questa infelice cose più forti di quelle che sieno nella nostra storia; e noi ci serviremo anzi delle notizie ch'egli ci ha lasciate per render più compiuta la storia particolare della Signora. Queste cose però, quantunque rese più che probabili da una tale testimonianza, e quantunque essenziali al filo del nostro racconto, noi le avremmo taciute; avremmo anche soppresso tutto il racconto, se non avessimo potuto anche raccontare in progresso un tale mutamento d'animo nella Signora, che non solo tempera e raddolcisce l'impressione sinistra che deggiono fare i primi fatti della Signora, ma deve crear una impressione d'opposto genere e consolante. Avremmo, dico, lasciato di pubblicare tutta questa storia, e ciò per non offendere coloro ai quali il rimettere nella memoria degli uomini certe colpe già pubbliche, ma dimenticate, quando non siano terminate con un grande esempio, o con un gran pentimento, sembra uno scandalo[34] inutile, comunque uno le esponga. Senza esaminare il valore di questo modo di sentire, noi lo avremmo rispettato, quando ciò non costava altro che di sopprimere un libro. Che se poi altri volesse censurare queste scuse come inutili, e ci accusasse di cader sempre in digressioni, che rompono il filo della matassa e fermano l'arcolajo ad ogni tratto, egli obbligherebbe chi scrive a fare una altra digressione, e a rispondergli così: Il manoscritto unico, in cui è registrata questa bella storia degli sposi promessi, è in mia mano: se la volete sapere, bisogna lasciarmela contare a modo mio: se poi non vi curaste più che tanto di sentirla, se il modo con cui è raccontata vi annojasse, giacchè dagli uomini si può aspettar qualunque eccesso; in questo caso chiudete il libro, e Dio vi benedica.

Il padre della infelice, di cui siamo per narrare i casi, era, per sua sventura e di altri molti, un ricco signore, avaro, superbo e ignorante. Avaro, egli non avrebbe mai potuto persuadersi che una figlia dovesse costargli una parte delle sue ricchezze: questo gli sarebbe sembrato un tratto di nemico giurato, e non di figlia sommessa ed amorosa; superbo, non avrebbe creduto che nemmeno il risparmio fosse una ragione bastante per collocare una figlia in luogo men degno della nobiltà della famiglia; ignorante, egli credeva che tutto ciò che potesse mettere in salvo nello stesso tempo i danari e la convenienza fosse lecito, anzi doveroso; giacchè riguardava come il[35] primo dovere del suo stato il conservare l'opulenza e lo splendore: erano questi nelle sue idee i talenti che gli erano stati dati da trafficare, e dei quali gli sarebbe un giorno domandato ragione. Una figlia, nata in tali circostanze, e destinata a dover salvare una tal capra e tali cavoli, era ben felice se si sentiva naturalmente inclinata a chiudersi in un chiostro, perchè il chiostro non lo poteva fuggire. Tale fu il destino della Signora dal primo momento della sua vita; e quando una donzella della signora Marchesa venne, con l'aria confusa di chi confessa un fallo, a dire al signor Marchese: è una femmina; il signor Marchese rispose mentalmente: è una monaca. Si pose quindi a frugare il Leggendario, per cercarvi alla sua figlia un nome che fosse stato portato da una santa, la quale avesse sortito natali nobilissimi e fosse stata monaca; e un nome nello stesso tempo che, senza essere volgare, richiamasse al solo esser proferito l'idea di chiostro; e quello di Geltrude gli parve fatto apposta per la sua neonata. Bambole vestite da monaca furono i primi balocchi che le furono posti fra le mani, e il padre, facendola saltare talvolta sulle ginocchia, la chiamava per vezzo: madre badessa. A misura ch'ella si avanzava nella puerizia, le sue forme si svolgevano in modo che prometteva una avvenenza non comune agli anni della giovanezza, e nello stesso tempo ne' suoi modi e nelle sue parole si manifestava molta vivacità, una grande avversione all'obbedienza, e una grande inclinazione al comando, un vivo trasporto[36] pei piaceri e pel fasto. Di tutte queste disposizioni il padre favoriva quelle soltanto che venivano dall'orgoglio, perchè, come abbiam detto, lo considerava come una virtù della sua condizione; egli era superbo della sua figlia, come era superbo di tutto ciò che gli apparteneva, e lodava in essa gli alti spiriti, la dignità, il sussiego, qualità tutte che manifestavano un'anima nata a governare qualunque monastero. Della bellezza nè egli, nè la madre, nè un fratello, destinato a mantenere il decoro della famiglia, non parlavano mai; e la Signora ne fu informata dalle donzelle, alle quali prestò fede immediatamente. Benchè la condizione alla quale il padre l'aveva destinata fosse conosciuta da tutta la famiglia, e da tutti approvata, nessuno le disse però mai: tu devi esser monaca. Era questa come una idea innata; e quando veniva il caso di parlare dei destini futuri della fanciulla, questa idea si dava per sottintesa. Accadde, per esempio, che alcuno della casa, correggendola di qualche aria d'impero troppo oltracotante, le diceva: tu sei una ragazzina, questi modi non ti convengono; quando sarai la madre badessa, allora comanderai, farai alto e basso. Talvolta il padre le diceva: tu non sarai una monaca come le altre, perchè il[37] sangue si porta da per tutto dove si va; e simili discorsi, nei quali la Signora apprendeva implicitamente ch'ella aveva ad esser monaca.

Confusa con questa idea entrava però a poco a poco nella sua mente un'altra, che per essere monaca era mestieri del suo assenso volontario; e che questa cosa, tanto certa, non era però fatta, e che il farla, o non farla, sarebbe dipenduto da una sua determinazione: ma queste due idee, un po' repugnanti, si acconciavano nella sua mente come potevano: perchè se un uomo non dovesse star tranquillo che dopo d'aver messe d'accordo tutte le sue idee, non vi sarebbe più tranquillità. A sei anni fu posta in un monastero e per educazione e per istradamento alla carriera che le era prefissa. Quale coltura d'ingegno potesse riceversi a quei tempi in un monastero è facile argomentarlo dalla coltura universale, e questa si può argomentare dai libri che ci rimangono di quell'epoca. Ora, basti il dire che nella prima metà del secolo decimosettimo non uscì, ch'io sappia, in Milano un libro, non dico insigne di pensiero, ma scritto grammaticalmente: di modo che dalla ignoranza universale si[38] può francamente supporre che alle giovani di quel tempo non si sarà pensato ad insegnare nemmeno ciò che v'è di più chiaro, di più liquido, di meglio digerito nelle cognizioni umane, la storia romana. Ma quello che più importa di dire nel caso nostro si è, che quella parte di educazione, che i fanciulli riuniti in comunità si danno sempre fra di loro, operò nella Signora un effetto, contrario direttamente alla intenzione ed ai disegni dei suoi. Fra le giovanette educande, colle quali ella fu posta a vivere, erano alcune destinate a splendidi matrimonj, perchè così voleva l'interesse delle famiglie loro. Geltrudina, nutrita nelle idee della sua superiorità, parlava magnificamente dei suoi destini futuri di badessa, e a quello splendido, che la fantasia dei fanciulli vede sempre nella condizione di quelli che comandano loro, la sua fantasia aggiungeva qualche cosa di più, perchè le era stato detto tante volte: tu non sarai una monaca come le altre. Ma ella s'accorse con maraviglia, e non senza confusione, che alcune delle sue compagne non sentivano punto d'invidia di questo suo avvenire, e alle immagini circoscritte e scarse che può somministrare anche ad una fantasia adolescente[39] il primato in un monastero, opponevano le immagini varie e luccicanti di sposo, di palagi, di conviti, di villeggiature, di veglie, di tornei, di abiti, di carrozze, di livree, di braccieri, di paggi.

Queste immagini produssero nel cervello di Geltrudina quel movimento, quel ronzìo, quel bollore che produrrebbe un gran paniere di fiori appena colti collocati davanti ad un'arnia. Sulle prime ella volle competere colle compagne, e sostenere la superiorità della condizione che le era destinata; ma quanto più ella cercava di magnificare le sue dignità future, tanto più le esponeva ad un terribile genere di offesa, il ridicolo; sentimento che quelle spavalducce applicavano più naturalmente e più saporitamente alle dignità che vantava Geltrude, appunto perchè le vedevano esercitate dalle loro superiore, sorta di persone per le quali la puerizia prova così facilmente l'ammirazione, come lo scherno. E quel che è peggio, Geltrudina non poteva rivolgere le stesse armi contro le avversarie, perchè le ricchezze e la voluttà non sono di quelle cose delle quali si ride in questo mondo: si ride bensì di chi le desidera senza poterle ottenere, e di chi ne usa sgraziatamente; e questo ridere mostra l'alta estimazione in cui sono tenute le cose stesse: quei pochi che non le stimano,[40] non esprimono il loro giudizio con la derisione. Geltrudina quindi, per non restare al di sotto, non aveva altro a rispondere se non che, ella pure avrebbe potuto pigliarsi uno sposo, abitare un palagio, essere strascinata, servita, corteggiata, che lo avrebbe potuto, se lo avesse voluto, che lo vorrebbe, che lo voleva; e lo voleva infatti. Quell'idea che le stava rannicchiata in un angolo della mente, che il suo assenso era necessario perch'ella fosse monaca, e che questo assenso dipendeva da lei, si svolse allora e divenne perspicua e predominante. Con questo pensiero ella si teneva bastantemente sicura, ma non senza covare un sentimento d'invidia e di rancore contra quelle sue compagne, le quali erano ben altrimenti sicure, e ch'ella avrebbe amate, se la loro condizione non le fosse stata ad ogni momento un confronto doloroso. Perchè questa sventurata non aveva un animo ostile, non si dilettava naturalmente nell'odio; ma le sue passioni erano tanto violente e tanto delicate, ella le idolatrava tanto, che tutto ciò che poteva essere ad esse di ostacolo, offenderle, contristarle, diveniva per[41] lei oggetto di avversione, e sarebbe stato vittima del suo furore quand'ella avesse potuto impunemente sfogarlo. In questo stato di guerra mentale giunse Geltrudina a quell'età così perigliosa, che separa l'adolescenza dalla giovinezza; a quella età, in cui una potenza misteriosa entra nell'animo, solleva, ingrandisce, adorna, rinvigorisce, raddoppia di forza tutte le inclinazioni e tutte le idee che vi trova, sovente aggiungendovene una nuova, tutta in nebbia; e che talvolta fa sì che quella nuova e tutta in nebbia trasmuti tutto l'essere morale. Assoluta innocenza di pensiero, massime e pratiche di Religione ragionata, occupazioni utili e interessanti, esercizj frequenti e dilettevoli del corpo, confidenza rispettosa e libera nei parenti e negli educatori, sono i mezzi sicuri per trascorrere impunemente quella età perigliosa, e per formare una mente tranquilla, saggia e forte contra i pericoli[42] della giovinezza e di tutta la vita. Pochissimi lavori, e lo studio del canto sopra parole d'una lingua sconosciuta, non erano esercizj che potessero impadronirsi della mente di Geltrude, e trattenerla dal vagare in un mondo ideale. Gli esercizj corporali consistevano in un giro quotidiano dell'orto claustrale. La confidenza e la comunicazione delle idee era quale può trovarsi con persone le quali non pensano a conoscere un animo per dirigerlo nella sua scelta, ma a fissarlo in una scelta già destinata. E quanto alla Religione, ciò che è in essa di più essenziale, di più intimo, ciò che fa resistere alle passioni e vincerle con una dolcezza superiore d'assai a quella che le passioni soddisfatte possono arrecare, ciò che preserva dalla corruttela, e mette in avvertenza anche contra i pericoli non conosciuti, non era stato mai istillato, nè meno insegnato, alla picciola Geltrude; anzi il suo intelletto era stato nodrito di pensieri opposti[43] affatto alla Religione. Non vogliamo qui parlare d'alcuni pregiudizj, che a quei tempi principalmente si ritenevano per verità sacrosante, e s'insegnavano insieme con la verità; pregiudizj non del tutto estirpati, e Dio sa quando lo saranno; pregiudizj dannosi, principalmente perchè nella mente di molti associano all'idea della Religione quella della credulità e della sciocchezza, e dei quali perciò ogni onesto deve desiderare e promuovere la distruzione, ma pregiudizj che in gran parte non tolgono l'essenziale, e si possono conciliare con un sentimento di pietà, profonda e sincera, e con una vita non solo innocente, ma operosa nel bene, e sagrificata all'utile altrui, del che tanti esempj hanno lasciati i tempi trascorsi, e ne offrono fors'anche i presenti. Ma, come abbiamo veduto, i parenti di Geltrude l'avevano educata all'orgoglio, a quel sentimento cioè che chiude i primi aditi del cuore ad ogni sentimento cristiano, e gli apre tutte le passioni. Il padre principalmente, che aveva destinata questa poveretta al chiostro prima di sapere s'ella sarebbe stata inclinata a chiudervisi, aveva talvolta pur fatta tra sè e sè questa obbiezione, che forse Geltrude non vi sarebbe stata inclinata: caso difficile, ma non impossibile; e contra[44] il quale era d'uopo premunirsi. Supponendo adunque che Geltrude, allettata dalla vita del secolo, avesse voluto rimanervi, bisognava trovar qualche cosa che la allettasse ad abbandonarlo, per non usare della semplice forza, mezzo di esito incerto, sempre odioso e che poteva lasciar qualche dispiacere nell'animo del padre, il quale alla fine non desiderava che la sua figlia fosse infelice, ma semplicemente ch'ella fosse monaca. Il marchese Matteo non era uomo di teorie metafisiche, di disegni aerei: non aveva perduto il suo tempo sui libri, ma conosceva il mondo, era un uomo di pratica, quel che si chiama un uomo di buon senso; teneva che bisogna prendere gli uomini come sono, e non pretendere da essi gli effetti di una perfezione ideale; e che senza l'interesse l'uomo non si determina a nulla in questo mondo. Così, per venire all'interesse che il secolo poteva offrire a Geltrude, egli si era studiato di far nascere nel suo cuore quello della potenza e del dominio claustrale. Egli aveva pensato ed operato colla dirittura e colla sapienza squisita d'un uomo il quale desse il fuoco alla casa di un nimico, posta accanto alla sua, con la intenzione che quella sola dovesse andare in fuoco ed in faville. Ma il fuoco, appiccato ch'ei sia, non si lascia guidare dalle intenzioni dell'incendiario, va dove il vento lo spinge, e si trattiene a divorare dove trova materia combustibile; e le passioni, svegliate una volta, non ricevono più la legge di chi le ha ispirate, ma si volgono agli oggetti[45] che la mente apprende come più desiderabili. L'orgoglio di giovane, vagheggiata, adorata, supplicata con umili sospiri, di sposa ricca e fastosa, di padrona che comanda a damigelle ed a paggi, ben vestiti, era ben più dolce che l'orgoglio di madre badessa, e in quello tutta s'immerse la fantasia orgogliosa di Geltrudina. Cominciò dunque a far castelli in aria, a figurarsi un giovane ai piedi, a levarsi spaventata e fuggire, dicendo: come ha ella ardito di venir qui? e non ricordava più che il giovane senza una sua chiamata non sarebbe certo venuto a disturbarla. Ma quella fuga e quell'asprezza non erano a fine di scacciarlo daddovero: il giovane non perdeva coraggio; nascevano nuovi casi, e tutto finiva col matrimonio, come la più parte delle commedie. Richiamava alla memoria quel poco che aveva veduto dei passeggi della città, e vi girava in carrozza, innanzi indietro; ripensava la casa domestica, le anticamere, le livree, il comando, e rifaceva tutto per suo uso, ma in un modo più splendido. Questi pensieri l'assediavano nel dormitorio, nel refettorio, nell'orto, nel coro; ella confrontava col brillante di essi, lo squallido che aveva sottocchio, e si confermava sempre più nel proposito di non dire quel[46] sì, che si aspettava da lei. Le monache si accorsero di questa sua risoluzione, ch'ella non cercava nemmeno di nascondere affatto; poichè, malgrado la fermezza di questa risoluzione, Geltrudina rifuggiva con tremito dall'idea di manifestarla al padre di sua bocca, e desiderava ch'egli ne fosse prevenuto d'altra parte: poichè in quel caso non le restava che di sopportare la collera e le minacce del padre; operazione passiva, che le pareva molto più facile, che di pronunziare quelle parole: non voglio. La poverina faceva come colui che avendo da dire qualche cosa di spiacevole a qualcheduno, piglia la penna e gli manda le sue idee in un bel foglio di carta. Ma se la determinazione traspariva, i motivi erano celati alle monache. Geltrude li nascondeva sotto quell'aspetto di indifferenza, che la faccia dei giovanotti presenta quasi sempre all'occhio di chi comanda loro; essa li nascondeva con quella dissimulazione profonda che è data a quell'età, e che forse non ritorna più in nessuna altra epoca della vita, e che appena appena potrà aver riconquistata un diplomatico di ottant'anni, se, come si dice, gli uomini di questa professione sono i più esercitati a nascondere i loro pensieri. Con le compagne Geltrude era manco coperta, e se[47] esse avessero voluto o saputo osservare, dalle materie più frequenti del suo discorso, dall'entusiasmo al quale si abbandonava talvolta, dalla sua picciola stizza, se non altro, nella quale l'invidia era trasparente, avrebbero potuto conoscere qualche cosa dell'animo suo; qualche cosa, perchè nei sogni caldi ed arditi della pubertà v'è una parte di stranio, di fantastico, di individuale, che non si confida, nè s'indovina, a quel che dice il manoscritto.

Venne finalmente il momento di levare Geltrude dal monastero, e di ritenerla per qualche tempo nella casa e nel mondo. Il passo era spiacevole assai pel marchese Matteo, ma inevitabile, perchè una ragazza allevata in un monastero non poteva far la domanda di esservi ammessa ai voti, se non dopo esserne stata fuori per qualche tempo. Era questa una formalità, destinata ad assicurare alle figlie la libera scelta dello stato; giacchè ognuno vede che sarebbe stato troppo facile di fare abbracciare il monastero ad una giovane che, rinchiusa nel chiostro dall'infanzia, non avesse mai avuta idea di altro modo di vivere.

Nessuno ignora che le formalità sono state inventate dagli uomini per accertare la validità di un atto qualunque, assegnando anticipatamente i caratteri che quell'atto deve avere per essere un atto daddovero. Invenzione che mostra affè molto ingegno: invenzione utile, anzi necessaria, perchè la più parte delle quistioni che si fanno a questo mondo sono appunto per decidere se una cosa sia fatta, o non fatta.[48] Ma tutte le invenzioni dell'ingegno umano, partecipando della sua debolezza, non sono senza qualche inconveniente: e le formalità ne hanno due. Accade talvolta che dove gli uomini hanno deciso che una cosa non può esser realmente fatta che nei tali e tali modi, la cosa si fa realmente in modi tutti diversi e che non erano stati preveduti. In questo caso, la cosa non vale, anzi non è fatta. E non andate a farvi compatire da un sapiente col volergli dimostrare che la è fatta; egli lo sa quanto voi; ma sa qualche cosa di più, vede nella cosa stessa una distinzione profonda; vede, e vi insegna, che la cosa materialmente è fatta, legalmente non è. Dall'altra parte, accade pure, che dopo essere stato dagli uomini predetto, deciso, statuito che dove si trovino i tali e tali caratteri esiste certamente il tal fatto, si sono trovati altri uomini più accorti dei primi (cosa che pare impossibile, eppure è vera) i quali hanno saputo far nascere tutti quei caratteri senza fare la cosa stessa. In questo secondo caso bisogna riguardare la cosa come fatta; e darebbe segno di mente ben leggiera e non avvezza a riflettere, o di semplicità rustica affatto, colui che, ostinandosi ad esaminare il merito, volesse dimostrare che la cosa non è. Guai se si desse retta a queste chiacchiere, non si finirebbe mai nulla, e si andrebbe a pericolo di turbare il bell'ordine che si ammira in questo mondo. Ma questi caratteri, se non infallibili, sono almeno stati scelti dopo accurate osservazioni, senza passioni, nè secondi[49] fini, in tempi nei quali gli uomini fossero abbastanza esercitati nel riflettere su quello che vedevano, per circostanziare i fatti che dovevano essere dopo di loro? Ah! qui è la quistione; ma, per trattarla con qualche fondamento, converrebbe fare la storia del genere umano; dal che ci asteniamo, e perchè, a dir vero, non l'abbiamo tutta sulle dita, e perchè siamo per ora impegnati a raccontare quella di Geltrude, in quanto essa è necessaria a conoscere la storia ancor più vasta degli sposi promessi.

Per accertare adunque la libera e reale vocazione d'una figlia al chiostro, era prescritto che ella ne stesse assente per qualche tempo; ed era consuetudine che in questo tempo ella dovesse esser condotta a vedere spettacoli, ad assaggiare divertimenti, per conoscere ben bene quello a cui doveva rinunziare per farsi monaca. E prima di vestir l'abito, doveva essere esaminata da un ecclesiastico, il quale con interrogazioni opportune ricavasse se non le era fatta forza, e se ella non si faceva illusione, se il suo proposito era insomma libero e ragionato. Queste formalità però avevano certamente il secondo inconveniente di cui abbiamo parlato; tutto poteva andare in regola, e la giovinetta infelice chiudersi contra sua voglia. La cosa poteva accadere in molti modi: che essa sia talvolta accaduta è un fatto troppo noto, e troppo vero: chi volesse ostinatamente negarlo, abbia almeno la discrezione di non affermar mai di quelle verità che sono contrastate, perchè la sua affermazione[50] diverrebbe un argomento di più contra di esse.

Benchè Geltrudina sapesse benissimo ch'ella andava ad un combattimento, pure il giorno della uscita dal monastero, fu un giorno ben lieto per lei. Oltrepassare quelle mura, trovarsi in carrozza, veder l'aperta campagna, e, quel ch'è più, entrare nella città, furono sensazioni più forti che non fosse il pensiero dei contrasti che aveva a sopportare. Per uscirne vittoriosa, aveva la poveretta composto un piano nella sua mente. O vorranno ottenere il loro intento colle buone, diceva ella tra sè, o mi parleranno brusco. Nel primo caso, io sarò più buona di essi, pregherò, li moverò a compassione: finalmente non domando altro che di non essere sagrificata. Nel secondo caso, io starò ferma; il sì lo debbo dire io, e non lo dirò. Ma, come accade talvolta anche ai comandanti di eserciti, non avvenne nè l'una, nè l'altra cosa ch'ella aveva pensata. I parenti, avvertiti dalle monache delle disposizioni di Geltrude, furono serj, tristi, burberi; e non le fecero per qualche tempo nessuna proposizione nè con vezzi, nè con minacce. Solo dal contegno di tutti traspariva che tutti la riguardavano come rea, e da qualche parola sfuggita qua e là s'intravedeva che la riguardavano come rea, non già di ricusarsi al chiostro, delitto che non poteva nemmeno[51] venire in capo ad alcuno della famiglia, ma di non avviarvisi con buona grazia. Così ella non trovava mai un varco per venire alla dichiarazione che era pure indispensabile; e i modi secchi, laconici, altieri, che si usavano con lei, non le davano nemmeno il campo di potere avviare un discorso fiduciale ed amichevole, il quale di passo in passo la conducesse a toccare il punto sul quale ella ardeva di spiegarsi, o almeno di farsi intendere. Che s'ella, sofferendo pazientemente qualche sgarbo, si ostinava pure a volere famigliarizzarsi con alcuno della famiglia, se senza lamentarsi implorava velatamente un po' di amore, se si abbandonava ad espressioni confidenziali e affettuose, ella si udiva tosto gittar qualche motto più diretto e più chiaro intorno alla elezione dello stato: le si faceva sentire che l'amore della famiglia non era cessato per lei, ma sospeso, e che da lei dipendeva l'esser trattata come una figlia di predilezione. Allora ella era costretta a ritirarsi, a schermirsi da quelle tenerezze, che aveva tanto ricercate, e si rimaneva coll'apparenza del torto. Si accorava e si andava sempre più perdendo d'animo: il suo sogno era scompaginato, e non sapeva a qual altro appigliarsi, pure aspettava. Ma il non veder mai un volto amico, ma le immagini tristi, e, direi quasi, terribili, delle quali era circondata, la rendevano sempre più inclinata a ritirarsi in quel cantuccio ameno e splendido, che ognuno, e i giovani particolarmente, si formano nella fantasia, per fuggire dalle considerazioni di oggetti che attristano.[52] Ritornava ella dunque più che mai a quei suoi sogni del monastero, e si creava fantasmi giocondi coi quali conversare. Ma i fantasmi non acquistavano forma reale; ella era tenuta ritirata quanto nel monastero, perchè il tempo dei divertimenti doveva venir dopo quella domanda ch'ella non aveva fatta e che era risoluta di non fare. Rinchiusa per una gran parte del giorno con le donzelle, allontanata dalla sala ogni volta che una visita vi si presentasse, non mai condotta in altre case, come avrebb'ella mai potuto vedersi ai piedi quel tal giovane del monastero, che, senza contare tutte le altre difficoltà, non era a questo mondo? Era questo il suo maggiore, anzi l'unico suo difetto, giacchè, del resto, bellezza, grazia, ricchezza, nobiltà, eloquenza, sincerità, costanza, e sopra tutto appassionatezza, nulla gli mancava. V'era rischio, peraltro, che s'egli tardava troppo ad esistere, l'immaginazione di Geltrude, stanca di aggirarsi nel vuoto, trasferisse la bontà, che aveva per lui, al primo ente reale che non fosse troppo diverso da questo immaginato da rendere impossibile lo scambio. L'occasione si presentò in fatti, e fu fatale a Geltrude. Noi ommettiamo i particolari di questo sciagurato affare; diremo soltanto che la prima lettera di risposta ch'ella aveva[53] scritta ad un paggio della Marchesa, cadde in mano di questa, fu tosto consegnata al marchese Matteo, e che il trambusto in casa fu, come era da aspettarsi, strepitoso.

Il paggio fu sfrattato immediatamente, com'era giusto; ma il marchese Matteo, che aveva idee molto larghe sul giusto in ciò che toccava il decoro della sua famiglia, intimando di sua bocca la partenza al ragazzaccio, per non aumentare il numero dei confidenti, gl'intimò nello stesso tempo che se egli si fosse in alcun tempo lasciato sfuggire una paroluzza sulla debolezza di donna Geltrude, la sua vita avrebbe scontato questo secondo delitto, e che non ci sarebbe stato asilo per lui. Queste minacce erano a quei tempi molto frequenti, e facevano pure colpo assai, perchè ognuno era avvezzo a vederne molte ridotte ad effetto. Ciò non di meno, per esser più certo della segretezza del paggio, il marchese Matteo, nel forte del rabbuffo, gli appoggiò due solennissimi schiaffi, pensando a ragione che il paggio sarebbe stato meno tentato di raccontare un'avventura, la quale, per una parte, poteva lusingare la sua vanità, quando essa avesse finito con un incidente doloroso e umiliante. Alla donna di casa, che aveva intercettato il corpo del delitto, furono date molte lodi, e nello stesso[54] tempo una prescrizione di segretezza, non accompagnata da minacce, ma in termini che le fecero comprendere che questa segretezza era del massimo interesse anche per lei.

Ma il temporale più scuro, più lungo, più terribile venne a scendere sul capo di Geltrude. Il marchese Matteo, dopo d'averla caricata di strapazzi, ch'ella intese con tanto più di tremore, quanto si sentiva veramente colpevole, le annunziò una prigione indeterminata nella sua stanza, e per sopra più le parlò d'un castigo proporzionato alla colpa, senza specificarlo, e così la lasciò in guardia alla stessa donna che aveva scoperti gli affari.

Geltrude, aspreggiata, rinchiusa, minacciata, in una situazione che sarebbe stata dolorosa anche alla coscienza più illibata, si trovava anche la memoria del fallo, che basta a rattristare la situazione la più gioconda, e l'animo suo fu prostrato. Non sapeva prevedere come, nè quando, la cosa sarebbe finita, si aspettava ad ogni momento il castigo incognito e per ciò più terribile; l'essere come sbandita dalla famiglia le era un peso insopportabile, e nello stesso tempo l'idea di rivedere il padre, o di vedere la madre, il fratello la prima volta dopo il suo fallo, la[55] faceva trasalire di spavento. In questa agitazione continua si svolse e si accrebbe nell'animo suo un sentimento nativo in tutti, ma più forte in lei per indole e reso ancor più forte dalla educazione, il timore della vergogna: sentimento non solo onesto, ma bello, ma essenziale; sentimento però che, come tutti gli altri, può diventare passione violenta e perniciosa quando non sia diretto dalla ragione, ma nutrito di orgoglio. La sola idea del pericolo che la sua debolezza, la sua debolezza per un paggio, per una persona meccanica, fosse risaputa da alcuna delle sue antiche superiore, da una sua compagna, da un congiunto della casa. Questa idea le era più terribile, più odiosa, della prigione, dell'ira dei parenti, del fallo stesso. Ella sentiva che con la minaccia di svergognarla così, si sarebbe potuto ottener da lei quello che si fosse voluto. E sentiva nello stesso tempo quanto fosse peggiorata la sua condizione per la scelta dello stato: giacchè il primo requisito per poter resistere alle lusinghe e alle violenze era, avrebbe dovuto essere, di non aver nulla da rimproverarsi.

La compagnia della sua guardiana non le era certo di alcun sollievo nella sua ritiratezza angosciosa. Ella vedeva in quella donna il testimonio della sua colpa e la cagione della sua disgrazia, e la odiava. E la donna non amava la fumosetta, per cui era costretta a far vita da carceriera, poco dissimile da quella di carcerata, e che l'aveva resa depositaria[56] d'un segreto pericoloso. La conversazione era quindi fra di esse quale può risultare dall'odio reciproco. Non restava a Geltrude la trista e funesta consolazione dei sogni splendidi della fantasia, perchè questi sogni erano tanto in opposizione col suo stato reale, e con l'avvenire il più probabile, e quelle immagini erano tanto legate con la sua sciagura, che la mente li respingeva con incredula avversione, e ricadeva, come peso abbandonato, nella considerazione delle circostanze reali. Cominciò quindi a dolersi davvero di ciò che aveva fatto, a paragonare la vita che menava prima del suo fallo con quella che strascinava in allora, e a trovare la prima soave, a rammaricarsi di non averla saputa conoscere. L'immagine di colui, al quale il suo cuore sgraziato e leggiero si era abbandonato un momento, gli compariva accompagnata di tanti dispiaceri, che aveva perduta ogni forza sulla sua fantasia. Tanto è vero che all'amore, per signoreggiare un animo, bisogna un poco di buon tempo, e che le faccende gravi e le grandi sciagure gli spennacchiano le ali e gli spezzano i dardi, se ci si permette una frase, invero troppo poetica, ma che spiega tanto bene ciò che accade realmente nell'animo. Scacciato questo nimico dal cuore, il quale, a dir vero, non vi aveva preso gran[57] piede, raffreddata alquanto l'ira dalla tristezza e dal timore di peggio, e dal pensare che al fine il castigo era meritato, il pentimento di Geltrude cominciò ad essere più dolce, divenne un sollievo. Pensò ella al perdono che si ottiene con quello, e si rallegrò; pensò che ciò ch'ella soffriva poteva essere una espiazione, e tutto le parve più leggiero. Si diede quindi tutta ad una divozione, la quale in parte era un sentimento intimo e retto dell'animo, in parte un fervore della fantasia. Le tornava allora alla mente il chiostro; e una vita quieta, onorata, lontana dai pericoli, la dignità di monaca, e quella benedetta pompa di badessa, e quella benedetta boria di essere la più nobile del monastero, ultimo rifugio della sua superbiuzza, le parve uno zucchero al paragone dello stato di umiliazione, di prigionìa, di disprezzo nel quale si trovava. L'avversione, nutrita per tanto tempo a quella condizione, le risorgeva pure con tutte le sue immagini, ma ella le pigliava per tentazioni, e le combatteva. In questa incertezza ella desiderava di rivedere il padre, di rivederlo con una faccia diversa da quella di cui le rimaneva una immagine terribile e dolorosa, di avere il suo perdono, di essere riammessa nella famiglia. Dopo molto combattimento,[58] prese la penna, e scrisse al padre una lettera, piena di entusiasmo e di abbattimento, di afflizione e di speranza, nella quale chiedeva istantemente ch'egli la visitasse, e gli lasciava intravedere ch'egli rimarrebbe contento di lei. Non già ch'ella avesse presa una risoluzione, ma non poteva più reggere alla solitudine e alla proscrizione, e sperava confusamente che in quel colloquio la risoluzione si sarebbe fatta per lo meglio.

V'ha dei momenti in cui l'animo, massimamente dei giovani, è, o crede di essere, talmente disposto ad ogni più bella e più perfetta cosa, che la più piccola spinta basta ad ottenere da esso ciò che abbia un'apparenza di bene, di sacrificio, di perfezione come un fiore appena sbocciato, che riposa mollemente sul suo fragile stelo, pronto a concedere le sue fragranze all'aura più leggiera che gli asoli punto d'attorno.

L'animo vorrebbe perpetuare questi momenti, e diffidando della sua costanza, corre con alacrità a formar disegni irrevocabili: felice se la tarda riflessione non gli rivela col tempo, che ciò che gli era[59] sembrato una ferma e pura volontà, non era altro che una illusione della fantasia. Questi momenti, che si dovrebbero ammirare dagli altri con un timido rispetto, e coltivare dal prudente consiglio in modo che si maturassero colla prova e col tempo, nei quali tanto più si dovrebbe tremar e vergognarsi di chiedere, quanto più grande è la disposizione ad accordare, questi momenti sono quelli appunto che la speculazione fredda o ardente dell'interesse agguata e stima preziosi per legare una volontà, che non si guarda, e per venire ai turpi suoi fini.

Il marchese Matteo, il quale, passato il primo caldo dell'ira, era tosto corso a fantasticare nella sua mente se da quel disordine avesse potuto cavar qualche profitto per vincere la risoluzione di Geltrude, e che non era mai ristato dal ruminarvi sopra da poi, s'accorse, al leggere di quella lettera, che la figlia gli dava essa stessa l'occasione desiderata, e stabilì tosto di battere il ferro mentre ch'egli era caldo. Mandò quindi a dire a Geltrude ch'ella dovesse venire nella sua stanza, ov'egli si trovava solo. Geltrude v'andò di corsa, che innanzi o indietro è il passo della paura; giunse senza alzar gli occhi dinanzi al Marchese, si gittò ai suoi piedi, ed ebbe appena il fiato per dire: perdono. Il Marchese, con una voce poco atta a rincorare,[60] le rispose, che il perdono non bastava desiderarlo, che questo lo sa fare chiunque è colto in fallo e teme il castigo, che bisognava insomma meritarlo. Geltrude intanto, più turbata ed atterrita in quanto ella era venuta colla speranza di tosto ottenerlo, chiese che dovesse fare per rendersene degna, e si disse pronta a tutto. Il Marchese non rispose direttamente, ma cominciò a parlare lungamente del fallo di Geltrude, e del torto ch'ella s'era posta in pericolo di fare alla famiglia. Questo discorso era al cuore di Geltrude come lo scorrere di una mano ruvida sur una piaga. Aggiunse che quando mai egli avesse avuto alcun pensiero di collocare la sua figlia nel secolo, questo fatto sarebbe stato un ostacolo invincibile, perchè egli avrebbe creduto suo dovere di rivelare la debolezza della sua figlia a chi l'avesse richiesta, non essendo tratto da cavalier d'onore il vender gatta in sacco. Finalmente, raddolcendo alquanto il tuono della voce e le parole, disse a Geltrude, che questi eran falli da piangersi per tutta la vita, e che ella doveva vedere in questo tristo accidente un avviso del cielo che le dava ad intendere che la vita del secolo era troppo piena di peicoli[61] per lei, e che non v'era asilo, riposo, sicurezza....

Ah! sì, interruppe incontanente Geltrude, mossa ad un punto dal timore, dal ravvedimento, e da una certa tenerezza, e sopra tutto dalla corrività della sua fantasia. Il Marchese—ci ripugna dargli in questo momento il titolo di padre—la prese in parola, le annunzio il più ampio perdono, si congratulò con lei del partito ch'ella aveva preso, della vita riposata e felice ch'ella avrebbe menata, e la oppresse di quelle lodi che fanno paura, perchè danno a sentire a quali improperj esporrebbe il cangiar di risoluzione. Geltrude si stava stordita fra i diversi affetti che si succedevano nel suo cuore, non sapeva che dire, non sapeva che si avesse detto: dubitava di essersi troppo avanzata, o d'essere stata strascinata più innanzi che non avrebbe voluto; questo pensiero era però dubbio e confuso nella sua mente; ma foss'egli stato limpido e spiegato perfettamente, manifestarlo, accennarlo, dire una parola che contraddicesse all'entusiasmo del Marchese sarebbe stato uno sforzo quasi impossibile.

[62]

Il Marchese fece tosto chiamare la madre e il fratello di Geltrude, per metterli, diceva egli, a parte della sua consolazione, per riporre Geltrude nella stima e nell'affetto della famiglia. L'una e l'altro accorsero immediatamente. La Marchesa era avvezza dai primi giorni a non avere altra volontà che quella del marito, fuorchè in due o tre capi, pei quali aveva combattuto, e ne era uscita vittoriosa. Questa condiscendenza non veniva già da un sentimento del suo dovere, nè da stima pel Marchese, ma dall'aver veduto chiaramente da principio che il resistergli sarebbe stato un cozzar coi muricciuoli. S'era ella quindi renduta indifferente su tutto ciò che riguardava il governo della famiglia, contenta di fare a modo suo nei due o tre articoli che abbiamo accennati. Del resto, i disegni del Marchese sul collocamento di Geltrude erano così conformi a quello che si chiamava interesse della famiglia, e alle mire avare e ambiziose, in allora tanto universali, che quel poco di opinione che la Marchesa aveva a sua disposizione non poteva non approvarli. L'affezione materna però le faceva desiderare che Geltrude si facesse monaca di buona voglia, come una buona madre che abbia una figlia tanto scrignata e contraffatta, da non poter esser chiesta da nessuno, desidera ch'ella preferisca il celibato al matrimonio. Al giovane Marchesino[63] era stato detto fino dall'infanzia, che l'entrate della casa erano appena appena proporzionate alla nobiltà, e che detrarne anche una picciola parte sarebbe stato un decadere, se non nella sostanza, almeno nell'esterno; egli riguardava quindi assolutamente come un dovere di Geltrude di chiudersi in un chiostro: modo il più economico di collocarsi: quindi l'aderire ch'egli faceva ai progetti del padre era una docilità poco costosa. Il Marchese fece cuore a Geltrude, e la presentò con volto lieto alla madre e al fratello. Ecco, disse, la pecora smarrita, e sia questa l'ultima parola che richiami tristi memorie. Ecco, aggiunse, la consolazione della famiglia; Geltrude ha scelto ella medesima, spontaneamente, quello che noi desideravamo per suo bene; e non ha più bisogno di consigli. È risoluta, ed ha promesso..... qui Geltrude alzò gli occhi, tra lo spavento e la preghiera, al padre, come per supplicarlo di sostare un momento, ma egli ripetè francamente, ha promesso di prendere il velo. Le lodi e gli abbracciamenti furono senza fine, e Geltrude riceveva le une e gli altri con lagrime che furono credute di consolazione. Il marchese Matteo si diffuse allora a magnificare le disposizioni che aveva già fatte di lunga mano per[64] rendere lieta e splendida la sorte della sua figlia. Parlò delle distinzioni ch'essa avrebbe avute nel monastero, e del desiderio che le madri avevano di possederla, e di osservarla come la prima, la principessa, donna del monastero, dal momento in cui vi avrebbe riposto il piede. La madre e il fratello applaudivano; Geltrude era come posseduta da un sogno.

—Oh! s'interruppe il Marchese; noi stiamo qui facendo chiacchiere, e si dimentica il principale; bisogna fare una domanda in forma al Vicario delle monache, altrimenti non si conclude nulla. Detto questo, fece chiamare tosto il segretario. Questi giunse ritto ritto, intirizzato quanto poteva comportare la fretta di obbedire al signor Marchese, il quale tosto gli diede ordine di stendere la supplica. Il segretario, rivolto a Geltrude, disse, ah! ah! per pigliar tempo a studiare un complimento di congratulazione: ma il Marchese lo interruppe, dicendo: presto, presto, scrivete alla buona, senza concetti; già conosciamo la vostra abilità. Il segretario scrisse, e il foglio fu dato a Geltrude da ricopiare, la quale ricopiò e appose il suo nome, come le comandò il Marchese. Il quale, preso il foglio e consegnatolo al segretario perchè lo portasse addirittura cui era indiritto, comandò che si preparasse per Geltrude il suo appartamento ordinario, che si dicesse ch'ella era guarita dalla sua indisposizione; era il pretesto preso per dar ragione della sua assenza continua; e che tosto le si facessero apprestare abiti più sontuosi. Quindi, rivolto[65] sorridendo a Geltrude, le chiese quando ella sarebbe stata disposta a fare una trottata a Monza, per richiedere alla badessa di esser ricevuta. Anzi, riprese, dopo aver pensato un momento, perchè non v'andiamo oggi stesso? Geltrude ha bisogno di pigliar aria, e sarà ancor più contenta quando il primo asso sia fatto. Andiamo, andiamo, rispose la Marchesa, la giornata è bellissima. Vado a dar gli ordini, disse il Marchesino, e stava per partire. Ma.... cominciò Geltrude, e non potè continuare. Piano, piano, cervellino, ripigliò il Marchese, rivolto al figlio; forse Geltrude è stanca e vuole aspettare fino a domani. Volete voi che andiamo domani? domandò a Geltrude, con uno sguardo, che nello stesso tempo mostrava il sereno e minacciava il temporale.—Domani, rispose con debole voce Geltrude, alla quale non parve vero di avere qualche ora di rispitto, e che nel profferire quelle parole si sovvenne che finalmente quel passo non era l'ultimo, il decisivo; e che si poteva ancora darne uno indietro. Domani, disse solennemente il Marchese: domani è il giorno ch'ella ha stabilito.

Il resto della giornata fu occupatissimo. Geltrude avrebbe voluto raccogliere i suoi pensieri, riposarsi da tante commozioni, rendersi conto di quello che aveva fatto, di quello che era da farsi, sapere distintamente che cosa; voleva trovare il modo di rallentare un po' quella macchina che, mossa, andava con tanta celerità, per vedere almeno come ne era condotta, e per arrestarla affatto, se si fosse accorta[66] che la conduceva ad un pentimento; ma non ci fu verso. Le distrazioni si tenevano dietro senza interruzione, e la mente di Geltrude era come il lavorìo d'una povera fante, che serva ad una numerosa famiglia e che in un giorno di faccende, chiamata di qua, di là, non può venire a capo di nulla. Mentre s'apparecchiava il quartiere ch'ella doveva abitare, ella fu condotta nella stanza stessa della Marchesa, per essere acconciata, adornata, vestita del suo più bell'abito; operazione che in quel giorno le recò una noia intollerabile. La Marchesa presiedeva all'acconciamento, e parte lodando, parte riprendendo, parte consigliando, parte interrogando Geltrude di cose estranee, non le lasciò il tempo di raccozzar due idee. Del resto, a misura che l'opera procedeva verso la sua perfezione, Geltrude stessa vi prese un po' d'affetto, e vi occupò quel poco di pensiero che le rimaneva. L'acconciatura era appena finita, che venne l'ora del pranzo. I servi la inchinavano umilmente sul suo passaggio, accennando di congratularsi per la ricuperata salute; con una serietà che non avrebbe lasciato supporre che essi sapessero qualche cosa del vero motivo della assenza di Geltrude. A tavola Geltrude fu la regina; servita la prima, trattenuta, corteggiata, ella doveva corrispondere a tante gentilezze, e faceva ogni sforzo per riuscirvi. Il Marchese aveva fatto avvertire alcuni parenti più prossimi del ristabilimento della figlia, e della sua risoluzione: le due liete nuove si sparsero, e come la famiglia del Marchese spandeva[67] un lustro grande su tutta la parentela, comparvero dopo il pranzo visite di congratulazione. I complimenti erano per la sposina: così si chiamavano le giovani che erano per farsi monache: e la sposina doveva rispondere a quei complimenti; e ogni risposta era una conferma. S'avvedeva ben ella che ad ogni momento andava tessendo ella stessa una maglia di più alla sua rete; ma, oltre ch'ella non vedeva ben chiaro se quella era una rete, fare altrimenti le pareva impossibile; poichè come mai, in presenza del padre, a chi si rallegrava di una risoluzione presa da lei, ed annunziata da quello, avrebbe ella potuto dare una risposta dubbiosa? Partite le visite, Geltrude entrò con la famiglia nel cocchio, dal quale era stata esclusa per tanto tempo; e si andò a fare la solenne trottata. Lo spettacolo e il rumore delle carrozze e dei passeggiatori, i discorsi incessanti del padre, della madre e del fratello, che per cortesia rivolgevano sempre la parola a Geltrude, si contendevano l'attenzione della sua mente; e i pensieri sulla sua situazione vi apparivano istantaneamente come lampi in un povero cielo. Rientrato il cocchio in casa, e fermato sotto le volte rimbombanti dell'atrio, i servi, che scendevano in fretta coi doppieri, annunziarono che gran parte della conversazione era già ragunata. Si montò con tutta la fretta che poteva conciliarsi con una certa gravità, e di sala in sala si giunse a quella della conversazione. La sposina ne fu il soggetto, l'idolo e la vittima.[68] Chi si faceva prometter da lei, chi prometteva visite, chi parlava della madre tale, sua parente, chi della madre tal altra, sua conoscente; chi lodava il cielo di Monza, chi la regola del monastero. Se alcuno, non potendo avvicinarsi a Geltrude, assediata da altri, o trovandosi distratto a ciarlare in un crocchio, non le aveva detto nulla, si sentiva tutto ad un tratto preso come da un rimorso, temeva di averle fatta una offesa, e studiava il momento di farle il suo complimento. Finalmente la brigata si sciolse, tutti partirono senza rimorso, e Geltrude, stordita, intronata, si rimase sola con la famiglia, dalla quale ricevette altri complimenti sui complimenti che aveva ricevuti. Ho finalmente, disse il marchese Matteo, avuto la consolazione di veder mia figlia trattata e distinta da sua pari. Domani mattina, soggiunse, converrà esser presti di buon'ora per andare a Monza, come ha stabilito Geltrude. Geltrude, condotta finalmente dalla Marchesa nella stanza che le era preparata, vi rimase con una donna che era stata quel giorno destinata ai suoi servigi, invece di quella che aveva fatto presso di lei il tristo uficio di carceriera.

Questo cangiamento era stato provocato da Geltrude. Vedendo ella in quel giorno il padre così disposto a compiacerla in tutto, fuor che in una cosa, fu tentata di profittare dell'auge in cui si trovava per soddisfare almeno una delle passioni che si univano a tormentarla. Si è detto ch'ella vedeva di mal occhio la donna che le era stata spia e guardiana;[69] e che vi era fra esse un ricambio continuo, una gara di sgarbi. Geltrude in cento momenti di devozione le aveva perdonato, ma cento perdoni non ne vagliono un solo. Vedersi in quel giorno trattata con tanta importanza, quasi con tanto rispetto, da tutta la famiglia, le dava un po' di superbia, e nello stesso tempo il sentire che con queste lusinghe le si faceva fare quello che forse ella non avrebbe voluto, le dava stizza; mentre il suo animo si trovava fra questi due tristi sentimenti, le sovvenne dei modi rozzi, famigliari, insolenti che quella donna le aveva usati nella sua prigionìa, e volendo lamentarsi di qualche cosa, se ne lamentò al padre. Questi ne fu, e se ne mostrò sdegnato, non istette a domandarle come ella pure avesse trattata la donna; ma promise che darebbe una buona lavata di capo a colei, e fissò immediatamente ai servigi di Geltrude un'altra donna di casa. Era questa la vecchia governante del Marchesino: e Geltrude faceva poco guadagno nel cambio. La vecchia, alla quale il Marchesino era stato dato in guardia quando fu tolto dalla nutrice, aveva per lui una falsa affezione di madre; in lui aveva poste tutte le sue compiacenze, le sue speranze, la sua gloria. Dopo il Marchese ella era stata la prima a dire che Geltrude aveva ad esser monaca per non rubare una parte d'entrata al Marchesino. Quel giorno ella era e si mostrava tanto soddisfatta, che aveva ricevute le congratulazioni dei suoi compari, tra i quali era un personaggio d'importanza; e parlava[70] con molta bontà della signorina, che aveva conosciuto il suo dovere. Geltrude, a compimento di quella giornata, dovette sentire le lodi e i consigli della vecchia che, spogliandola e ponendola a letto, le fece la storia di sue zie e di sue prozie, le quali s'eran fatte monache per non intaccare il patrimonio della casa, e che se n'erano trovate ben contente, perchè i monasteri dove s'erano chiuse avevan saputo tener conto dell'onore che arrecava loro l'aver dame di quella casa. Le raccontò che si era ricorso ad esse per protezione e che esse dal loro parlatorio avevano ottenuto ciò ch'era stato invano domandato dalle prime dame nella loro gran sala di ricevimento; parlò degli affari d'onore imbrogliatissimi, ch'esse avevano conciliati, delle visite di grandi personaggi forestieri, che avevano ricevute, di che tutta la città aveva parlato. Ma, soggiungeva, erano donne che sapevano fare; e qui intrometteva qualche consiglio sulla condotta da tenersi a Monza. Prediceva gli onori che Geltrude avrebbe pur ricevuti, le distinzioni, le visite. Verrebbe poi il signor Marchesino colla sua sposa, la quale doveva esser certo una gran dama, e allora non solo il monastero, ma tutto il borgo sarebbe in movimento. Geltrude ascoltava con una noja mista di qualche curiosità, poichè si trattava probabilmente del suo avvenire, e, benchè stanca e stordita, non diceva finitela, per quella stessa curiosità che impedisce uno di lasciare a mezzo una storia mal pensata e male scritta. La vecchia aveva parlato mentre[71] spogliava Geltrude, quando Geltrude era già coricata: parlava ancora che Geltrude dormiva. Le cure di rado tolgono il sonno alla giovinezza; e sono tutt'altre cure che quelle onde era oppressa Geltrude. Il suo sonno fu affannoso, torbido, pieno di sogni penosi, ma non fu rotto che dalla voce agra della vecchia, che venne di buon mattino a riscuoterla perchè si preparasse alla gita di Monza.

Alto, alto, signora sposina; è giorno fatto; e prima ch'ella sia vestita, rivestita, in pronto, ci vorrà anche un'ora almeno. La signora Marchesa si sta alzando, e l'hanno svegliata quattr'ore prima del solito. Il Marchesino è già disceso alla scuderia e risalito; e si trova in ordine di partire quando che sia. Vispo come un leprotto quel diavoletto: ma! egli era tale fin da bambino: io posso ben dirlo, che l'ho tenuto nelle mie braccia. Ma quando è all'ordine non bisogna farlo aspettare, perchè, quantunque sia della miglior pasta del mondo, allora egli strepita, fa il diavolo: e questa volta avrebbe anche un po' di ragione, perchè egli s'incomoda per accompagnar lei. Quando è in quei momenti, non ha tema di nessuno, fuorchè del signor Marchese; ma poi finalmente egli non ha sopra di sè che il signor Marchese; e un giorno il signor Marchese sarà egli. Poveretto! con due paroline però s'acqueta subito. Lesta, lesta, signorina; perchè mi sta guardando così come incantata? a quest'ora ella dovrebb'esser fuori del nido.

[72]

Geltrude infatti, desta per forza, non ancor ben certa di vegliare, assalita ad un punto dalle memorie del giorno trascorso, dal pensiero di ciò che si doveva fare in quello che cominciava, e dal cinguettìo della governante, stava cogli occhi socchiusi ed intenti, come trasognata: quel destarsi era per la sua mente come il fioco barlume di un mattino tempestoso, quando un leggero diradamento nelle tenebre appena annunzia che il sole è sull'orizzonte, e a chi guarda più attentamente il sole stesso appare come un disco bianco, sfumato e leggiero, sospeso dietro le nuvole trasparenti. Quelle esortazioni però fecero colpo assai, perchè la vecchia aveva toccato un tasto del quale ella stessa non conosceva tutta la forza. Il nome del Marchesino aveva già fermata l'attenzione di Geltrude, ma quando dalle parole della governante l'immagine del Marchesino in collera passò alla mente di Geltrude, tutti i pensieri, onde questa era affollata, si lavarono a volo come uno stormo di passere alla vista d'uno spauracchio, e non restò più a Geltrude che la voglia di sbrigarsi e di schivare quella collera. Geltrude, bisogna confessarlo, non amava molto il fratello: e pei suoi modi aspri, sprezzanti e imperiosi, e perchè di tutta la casa il Marchesino era quegli che più sovente aveva il monastero in bocca: e perchè le compiacenze e le distinzioni dei parenti sopra di lui la tenevano in uno stato continuo di paragone umiliante. Lo temeva essa però, ma fino ad un certo tempo, non quanto egli avrebbe voluto: e come di lingua[73] e d'ingegno ella era meglio fornita di lui, di quando ella si vendicava con un motto, di molti giorni di una pesante persecuzione. Era quindi tra loro come un continuo stato di guerra. Ma quando dopo la sua prigionìa Geltrude comparve davanti al fratello carica d'un fallo e d'un perdono, alzando timidamente gli occhi sulla faccia del fratello, vi scorse una superiorità dalla quale non ebbe pure il pensiero di potersi ribellar mai; si sentì soggiogata per sempre. Ed ora il solo pensare che il fratello in un momento d'impazienza potesse profittare del vantaggio che ella le aveva dato col suo fallo, per gittarle un motto, un rimprovero, che alludesse a quello, la faceva tremare. Si pose ella quindi a sedere in fretta e pure in fretta cominciò a vestirsi. Avrebbe potuto la poverina riflettere che quel pericolo era troppo lontano; che il fratello in un momento in cui sperava da lei un tal sacrificio, era ben lontano dal dir cosa che potesse offenderla; e che, alla fine, per grossolano e sventato ch'egli fosse, non avrebbe scherzato così di leggieri con l'onore di sua sorella, al quale il suo proprio era tanto vicino: ma un effetto dei falli si è appunto di render l'animo più soggetto a timori non ragionevoli.

Geltrude si vestì dunque in fretta, si lasciò acconciare e comparve nella sala dov'era radunata la famiglia ad aspettarla. Il Marchesino, al quale corsero dapprima i suoi occhi, si mostrava tranquillo, senza dar segno d'impazienza: la Marchesa, la quale aveva sagrificate tre ore di letto, mostrava nell'aspetto[74] quel misto di sentimenti che nasce dalla consolazione di aver fatta una impresa, e dal dispetto degli incomodi sostenuti per venirne a capo. Il Marchese con lieto viso si fece incontro a Geltrude e le disse: avete scelto una bella giornata: buon augurio. Buon augurio, ripeterono la Marchesa e il Marchesino. Era preparata una sedia a bracciuoli, e il Marchese accennò amorevolmente a Geltrude che vi sedesse, e perch'ella, confusa, stava alquanto in forse: qui, qui, diss'egli, certamente: dopo la risoluzione che avete fatta non siete più una ragazzetta: siete come un di noi. Appena Geltrude si fu seduta, venne un servo che le presentò rispettosamente una tazza di cioccolatte. Prendere il cioccolatte a quei tempi, era, dice il nostro manoscritto, quello che presso i romani assumere la veste virile; e tutte queste cerimonie erano piccioli fili che legavano sempre più la povera Geltrude. Essa non confermava con parole la risoluzione che tutte quelle dimostrazioni supponevano: non diceva nulla, non faceva nulla, ma tutto ciò che si faceva dintorno a lei, la poneva in una situazione nella quale il disdirsi, appena il mover dubbio sulla sua risoluzione, il fermarsi un momento avrebbe avuto sempre più apparenza di stranezza scandalosa. Preso il fatal cioccolatte, il Marchese si alzò, pigliò Geltrude in disparte, e con aria di consiglio amorevole le disse: Orsù, figlia mia, diportatevi bene: scioltezza e buon garbo. E qui le diede le istruzioni su quello che doveva fare e dire, e le fece ripetere la formola della[75] domanda. Benissimo, a maraviglia, esclamò quindi, e continuò: Quelle buone suore vi aspettano a braccia aperte; e non sanno nulla, nulla.... Non mi date in fanciullaggini, in pianti; non mi fate la Maddalena penitente; guardatevi da un contegno che lasci sospettar qualche cosa: siate franca, e mostrate di che sangue uscite. La vostra risoluzione vi ha meritato il perdono della famiglia; il vostro fallo è cancellato e dimenticato. Quand'anche Geltrude avesse avuto il coraggio, che non aveva, di porre qualche ostacolo, questo discorso, che le faceva sentire dove si sarebbe tosto portata la quistione, l'avrebbe immediatamente disposta ad obbedire senz'altre osservazioni. Ella arrossò, non rispose nulla, chinò il capo, gli occhi le si gonfiarono; ma un: via! via! detto risolutamente dal Marchese e l'apparire d'un servo che annunziava che il cocchio era pronto, la costrinsero a farsi forza e a ricomporsi. Nello scender le scale, Geltrude fu servita da un bracciere, si montò in cocchio e si partì. Gl'impicci, le noje e i pericoli del mondo, e la vita beata del chiostro, principalmente per le giovani di sangue nobilissimo, furono il tema del discorso durante il tragitto. All'entrare nel borgo, al vedere la porta del chiostro, Geltrude si sentì stringere il cuore, ma gli occhi della famiglia erano sopra di lei; quando il cocchio si fermò, Geltrude, guardando alla porta, la vide già piena di curiosi; e lo studio di non far nulla di sconvenevole la occupava tanto, ch'ella scese, e s'avviò[76] quasi senz'altro pensiero. Attraversando il cortile si vide la porta del chiostro aperta, e tutta occupata dalle monache. In prima fila alcune anziane, colla badessa nel mezzo; dietro, le altre alla rinfusa; quelle, che erano immediatamente dopo le prime, cacciavano il volto tra l'una e l'altra; altre dietro, ritte sulla punta dei piedi; e, per non tacer nulla, le converse, in ultimo, sollevate sopra sgabelletti. Si vedevano pure qua e là luccicare più basso qualche paja di occhi avidissimi, ed apparire, come al buco della chiave, qua e là un po' di volto mezzo ascoso: erano le più destre e le più animose delle educande, che serpendo tra una monaca e l'altre, s'eran trovate un cantuccio per vedere anch'esse qualche cosa: il che era in verità troppo giusto. Geltrude, come incantata, giunse in faccia a tanto teatro, condotta ed animata dai parenti, e si fermò nel bel mezzo davanti alla madre badessa. È inutile dire che questa era stata dal Marchese avvertita per un messo straordinario della visita che avrebbe ricevuta e del perchè. Geltrude fu accolta dalla badessa e da tutte le suore con acclamazioni. Dopo i primi saluti, la badessa, nel modo con cui si fa per formalità una domanda della quale è certa la risposta, le domandò che cosa ella desiderava in quel luogo dove non v'era chi potesse nulla rifiutarle.

Son qui.... cominciò a rispondere Geltrude, ma nel momento in cui ella doveva manifestare con certezza un desiderio che era tutt'altro che certo nel[77] suo cuore, nel momento in cui le sue parole dovevano decidere quasi irrevocabilmente del suo destino, il combattimento interno fu sì forte ch'ella non potè proseguire, e rifletteva un istante, guardando come incantata la badessa e la folla che la circondava. Così guatando, ella vide distintamente alcune delle sue compagne, e sulla parte che appariva di quelle faccette, e più agli occhi, una espressione mista di malizia e di compassione, che diceva chiaramente: Ah! c'è incappata la brava! Questa vista le risvegliò in cuore tutta l'avversione al chiostro, l'orrore per la violenza che l'era fatta, e con questi sentimenti un lampo di coraggio. E già ella stava cercando una risposta diversa da quella che si aspettava da lei; cosa troppo difficile a trovarsi in quella circostanza. Alzò un momento gli occhi verso il padre, che le stava di fianco, per indovinare che effetto avrebbe prodotto la sua resistenza, e come per esperimentare le proprie forze, ma vide negli sguardi del Marchese una espressione sì minacciosa, che tutto il suo coraggio svanì. Pensò che la resistenza, che il ritardo, l'avrebbero resa innanzi a tanti occhi un oggetto di scandalo, di stupore e di derisione, pensò al padre, al fratello, al mondo, al paggio: si consolò, riflettendo che dopo quella formalità le rimaneva ancora una porta aperta per tornare indietro, che poteva guadagnar tempo, e che avrebbe saputo approfittarne; e il partito il più facile, il più sicuro, il meno terribile in quel momento le parve di proseguire,[78] come fece: Son qui a domandare d'essere ammessa a vestir l'abito. Nel breve momento d'indugio che ella aveva posto a finir la sua frase, un silenzio solenne aveva regnato fra gli astanti: le parole di Geltrude furono seguite da una acclamazione generale. Chetato il tumulto, la badessa, tutta sorridente, a memoria porse questa risposta, che le era stata data in iscritto da un bell'ingegno di Monza, uomo dotto, che aveva letti i celebri romanzi del Pasta: Se il rispetto non ponesse un freno agli affetti, io accuserei in questa circostanza di troppo rigore quelle regole sapientissime che ci proibiscono di dare alcuna risposta a domande di questa natura, prima di averne ottenuta la licenza. Bensì, senza riguardi, accuseremo il tempo, che coi suoi lenti passi ci ritarda il momento di dare questa risposta, desiderosa non meno che desiderata. E voi, carissima figlia, con l'acume del vostro ingegno potrete intanto, dai segni esterni, farvi indovina della decisione che potete aspettarvi da tutte le nostre suore, e da me umilissima superiora. Le acclamazioni incominciarono: e le suore sorrisero di compiacenza, e non a torto, perchè la gloria del capo si diffonde sugli inferiori.

La badessa, alla quale non era spiaciuto di aver molti uditori, pensò allora che la folla poteva essere incomoda e si rivolse ad una suora e disse: Ehi, suor Eusebia, date un po' la voce alla fattora, perchè faccia sgombrare tutto quel minuto popolo, e chiuda la porta di strada. L'ordine fu dato ed eseguito: e[79] il minuto popolo partì con dispiacere, ma con ammirazione. Geltrude passava intanto dalle braccia della badessa a quelle d'una e d'un'altra suora; e ognuna le faceva un complimento, il quale aveva in tutte a un dipresso lo stesso senso: l'avevam sempre detto che sareste nostra. Passato quel primo impeto, la badessa pregò Geltrude e la famiglia di passare nel parlatorio. A questa preghiera le converse scesero dagli sgabelli, la folla si diradò e la badessa con alcune delle anziane si avviò al parlatorio per l'interno del chiostro, mentre la famiglia milanese vi andava pel di fuori.

V'ha due modi di scendere il pendìo della sventura: l'uno è di capitombolare ad un tratto nel precipizio, l'altro d'andarvi come saltelloni in più riprese; in questo secondo caso, ogni fermata è una specie di riposo, e l'intervallo che passa tra una caduta e l'altra è talvolta tutto occupato dalla speranza. Geltrude sentì un certo sollievo d'essere uscita di quella stretta, comunque ne fosse uscita, e corse tosto col pensiero a proporsi di volere, prima di fare un altro passo, meditar ben bene se le conveniva o no di progredire, e di non lasciarsi cogliere così alla sprovveduta. Con questo pensiero ella fu condotta nel parlatorio. Qui rinnovati i complimenti, la badessa pregò gli ospiti di gradire alcune cosuccie, ch'ella faceva porre nella ruota da una conversa; la quale dette il moto alla ruota e ne rivolse la bocca verso il parlatorio esteriore.

[80]

Due secoli e più sono passati dopo quel giorno memorabile: così che noi crediamo di poter omai senza indiscrezione manifestare che la ruota, rivolgendosi, offerse agli sguardi ed alle mani degli ospiti un gran bacile di dolci squisiti, fabbricati di propria mano dalle suore, malgrado gli ordini ecclesiastici, in allora recenti, che proibivano loro assolutamente un tale esercizio. È da credersi che questi ordini non ottenessero un più grande effetto in progresso di tempo, giacchè questa fabbricazione durò fino ai nostri giorni; il che non si accenna qui per censurare con indiscreta severità tutte le monache che si succedettero in questi due secoli; una tale censura sarebbe anzi, a dir vero, non solo indiscreta, ma perfidamente ipocrita, perchè chi scrive ha mangiato egli stesso i dolci squisiti di fabbrica monastica, quando ha potuto averne. Si parla soltanto di questo fatto, perchè può dar luogo ad una osservazione piccante: che vi ha talvolta delle leggi che non sono eseguite.

Dopo un oh! come di sorpresa, dopo alquanto schermirsi, e lagnarsi d'esser trattati in cerimonia, il bacile fu manomesso, i dolci furono gustati con atti che esprimevano l'ammirazione, somme lodi furon date con sentimento molto sincero, e respinte con molta modestia. Mentre la Marchesa e il Marchesino si abbandonavano[81] con alcune suore alle varie riflessioni che può far nascere un bacile di dolci, e Geltrude era costretta di rispondere come poteva ai complimenti che altre suore le facevano, la madre badessa chiamò in disparte il Marchese ad un'altra grata.

—Signor Marchese... per adempire alle regole... per una pura formalità... debbo dirle... che ogni volta che una figlia domanda d'essere ammessa... la Superiora, quale io sono indegnamente... tiene obbligo di avvertire i parenti che se mai essi forzassero la volontà della figlia incorrerebbero nella scomunica... Mi scuserà...

—Benissimo, benissimo, reverenda madre; troppo giusto: lodo la sua esattezza. Ma già ella non può dubitare...

—Oh! Pensi, signor Marchese; non sono pur cose da dirsi; ho parlato per mio dovere; ma s'immagini...

—Certo, certo, madre badessa.—Finito il qual breve dialogo, i due interlocutori si separarono in fretta, come se fosse incomodo ad entrambi il continuarlo, e andarono a mescersi ognuno alla sua brigata. Dopo alcuni altri complimenti, il Marchese si accomiatò, e Geltrude, colle tenere espressioni della badessa, con le istanze delle suore di venir presto, fu rimessa in cocchio, più stordita, più incerta, più sopra pensiero di quello che fosse partita la mattina, ma con un anello di più alla sua catena; e che anello!

Ma la badessa aveva ella qualche dubbio sulla libera[82] elezione di Geltrude, o prestava fede intera alle parole materiali ch'erano uscite dalla bocca di lei? Il manoscritto non ne dice nulla; si perde invece a raccontare lunghissimamente dei particolari nojosi, che noi ommettiamo, intorno ad alcune brighe del monastero, ad alcune rivalità, ad alcuni impegni, nei quali l'aver fra le suore una figlia di famiglia potentissima poteva essere un gran soccorso.

Appena cessati gl'inchini che dalla carrozza si dovevano fare in risposta alle riverenze delle suore, che stavano sulla soglia a veder partire i signori e la nuova sorella, appena messo in moto il cigolante carrozzone, Geltrude fu assalita da nuovi complimenti sul modo con cui si era portata, sul suo contegno, sull'ammirazione che aveva eccitato nelle monache, sul giubilo di queste per l'acquisto che facevano, e per conseguenza sulla felicità di che Geltrude avrebbe goduto in loro compagnia.

Ma tutti gli elogj non furono per Geltrude. La Marchesa, sbadigliando, parlò con ammirazione della badessa. Come s'è portata! diss'ella, non mi aspettava tanto; ah! che contegno! aah! che dignità! aah! che disinvoltura!

Sì, sì, rispose il Marchese, ma! Geltrude sarà altra cosa. Il discorso sarebbe durato fino all'arrivo[83] in città, se il Marchesino, che ne era nojato, non l'avesse troncato per parlare dei divertimenti che Geltrude doveva godere nell'intervallo fra la domanda e l'accettazione. E qui, come conoscitore espertissimo di tutto ciò che nella città e nei contorni era degno da vedersi, egli ne anticipò a Geltrude larghe e variate descrizioni, e le parlò di molte sposine ch'egli aveva incontrate nelle brigate, senza risparmiare la storia di qualche grossa semplicità di taluna di esse, che aveva molto dato da ridere. Il Marchese lasciava chiacchierare il figlio, perchè in questa faccenda egli aveva più da fare che da dire, e tutto ciò che gli risparmiava una occasione di discorso, lo toglieva da un impaccio: quanto alla Marchesa, malgrado i trabalzi che una carrozza di quei tempi, dava in una strada di quei tempi, ella dormiva saporitamente: cosa che non sorprenderà chi sappia che cosa vuol dire essere svegliato tre ore prima del solito e per occuparsi in cosa indifferente.

La Marchesa fu desta dal rimbombo dell'atrio di casa e dall'improvviso fermarsi della carrozza. Scesi e salite le scale, il Marchese intimò alla madre e alla figlia che prima del pranzo dovessero porsi in assetto per andar subito dopo a restituire la visita alle dame che avevano favorito la sera antecedente.

Detto e fatto; l'acconciatura, il pranzo, le visite si succedettero senza interruzione; e la solita conversazione terminò la giornata. Dopo cena il Marchese pose in campo il discorso dei divertimenti che si dovevano[84] dare a Geltrude, e delle conversazioni dove ella aveva ad esser presentata come sposina. Bisognerà pensare senza ritardo, soggiunse egli, a scegliere per Geltrude una madrina degna della nostra casa. La madrina, mio giovane lettore, era una dama incaricata di condurre la sposina ai divertimenti, alle conversazioni, di presentarla e di vegliare sovr'essa. Siccome il Marchese, proferendo quelle ultime parole, s'era voltato verso la Marchesa, come invitandola a proporre la dama che le fosse paruta più a proposito (atto, per parentesi, che il Marchese faceva rarissimo) la Marchesa cominciò tosto: Vi sarebbe... No no, interruppe il Marchese, la prima condizione d'una madrina è ch'ella vada a genio della sposina, e benchè l'uso universale e ragionevole dia questa scelta ai parenti, pure Geltrude ha tanto giudizio che merita che si faccia una eccezione per lei. E qui, rivolto a Geltrude, col piglio di chi fa una grazia singolare, continuò: Ognuna delle dame che avete visitate questa mattina, e di quelle che si sono trovate questa sera alla conversazione ha le condizioni necessarie per esser madrina d'una figlia della nostra casa, e ognuna si terrà onorata di esser preferita: scegliete.

Geltrude, incerta, com'era, e stanca e indispettita dei passi che le si facevano fare sulla via del chiostro, non avrebbe voluto far nulla: ma la grazia era offerta con tanto apparato, ch'ella s'avvide che il rifiuto sarebbe stato preso per un disprezzo; e nello[85] stesso tempo non volle perdere quel qualunque vantaggio che le dava il potere scegliere. Nominò dunque la dama che in quel giorno le era più dell'altre piaciuta, quella cioè che le aveva fatte più carezze d'ogni altra, che l'aveva lodata più d'ogni altra, che nell'accoglierla e nel conversare con lei le aveva mostrato tutto quell'aggradimento, quella famigliarità, quell'affetto, che alle volte in una prima conoscenza imita i modi d'una antica amicizia. La dama scelta da Geltrude aveva da lungo tempo fatto assegnamento sul fratello di Geltrude per farne il marito d'una sua figlia, ch'ella amava assai. Ben scelto, ben scelto, disse il Marchese; e lei, proseguì verso la Marchesa, andrà domani a farne la domanda alla dama, e si ricordi di dire che la scelta è stata fatta da Geltrude; che son certo che la dama aggradirà doppiamente la domanda.

Noi non terremo dietro a Geltrude nei divertimenti e nelle conversazioni a cui fu condotta o strascinata, nè racconteremo tutte le impressioni e i sentimenti dell'animo suo in queste spedizioni; poichè dovremmo ripetere tante volte la stessa cosa, quante furono le fluttuazioni, le risoluzioni, i pentimenti, i sì e i no della sua mente, che furono infiniti.

Talvolta la pompa degli addobbi, lo splendore delle feste, la musica che non esprime alcuna idea, e ne fa nascere a migliaja, quella esaltazione di gioia, che appare negli uomini radunati per divertirsi, e, per dir tutto, le qualità auree di qualche giovane cavaliere,[86] che s'indovinavano al solo vederlo, le comunicava una certa ebbrezza, una specie di entusiasmo, che le faceva proporre di soffrire ogni cosa, piuttosto che di tornare all'ombra trista e fredda del chiostro. Talvolta lo stordimento, la fatica, la seccaggine dell'udire e la contenzione del rispondere le faceva parer dolce quel silenzio e quella pace. Si destava talvolta piena ancora delle immagini splendide del giorno trascorso; pensava al passo irrevocabile che stava per dare, e diceva tra sè: Oh che sproposito! si sentiva un coraggio a tutta prova, e prometteva di tornare indietro. La presenza del padre, o del Marchesino, una cosa qualunque da farsi, raffreddavano quel primo impeto; il quale alla sera si trovava talvolta cangiato in un pieno scoraggiamento. Tornavano allora alla mente le difficoltà, si pensava allora che se anche resistendo si avrebbe potuto schivare il chiostro, non era da sperarsi il viver lieto del quale allora si gustava una parte, perchè si era in colpa, perchè tutta la bonaccia presente non era assicurata che da un perdono, e il perdono dalla risoluzione di pigliare il velo. Come sarebbero andate le cose, se la risoluzione si fosse ritrattata? e con quali parole ritrattarla? come cominciare? da che? Geltrude ritirava lo sguardo da questo mare in tempesta, e rivolgendolo allora al chiostro, il chiostro le parava un porto. Coltivava ella allora i sentimenti pii che potevano far piacere il chiostro a chi l'avesse scelto volontariamente, e in quelli cercava di riposare.[87] Quando dopo questi momenti ella si trovava con la famiglia, o con altri, diceva spontaneamente, e con aria di posata fermezza, parole che dovevano far credere che la sua scelta era liberissima. Tutte le volte poi ch'ella era posta in una circostanza nella quale ciò ch'ella doveva fare o dire doveva essere un nuovo attestato di questa sua scelta, ella faceva e diceva ciò che lo poteva far credere, ciò che la impegnava sempre più. Benchè alcune volte in quelle circostanze ella sentisse una manifesta ripugnanza all'impegnarsi davantaggio, quantunque ella vedesse chiaramente che ciò ch'ella stava per fare le rendeva più e più difficile il retrocedere, pure il dire o fare il contrario l'avrebbe posta tutt'ad un tratto in una situazione così dura e così difficile, ch'ella non poteva nè pure pensare di farlo. Ella era come chi, trovandosi sur un ripido pendìo, vedesse all'ingiù sotto di sè un picciol passo da farsi, e quindi un luogo di riposo, e volgendosi indietro, per guardare alla via che bisognerebbe fare per risalire, vedesse il principio d'una erta, lunga, dirotta, disastrosa. E la povera Geltrude non dava passo che per discendere. Ma siccome chi nuoce a sè stesso nell'avvenire per timore di nuocersi nel momento presente, non vuol mai confessare a sè stesso tutto il male che si fa, nè darsi così tosto per perduto, e ad ogni male che si fa, si consola con l'idea d'un rimedio, così anche Geltrude aveva trovato nella via che le restava da percorrere un momento di più forte speranza. Questo momento era quello dell'esame[88] che un ecclesiastico, deputato dal vicario delle monache, doveva fare della sua vocazione; esame nel quale ella si sarebbe trovata sola con lui, e nel quale ella si teneva certa che qualche occasione si sarebbe offerta per potere svilupparsi da quel laccio, se laccio era, e, in ogni caso, di conoscere ella stessa più chiaramente il suo animo, di deliberare sulla sua scelta più posatamente, più sicuramente di quello che potesse fare coi parenti, già risoluti senza deliberazione, o coi suoi pensieri, troppo agitati, troppo confusi, troppo inesperti per deliberare.

Il momento che Geltrude desiderava non senza qualche terrore, il Marchese lo affrettava con istanze, perchè, come si è detto, egli era uomo esperimentato, e sapeva che a volere che un affare sia spicciato, bisogna muoversi; e il momento venne. Un bel mattino il Marchese annunziò a Geltrude che in quel giorno il signor...., ecclesiastico mandato dal vicario delle monache, verrebbe ad esaminare la sua vocazione. Ma come quella conferenza avrebbe avute conseguenze serie, e Geltrude vi doveva esser sola con l'ecclesiastico, così il Marchese stimò che fosse necessario aggiungere all'annunzio qualche avvertimento che lasciasse una impressione nell'animo della figlia, e le servisse di compagnia e di guardia nell'assenza forzata d'ogni altro custode.

Orsù, Geltrude, diss'egli, finora voi vi siete diportata da angelo: ora si tratta di coronar l'opera. Oggi voi dovete fare un gran passo; pensate che da[89] esso dipende l'onore di vostro padre, della famiglia, il vostro, e il vostro destino di tutta la vita. Tutto quello che si è fatto finora, si è fatto di vostro consenso, anzi a vostra richiesta. Se in tutto questo frattempo vi fosse nato qualche pentimento, qualche dubbio, avreste dovuto manifestarlo; ma ora, voi ben vedete che non è più tempo di far ragazzate. Io mi sono impegnato in faccia al mondo, e mi sono impegnato perchè voi mi avete dato motivo di credere, di esser certo, che poteva impegnarmi senza rischio di avere una smentita. Ricordatevi che la più picciola esitazione che voi potreste mostrare oggi, mi porrebbe nella necessità di scegliere fra due partiti dolorosi: o di rinunziare alla mia riputazione, lasciando credere che io ho preso leggermente una leggerezza vostra per una ferma risoluzione, che ho fatte tante pubblicità senza riflessione... che so io... che ho preteso far violenza alla vostra vocazione... o di svelare i veri motivi della richiesta che voi avete fatta, e del vostro pentimento. Il primo partito non può assolutamente stare con ciò che debbo a me e alla casa. Astretto di appigliarmi al secondo, dovrei anche poi trattarvi come una figlia colpevole, che avrebbe corrisposto al primo perdono con un'altra gravissima colpa.... Il tuono solenne e misterioso, con cui il Marchese aveva cominciato il suo discorso, aveva già messo in apprensione Geltrude, e nella angoscia dell'aspettazione i tratti del suo volto erano immobili, tesi, ravvolti come le foglie d'un fiore nell'afa[90] che precede la burrasca; ma la gragnuola, assidua e crescente, di quelle parole minacciose, percotendola, la abbattè affatto, e la fè sciogliere in uno scoppio di pianto. Via, via... che è stato? disse avvedendosene il Marchese, il quale era in quella faccenda tanto occupato delle conseguenze che essa poteva avere per lui, che non pensava che essa potesse toccare altri tanto sul vivo. Che è stato? Io ho parlato in una supposizione impossibile... pure doveva pensare anche ad un tal caso... via, per quanto giudizio abbiate, io doveva mettervi in avviso sull'importanza delle risposte che oggi siete per dare. Il signor... vi domanderà se la vostra risoluzione è libera, se i parenti non vi hanno comandato, consigliato, che so io?... ed io doveva avvisare di pesare ben bene la risposta, perchè essa sia tale da non pormi nella necessità di farne un'altra io, e... ma via, via, le son ciarle: voi farete il vostro dovere da brava, come avete fatto finora; e non si parlerà tra di noi che di consolazioni. Via, non piangete, ricomponetevi, io vi lascio sola; rasserenatevi, non fate che il signor... vi trovi in uno stato che possa dare dei sospetti... mi fido di voi. Così dicendo partì, lasciando Geltrude a tutta l'agitazione che poteva dare un tal discorso ad una giovane del suo carattere in quella circostanza. Geltrude pianse amaramente, si sdegnò, volle meditare su quello che aveva a dire; ma questa meditazione era così piena di dolori, di incertezze e d'angustie, che la poveretta prescelse[91] di divertirne a forza il pensiero, di rivolgerlo a qualche cosa di estraneo, e di aspettare il consiglio dalla cosa stessa e dal momento. Ma qual si fosse il partito al quale ella dovesse appigliarsi nell'abboccamento, ella stessa sentiva ripugnanza e vergogna a presentarvisi in un aspetto che annunziasse una qualche perturbazione, e risolvette di avere un aspetto tranquillo e decente; e lo ebbe in brevissimo tempo. Pretendono alcuni che le figlie d'Adamo riescano molto meglio a dominare l'espressione esterna del loro animo, che l'animo stesso; e che in questa parte riescano meglio assai che non quegli individui del genere umano, che si chiamano di preferenza uomini. Ma tutte queste quistioni di paragone tra l'un sesso e l'altro, non saranno mai messe in chiaro, e nè pure ben poste, fin che gli uomini soli ne tratteranno ex professo negli scritti: giacchè essi peccano tutti verso le donne o di galanteria adulatoria, o di ostilità grossolana. Con questa osservazione non s'intende già di spiegare temerariamente tante opere profonde, che sono state scritte sul merito comparativo del bel sesso, e le riflessioni infinite e bellissime su questo argomento, che sono sparse in tante altre opere; ma, per quanto una materia sia stata egregiamente trattata, è sempre lecito di desiderare qualche cosa di più.

Il signor....! A questo annunzio Geltrude balzò in piedi vergognosa e agitata, facendogli le accoglienze che usano le persone vergognose e agitate. Il Marchese lo accompagnava, e dato uno sguardo[92] a Geltrude si ritirò: la madrina passò nella stanza vicina: la porta di comunicazione aperta in modo che ella potesse da quella vedere e non intendere.

I lettori d'una storia hanno il privilegio di conoscere i personaggi prima di vederli operare, di sentirli parlare; ed è questa una delle ragioni per cui la lettura d'una storia è molte volte più chiara e meno difficoltosa che la condotta negli affari della vita. Per servire a questo privilegio noi diremo qualche cosa del signor....

Era un buon uomo e la bontà gli era sì naturale, che gli pareva la cosa la più naturale del mondo; siccome ve n'aveva sempre nelle sue intenzioni e nelle sue azioni, egli ne supponeva sempre nelle intenzioni e nelle azioni degli altri: nel che il buon uomo aveva torto. Non vogliam dire con questo ch'egli avrebbe dovuto giudicare sfavorevolmente degli altri, supporre il male, attenersi a quell'indegno proverbio che dice, chi pensa male pensa una volta sola: ohibò: questo è un eccesso più comune e peggiore. Avrebbe dovuto lasciar di giudicare nelle cose che non lo toccavano; e in quelle nelle quali il suo giudizio doveva influire sulla sorte altrui, avrebbe dovuto sospenderlo fino a tanto che da un attento esame egli avesse potuto formarlo favorevole o contrario, buono o tristo, ma con quella maggior certezza che è data a quello stromento guasto che si chiama ragione umana.[93] Il caso di Geltrude mostrerà come egli avesse il torto di pensar bene prima di pensare. Il Marchese parlandogli della figlia, ch'egli aveva ad esaminare, ne aveva esaltata la pietà, l'amore del ritiro, il desiderio di conservarsi nel chiostro per esser pura e santa. Il signor.... aveva creduto con gioia al primo momento tutte queste cose liete; e andava a far l'esame, nel quale si trattava di decidere se la vocazione era vera o falsa, colla prevenzione dolcissima ch'ella era vera; il buon uomo si consolava di avere a sentire l'espressione di un animo pio e fervente, di godere dello spettacolo di una buona risoluzione, mentre avrebbe dovuto pensare ad accertarsi se la risoluzione esisteva. Oh! dirà taluno, se egli non avesse creduto al Marchese, avrebbe dovuto supporre così di primo slancio che Geltrude era una finta, o il Marchese un tiranno impostore. E doveva egli pensar così senza alcun fondamento? Ohibò, di nuovo: non doveva pensar nulla: vi par egli cosa tanto difficile? Ma per non averlo saputo fare il buon uomo preparò l'animo suo nulla più che ad adempiere una cerimonia, una formalità, e faceva tutt'altro; e doveva saperlo. Il signor.... pregò Geltrude di riporsi a sedere, sedette, e vedendo in essa quella leggiera perturbazione ch'era da aspettarsi in quel caso, pensò di rincorarla con un modo scherzevole, e le disse: Signorina, vedo che le fo paura, non me ne maraviglio; io vengo a fare la parte del diavolo; perchè ella saprà che io debbo ora mettere in dubbio quella[94] risoluzione che a lei forse pare certa, ferma, irrevocabile; io debbo ora farle guardare attentamente il rovescio della medaglia, al quale ella forse non ha mai pensato; io debbo interrogarla minutamente per esser certo che ella non pigli qualche illusione per ispirazione.

—Signore, rispose Geltrude, realmente rincorata dalle parole e dal tuono del buon uomo, io ho desiderato ardentemente questo abboccamento. Da questo dipende la scelta della mia vita, e io spero che da ciò che io sentirò da lei, da ciò che io le risponderò, verrò io stessa a conoscere più chiaramente quale sia la mia vocazione.

—Bene, bene, rispose con gioia e quasi con ammirazione il signor..... così mi piace. Quelle proteste veementi, quelle affermazioni enfatiche alla prima, sono talvolta fuochi di paglia, fervori di fantasia. Per decidere bisogna dubitare, o fare come se si dubitasse. La prego, per ora, si faccia forza: per quanto ella credesse di aver risoluto, torni da capo, e si metta bene in testa che si tratta di risolvere ora. Il mio dovere è d'interrogarla su molti capi, e si compiaccia di rispondermi con semplicità e con riflessione. Come le è venuta questa risoluzione di abbandonare il mondo e di farsi monaca?

Se il buon ecclesiastico avesse avuto l'intenzione di affliggere, di umiliare e di confondere Geltrude, non avrebbe potuto scegliere una interrogazione più opportuna di questa: ma egli era ben lontano dal[95] supporre l'effetto ch'ella doveva produrre, e l'aveva fatta nella semplicità del suo cuore, e per adempire alle regole del suo uficio, che la prescrivevano.

Geltrude rimase come colpita: che rispondere? parlare della cagione vera e primaria, raccontare l'istoria del paggio?.... Dio liberi! Quella storia ella voleva schivarla a tutto costo. Ma, tacendola, come spiegare la sua domanda di farsi monaca, e tutti i passi conformi a quella domanda? Addurre violenze, minacce dei parenti? Ma non ne avevano usate, e questa menzogna (giacchè in quel momento Geltrude era disposta a farne una, e pensava solo a scegliere quella che l'avrebbe cavata più presto d'impaccio, e che non sarebbe stata scoperta in seguito) questa menzogna avrebbe certamente cagionata una spiegazione, che sarebbe tutta tornata in disonore di Geltrude. Che s'ella avesse attribuita la sua risoluzione al desiderio di compiacere ai parenti, ai loro consiglj, a leggerezza propria, la spiegazione diventava pure inevitabile; e in quel momento le parole che Geltrude aveva intese poco prima dal padre, le ripassarono in processione nella memoria. Le parve dunque che il solo mezzo per uscire da quel gineprajo fosse di dare una risposta che piacesse all'interrogante e al padre, che non lasciasse oscurità, nè punti da discutere nell'avvenire; sentì che per dare una tal risposta bisognava mostrare che la risoluzione fosse tuttavia ferma; vide le conseguenze, ma ci si risolse. Avvezza com'era a trarsi dalle circostanze difficili[96] con ripieghi che la ponevano in circostanze più difficili ancora, a consumare, per dir così, il tempo avvenire per vivere in quel momento, ella cedette all'abitudine e alla difficoltà, mentì contro sè stessa, e disse: È la mia vocazione: fino dai miei primi anni io mi sono sentita inclinata a servir Dio nel chiostro, lontano dai pericoli e dalle cure del mondo. Queste parole furon porte con l'apparenza della più ferma persuasione; e l'indugio, ch'ella aveva posto al rispondere, parve al signor.... un segno, una prova di riflessione posata. E in quel momento furon contenti ambedue; egli di vedere una così buona disposizione, ella di essere uscita d'impaccio come che fosse. Da quel momento Geltrude non pensò nelle altre risposte che a confermare la prima; e edificò il signor.... oltre ogni sua speranza. Quando egli le chiese se i parenti non avessero usate minacce, o troppo instanti preghiere per determinarla alla scelta dello stato religioso.... No, no, rispose con vivacità Geltrude; i miei parenti desiderano certo che io sia monaca; ma mi hanno lasciata libera, mi hanno lasciata libera. Il signor.... si scusò di averle fatta una simile interrogazione. Il signor Marchese—diss'egli—, quel cavaliere così degno! s'immagini s'io posso pensare di lui una cosa simile! ma, io ho fatto il mio dovere, per quanto strano mi paresse in questa circostanza.

L'esame finì con le giulive congratulazioni del signor.... il quale, come per iscaricarsi la coscienza[97] di aver fatto qualche cosa per distorre un'anima buona da un pio proponimento, le disse tutto ciò che gli suggeriva il suo zelo cordiale per confermarla in quello, e partì con la persuasione di non aver mai trovata un'anima così ben disposta. Del resto, noi siamo ben lontani dal dare l'unica colpa, e nemmeno la primaria, della riuscita di quell'esame all'ingegno corrivo del buon uomo. Coi tristi antecedenti di Geltrude, e col suo carattere, la cosa doveva avere a un dipresso quell'esito, qualunque fosse l'esaminatore.

Geltrude, ancor più fortemente compresa dall'idea del pericolo che aveva passato, che dal pensiero dell'impegno che aveva preso, corse tosto dal padre. Questi era in uno stato di aspettazione inquieta: ma Geltrude tutta commossa (le commozioni si scambiano facilmente non solo da chi le osserva, ma da chi le prova) gli raccontò frettolosamente l'esito della conferenza, e il Marchese respirò. Le fece animo, la colmò di lodi, la soffocò di promesse, tutto questo con una eloquenza di tenerezza sentita; giacchè in quel punto egli era lieto non solo di avere ottenuto il suo fine, ma le parole di Geltrude sembravano di chi ha liberamente scelto ed è contento della sua scelta; e la benevolenza per chi fa quello che uno desidera, in modo da togliergli ogni inquietudine ed ogni rimorso, è una virtù concessa a tutto il genere umano.

[98]

Da quel giorno in poi Geltrude non ebbe più che due occupazioni, l'una interiore, ed era di persuadere a sè stessa ch'ella era contenta della sua scelta, di fermarsi quanto più poteva su le immaginazioni che potevano renderle gradevole il monastero, di cercare un po' nella divozione, un po' nel pensiero delle distinzioni che vi avrebbe avute, consolazioni celesti o mondane, tutto, purchè fosse consolazioni. L'altra occupazione era di accelerare quanto più si poteva tutte le operazioni preliminari alla vestizione, per uscir di casa, per esser chiusa una volta, per precludersi ogni strada al tornare addietro, per non sentirsi più nascere in cuore quell'intollerabile: potrei forse ancora. Questo suo desiderio s'accordava troppo con quelli del Marchese, perch'egli non cercasse ogni via di soddisfarlo, e infatti egli sollecitò a tempo e a contrattempo tutte le dispense per far presto.

Così mi sembra che sarà bene che facciamo pur noi in questo racconto. Diremo dunque che Geltrude entrò nel monastero di Monza, e che assunse l'abito; che scorso il tempo del noviziato, nel quale la sua risoluzione parve sempre più spontanea e ferma, perchè ella mostrava tutto ciò che poteva farlo credere, e divorava nel suo cuore tutto ciò che avrebbe potuto far credere il contrario, trascorso questo tempo, ella fece la solenne professione, con una pompa straordinaria, e quale si conveniva alla casa. Il sacrificio fu consumato, il dono fu posto su l'altare, ma era di frutti della terra; la mano che ve lo aveva posto non[99] era monda; il cuore non lo offriva; e lo sguardo del cielo non discese sovr'esso.

È uno dei caratteri più ammirabili e più divini della religione cristiana, di potere in qualunque circostanza dare all'uomo, che ricorra ad essa, un rimedio, una norma, e il riposo dell'animo. Quegli stesso, che per violenza altrui, o per suo fallo, o per sua malizia s'è posto in una via falsa, può ad ogni momento approfittare di questi beneficj. Poichè, se la via ch'egli ha intrapresa è iniqua, la religione glielo fa conoscere, gli da l'idea chiara ed assoluta del dovere ch'egli ha di ritrarsene e la forza di farlo, che che ne possa conseguire; e se la via è soltanto difficile, pericolosa, spiacevole, ma senza adito al ritorno, da questa stessa dura necessità di proseguire in essa, la religione cava un motivo e dei mezzi per renderla regolare, praticabile, sicura, diciamolo pure arditamente, soave e deliziosa. Disapprovando i motivi che l'hanno fatta intraprendere, perchè erano falsi, essa ne somministra un altro nuovo ed inconcusso per continuarla, e dà ad una scelta temeraria o infelice, ma irrevocabile, tutta la santità, tutti i conforti, tutta la tranquillità della vocazione. Con quest'ajuto[100] Geltrude, a malgrado della perfidia altrui e dei suoi errori di ogni genere, avrebbe potuto divenire una monaca santa, e contenta; e il secolo stesso, anzi l'età in cui ella visse, ha dato esempj, dei quali si è conservata la memoria, di donne che strascinate al chiostro con l'arte e con la forza, e dopo d'essersi per alcun tempo dibattute come vittime sotto la scure, vi trovarono la rassegnazione e la pace, una pace quale si trova di rado negli stati eletti più liberamente. Che dirò? Geltrude stessa fu uno di questi esempj, e insigne; ma ben tardi e dopo ben altri errori, anzi delitti, dopo sofferta ben altra forza che quella di cui abbiamo parlato. Ma per non precorrere ora agli eventi col racconto, diremo che Geltrude dopo la sua professione continuava ad opporre nel suo cuore un ostacolo ai rimedj e alle consolazioni che la religione avrebbe date alla sua sciagurata condizione: e questo ostacolo erano le consolazioni ch'ella andava cercando altrove, e particolarmente nelle cose che potevano lusingare il suo orgoglio.

Il lettore non avrà forse dimenticato che la famiglia onde usciva Geltrude era molto potente, e che questa era la cagione principale per cui ella era stata tanto desiderata nel monastero. Infatti il monastero[101] aveva acquistato nel marchese Matteo un protettore dichiarato, il quale risguardava ormai come parte del suo onore l'onore del luogo dove si trovava una sua figlia. Ma questo vantaggio le suore lo pagavano, e per verità la cosa era giusta. Lo pagavano in tanti sgarbi, in tanti scherni, in tante fantasticaggini che avevano a sopportare da Geltrude, la quale, ricordandosi di tempo in tempo delle arti usate da quelle per ajutare a tirarla in quel luogo, dove di tempo in tempo ella non si poteva patire, si sfogava avventando beccate agli uccelli che avevano cantato per farla venire nella loro gabbia. E queste beccatelle le suore le toccavano senza risentirsene, per non perdere tutto il frutto del loro acquisto. Geltrude, vedendosi così distinta, così sopportata, tanto più libera delle altre, provava talvolta un certo conforto iracondo nel valersi di questi vantaggi, e nell'esercitare in tal modo la sua superiorità. Una superiorità d'un altro genere era pure per essa una occasione continua di cercare consolazioni nell'amor proprio, ed era la sua bellezza: ma quali consolazioni, per amor del cielo! pari a quelle che provava Robinson nella sua isola in contemplare le monete ch'egli aveva trovate nei frantumi del vascello sul quale era naufragato. Anzi non pari, perchè quel solitario[102] le gettò in disparte con disprezzo, dopo d'aver fatto ad esse un'apostrofe su la loro inutilità, e non vi pensò più; ma la bellezza era per Geltrude un rodimento continuo, una occasione di regressi affannosi nel passato, e di sguardi disperati nell'avvenire. Ben è vero che ella si andava paragonando con le altre e si trovava più bella, ch'ella rideva di tratto in tratto, e si sarebbe creduto ch'ella ridesse di voglia, degli occhi sciarpellati della madre badessa, e del mento incartocciato della madre celleraria, ma in verità che quel riso non lasciava alla poveretta il dolce in bocca. Spendeva una parte del suo tempo nell'adornarsi come poteva, e così ingannava alcun poco la sua noja; cercava di ridurre l'abbigliamento monastico alle fogge secolaresche, o di accordarlo all'aria del suo volto, e, a dir vero, questo le riusciva facilmente, perchè la natura le aveva dato un volto che per poco che gli si lavorasse attorno stava bene. Per far questo, aveva Geltrude trovato un mezzo molto ingegnoso. Gli specchj, come ognun sa, erano proibiti nei chiostri come i lumi nelle polveriere, e Geltrude nei primi tempi non osava ancora, come fece in appresso, conculcare tutte le regole; ma la infelice[103] scaltrita aveva fatto porre dietro ad un quadretto, ch'ella teneva appeso nella sua camera, una lastra di latta levigatissima, e a quella si consultava segretamente. Ma quando dalle sue consulte ella aveva conchiuso che anche in quell'abito ella era avvenente assai, quand'anche ella se lo udiva ripetere dalle più mondane o dalle più adulatrici fra le sue compagne, il suo cuore ne rimaneva tutt'altro che soddisfatto. E quando poi il suo cuore le rinfacciava anche quella poca parte di piacere così mescolato e corrotto ch'ella aveva gustato, ella sentiva più rabbia che pentimento. Così la meschina si precludeva l'adito alle consolazioni reali di cui il suo stato era ancora capace, perchè per giungere a quelle, la prima condizione è di non curare il resto; come il naufrago, che vuole afferrare la tavola galleggiante che può condurlo in salvamento sulla riva, deve pure sciogliere il pugno e abbandonare le alghe e gli sterpi nuotanti, che aveva abbrancati per una rabbia d'istinto.

Ad essere badessa si richiedeva l'età di quaranta anni; e quest'erba, per magra che fosse, era pure anco ben lunge dal becco di Geltrude. Ma, oltre le distinzioni e le franchigie, per così dire, ch'ella godeva per la condiscendenza delle suore e delle superiore, le era tosto stato conferito il grado più elevato che fosse compatibile con la sua giovinezza, era stata eletta maestra delle educande. E per una distinzione singolare le erano state assegnate due giovani suore converse, le quali erano come ai suoi servizi, quasi[104] damigelle. Quel posto era per Geltrude un'occasione continua di esercitare le passioni più pericolose ch'ella covava. Fra le educande che le erano state affidate si trovavano ancora alcune di quelle che le erano state compagne, e Geltrude, così vicina ad esse di età, non aveva ancora dimenticati i risentimenti e le rivalità puerili del sodalizio: ed ora gli sfogava talvolta con tutta la forza che le dava la sua autorità. Nei momenti, spesso assai lunghi, di tristezza e di pentimento dello stato che aveva abbracciato, ella provava un certo rancore contro quelle giovanette, destinate per la più parte ad una vita libera e splendida, che non era più per lei; le risguardava come nemiche, le spiaceva di vederle liete d'una letizia che non era sperabile per essa, e faceva di tutto per toglierla loro; cosa assai facile ad una superiora. Sentiva ella bene la pazza ingiustizia di questa sua passione, ma vi si abbandonava. E in quei momenti poverette quelle educande. Talvolta, dopo d'aver lasciato tornare indietro il suo pensiero ne' diletti del mondo, dopo avervelo lasciato riposare per lungo tempo, ella ne sorprendeva alcune che parlavano fra di loro di ciò ch'ella aveva pensato, e allora chi l'avesse udita sgridarle ferocemente, l'avrebbe creduta invasa d'uno zelo inconsiderato, e d'una staccatezza indiscreta e anti-sociale. Talvolta invece predominava[105] nell'animo suo l'orrore al chiostro, alle regole, alla disciplina, all'obbedienza, alla solitudine, a tutte quelle cose in mezzo delle quali ella si trovava per forza, e allora non solo ella sopportava la svagatezza clamorosa delle sue allieve, ma la animava; si mesceva ai loro giuochi e gli rendeva più liberi; entrava nei loro discorsi, e gli portava al di là delle intenzioni con le quali esse gli avevano incominciati.

In queste agitazioni, in questo stato di guerra continua con sè stessa, e con ogni cosa circostante, ella passò i primi anni del chiostro, non senza qualche ritorno di divozione e di regolarità temporaria, dal quale ricadeva ben presto nelle sue abitudini predominanti. Questa vita di noja e di contrasto era tanto penosa che, senza forse esserne ben conscia a sè stessa, ella si trovava disposta ad abbracciare qualunque distrazione, qualunque cangiamento di sensazioni fosse stato possibile. Ma la clausura, le grate, le regole, la facevano camminare con una regolarità esteriore; i suoi pensieri soltanto vagavano in piena licenza; ma non v'era una occasione per concedere impunemente, o con lusinga d'impunità, una simile licenza alle sue azioni. Finalmente la sventura di Geltrude volle che l'occasione si presentasse; e Geltrude si portò in quella come era da temersi, e come diremo nel seguente capitolo.

[106]

Il quartiere dove abitavano le educande e con esse Geltrude e le sue damigelle, era annesso al monastero, ma appartato, e comunicava con esso per mezzo d'un corridojo. Era un cortiletto quadrato, ricinto a terreno da un porticato continuo, sul quale per tutti e quattro i lati girava un basso ed unico piano di abitazione. Il lato appoggiato a quella parte del chiostro ove dimoravano le suore, era un lungo stanzone che serviva alla scuola ed alla ricreazione delle educande; un altro lato era occupato pure da un lungo stanzone che serviva di dormitorio; il terzo, diviso in varie camere, era l'appartamento della Signora e delle sue damigelle; il quarto finalmente, più stretto degli altri, era tenuto dal corridojo che conduceva nell'interno del chiostro, il quale abbracciava il cortiletto da tre lati. L'altro, e appunto quello occupato dall'appartamento di Geltrude, era contiguo ad una casa privata e signorile, o per meglio dire ad una parte rustica e non finita di quella casa. Era dessa[107] elevata al di sopra del quartiere delle educande; ma quello che se ne poteva vedere da quindi pareva piuttosto una catapecchia, un casolaraccio, che una parte di casa civile; erano tetti e tettucci, diseguali di altezza e di forma; soprapposti l'uno all'altro come a caso. Ma in uno di quei tetti v'era un pertugio, un abbaino, che dava luce ad un solajo e adito a passare su quei tetti, e dal quale si poteva guardare nel cortiletto delle educande.

Era severamente prescritto alle monache dagli ordini ecclesiastici, che dovessero togliere ai vicini ogni vista nel loro chiostro; ma o fosse che, per essere quella parte di casa disabitata, le monache non avessero mai badato a quel pertugio, o fosse che la spesa per liberarsi da quella servitù eccedesse la possibilità del monastero, o che non si potesse venirne a capo senza quistioni, il fatto è che da quel pertugio si guardava nel cortiletto delle educande; e un altro fatto assai tristo si è che il padrone di quella casa era un giovane scellerato: e questa parola, applicata ad un uomo di quei tempi, ha un senso molto più forte di quello che generalmente vi s'intende nei nostri; perchè a quei tempi, tante cagioni favorivano la scelleratezza, che in coloro i quali vi si distinguevano, essa giungeva ad un segno del quale, grazie a Dio, non si può avere una idea dalla esperienza[108] comune del vivere presente. I mezzi d'impunità erano allora varj ed infiniti: la frequenza dei delitti ne aveva diminuito il ribrezzo e la vergogna: gli animi erano avvezzi ed allevati, per dir così, nel sangue: da questi fatti era nato un pervertimento quasi generale nelle idee, e allo stesso tempo la perversità delle idee quei fatti, più comuni rendeva e più tollerati. La vendetta, per esempio, era comunemente stimata non solo lecita, ma comandata in alcuni casi; e benchè i ministri della religione non l'avessero mai fatta piegare nelle istruzioni pubbliche a questa massima perversa, benchè non avessero anzi cessato giammai di inveire contra la vendetta e contra le massime che la autorizzavano, pure l'opinione quasi generale del mondo sussisteva col favore di una distinzione, che, a malgrado della sua assurdità, o forse a cagione della sua assurdità, non è ancora del tutto caduta in disuso: si diceva che i preti facevano il loro dovere, che dicevano benissimo, che la vendetta secondo la religione era viziosa, ma ch'essa era un dovere secondo le leggi dell'onore: così si diceva e non dai più perversi, nè dai più stolti. Ora queste leggi dell'onore erano in allora molto draconiane, e domandavano sangue per molti casi: senza che questo onore così delicato si stimasse poi offeso, se per necessità il sangue si fosse dovuto versare a tradimento o per mano di sicarj. Ne veniva di conseguenza che gli omicidj erano molto frequenti, che uno commesso diveniva causa di un altro, e così all'infinito, e che[109] l'orrore al sangue si diminuiva con l'abitudine anche negli uomini che non erano sanguinarj, e che si era formato come un sentimento universale che una certa misura di animosità, di crudeltà e di delitti fosse una condizione necessaria, inevitabile della società; chi avesse detto che quello era un male temporario e speciale, sarebbe stato deriso come un ottimista, un utopista, un sognatore metafisico; appena uno si sarebbe degnato di rispondergli: gli uomini sono sempre stati e saranno sempre così. Portate le idee comuni a questo punto di licenza in molti, e di tolleranza e di rassegnazione in quasi tutti gli altri, egli è chiaro che gli uomini i quali avevano una tendenza distinta alla perversità, per giungere al colmo di essa, pigliavano le mosse da un punto ben più avanzato, ben più vicino al termine che non sieno le idee comuni dei nostri giorni; trovavano meno ostacoli e più incitamenti che ai nostri giorni a giungervi, e vi giungevano. L'omicida ai nostri giorni, quand'anche fosse impunito, sarebbe un oggetto di orrore; oggetto forse di più profondo orrore sarebbe chi, senza commettere l'omicidio di propria mano, ne avesse dato l'ordine ed il prezzo; e tali rei, oltre le pene legali, dovrebbero temere di perdere tutte le dolcezze della comune società. Quindi l'uomo che, in qualunque condizione, aspira a goderle, ha pure da questo lato un freno potente. Ma allora v'erano molti casi in cui l'avere ucciso, o fatto uccidere, non toglieva alla riputazione d'un uomo: l'omicida volontario era ammesso[110] a giustificarsi e a render ragione dinanzi alla opinione publica: non si trattava che di provare che il caso richiedeva l'omicidio, che il delitto era una azione tollerata, o prescritta dalle leggi della opinione stessa. La speranza di poter fare questa giustificazione dinanzi ad una opinione già tanto perversamente indulgente, e di farla accettare col terrore, doveva essere ed era uno stimolo ai tristi potenti per correre allegramente la loro via. Bastava quindi un leggero interesse, una picciola passione a spingere anche i meno tristi fra i tristi ad attentati ai quali ora si risolverebbero a fatica gli uomini i più avvezzi al delitto, benchè vi fossero tratti da un interesse molto maggiore, da una passione molto più violenta. Sarebbe un soggetto degno di curiosità la ricerca delle cagioni por cui quelle idee e quei costumi, dopo aver regnato per troppe età in quasi tutte le nazioni d'Europa, sieno poi stati da migliaja di scrittori e da milioni di parlanti attribuite poi esclusivamente agli Italiani. Ma noi invece di avviarci in una nuova digressione, ne abbiamo ora una, e anzi lunghetta che no, da farci perdonare: torniamo quindi alla storia.

Il padrone della casa contigua al quartiere delle educande, era dunque un giovane scellerato: e si[111] chiamava il signor Egidio: poichè di cognomi, come abbiam detto, l'autor nostro è molto sparagnatore. Suo padre, uomo dovizioso bastantemente, non aveva avuta altra mira nell'educarlo, che di renderlo somigliante a sè stesso: ora egli era un solenne accattabrighe: Egidio non aveva quindi sentito dall'infanzia a parlar altro che di soddisfazioni e di fare stare, non aveva veduto quasi altro che schioppi e pugnali; e dalle braccia della nutrice era passato in quelle degli scherani. La madre, ch'era di un carattere mansueto e pio, avrebbe potuto forse temperare in parte questa educazione, ma ella era morta lasciando Egidio nella infanzia, dopo una lenta malattia, cagionata dai continui spaventi. Il padre fu ucciso dopo una brevissima questione da un suo emolo, membro di una famiglia emola della sua da generazioni; ed Egidio restò solo e padrone nella sua giovinezza. La prima sua impresa fu di risarcire l'onore della famiglia, con una schioppettata nelle spalle dell'uccisore di suo padre. Questa impresa però lo pose da quel momento in un continuo pericolo; e per assicurarsi, egli dovette crescere il numero dei suoi bravi, e non camminar mai che in mezzo ad un drappello. Suo padre aveva non solo nel paese, ma altrove amici assai, e conformi a lui di massime e di condotta; Egidio gli ereditò tutti, e gli coltivò, tanto più che aveva bisogno della loro assistenza. Ma i garbugli e il macello non piacevano a lui, come al padre, per sè medesimi: l'educazione lo aveva addestrato a non[112] temerli, e a corrervi anzi ogni volta che un qualche fine ve lo spingesse: ma non erano un fine, un divertimento, un bisogno per lui. La sua passione predominante era l'amoreggiare; a questa si abbandonava, con quelle precauzioni però che esigeva lo stato di guerra in cui egli si trovava, e per questa egli veniva ai garbugli ed al macello quando non si poteva fare altrimenti.

L'abbaino che guardava nel cortiletto del chiostro non era frequentato da nessuno tanto che visse il padre, il quale non si curava di spiare i fatti delle educande. Soltanto egli vi aveva condotto una volta Egidio adolescente, per fargli osservare che quello era un dominio sul chiostro, e quivi stendendo la mano sui tetti sottoposti, come Amilcare sull'ara, aveva fatto promettere a quel picciolo Annibale che mai in nessun tempo egli non avrebbe sofferto che le monache si togliessero quella servitù. Egidio, divenuto padrone, si risovvenne dell'abbaino e gli parve un dominio assai più importante che suo padre non lo aveva creduto.

Un consorzio di donzellette, le quali non erano tutte bimbe, parve a colui uno spettacolo da non trasandarsi, quando lo aveva così a portata; e la santità del luogo, il riserbo con cui eran tenute, l'innocenza loro, tutto ciò che avrebbe dovuto essere freno, fu incentivo alla sua sfacciata curiosità, la quale non aveva disegni già determinati, ma era pronta a cogliere e a far nascere tutte le occasioni.[113] Si affacciava egli dunque all'abbaino con quella frequenza e con quella libertà che non bastasse a farlo scoprire da chi non avrebbe voluto. Nelle ore in cui Geltrude non faceva guardia alle educande, e queste ore tornavano sovente, gettò egli gli occhi sopra una delle più adulte, e trovato il terreno dolce, si diede a chiacchierellare con essa: ma pochi giorni trascorsero, che quella, fidanzata dai suoi parenti ad un tale, fu tolta dal monastero, e così la tresca finì, senza che nessuno l'avesse avvertita. Egidio, animato da quel primo successo, ed allettato più che atterrito dalla empietà del secondo pensiero, ardì di rivolgere e di fermare gli occhi e i disegni sopra la Signora: e si diede ad agguatarla. Un giorno, mentre le educande erano tutte congregate nella stanza del lavoro con le due suore addette ai servigj della Signora, passeggiava essa sola innanzi e indietro nel cortiletto, lontana le mille miglia da ogni sospetto d'insidie, come il pettirosso sbadato saltella di ramo in ramo senza pure immaginarsi che in quella macchia vi sia dei panioni, e nascosto dietro a quella il cacciatore che gli ha disposti.

Tutt'ad un tratto sentì ella venire dai tetti come un romore di voce non articolata, la quale voleva farsi e non farsi intendere, e macchinalmente levò la faccia verso quella parte; e mentre andava cercando con l'occhio per quegli alti e bassi, quasi cercando il punto preciso donde il romore era partito, un secondo romore, simile al primo, e che manifestamente[114] le apparve una chiamata misteriosa e cauta, le colpì l'orecchio, e la fece avvertire il punto ch'ella cercava. Guardò ella allora più fissamente per conoscere che fosse; e i cenni che vide non le lasciarono dubbio sulla intenzione di quella chiamata. Bisogna qui render giustizia a quella infelice: qual che fosse fin allora stata la licenza dei suoi pensieri, il sentimento ch'ella provò in quel punto fu un terrore schietto e forte: chinò tosto lo sguardo, fece un cipiglio severo e sprezzante, e corse come a rifugiarsi sotto quel lato del porticato che toccava la casa del vicino, e dove per conseguenza ella era riparata dall'occhio temerario di quello: quivi, tirando lunghesso il muro, rannicchiata e ristretta come se fosse inseguita, si avviò all'angolo dov'era una scaletta che conduceva alle sue stanze, vi salse, e vi si chiuse, quasi per porsi in sicuro. Posta a sedere tutta ansante, fu assalita da una folla di pensieri: cominciò, prima di tutto, a ripensare se mai ella avesse dato ansa in alcun modo alla arditezza di colui, e trovatasi innocente si rallegrò: quindi, detestando ancora sinceramente ciò che aveva veduto, se lo andava raffigurando e rimettendo nella immaginazione, per venire più chiaramente a comprendere come, perchè ciò fosse avvenuto. Forse era equivoco? forse l'aveva egli presa in iscambio? forse aveva voluto accennare qualche cosa d'indifferente? Ma più ella esaminava, più le pareva di non avere errato alla prima, e questo esame, aumentando la sua certezza, la andava famigliarizzando[115] con quella immagine, e diminuiva quel primo orrore e quella prima sorpresa. Cosa strana e trista! il sentimento stesso della sua innocenza le dava una certa sicurtà a tornare su quelle immagini; ella compiaceva liberamente ad una curiosità di cui non conosceva ancora tutta l'estensione, e guardava senza rimorso e senza precauzione una colpa che non era la sua. Finalmente dopo lunga pezza ella si levò come stanca di tanti pensieri che finivano in uno, e desiderò di trovarsi con le sue educande, con le suore, di non esser sola. Esitò alquanto su la strada che doveva fare: ripassando pel cortiletto ella avrebbe potuto lanciare un guardo alla sfuggita dietro le spalle su quei tetti per vedere se colui era tanto ardito da trattenervisi, e così saper meglio come regolarsi.... ma s'accorse tosto ella stessa che questo era un sofisma della curiosità, o di qualche cosa di peggio, e senza più esitare s'avviò pel dormitorio alla stanza dove erano le educande: qui, o fosse caso, o un resto di quella esitazione, ella si affacciò ad una finestra che aveva dirimpetto appunto quei tetti, vi guardò, vide il temerario che non si era mosso, partì tosto dalla finestra, la chiuse e uscì da quella stanza, dicendo in fretta alle educande, con voce commossa: lavorate da brave; e se ne andò difilato a passeggiare nel giardino del chiostro. L'atto repentino e la commozione della voce non diedero nulla da pensare nè alle educande, nè alle suore, avvezze le une e le altre agli sbalzi frequenti dell'umore della Signora.[116] Ma ella stava peggio nel giardino che già non fosse nelle sue stanze. Le venne un pensiero, che avrebbe dovuto avvertire dell'accaduto chi poteva opporsi a tanta temerità. Ma..., e se mi fossi ingannata? Questo dubbio non le veniva che allor quando la manifestazione di ciò che aveva veduto le si presentava alla mente come un dovere. Prima di parlare, diceva fra sè, voglio esser certa; troverò il modo di farlo con prudenza. E finalmente, concluse fra sè, in un accesso di passioni diverse, finalmente che colpa ci ho io? questo monastero non l'ho piantato io qui vicino a questa casa. Così non foss'egli stato piantato in nessun angolo della terra! Dovevano pensarci quelle che sono venute a chiudervisi di loro voglia. Vada come sa andare. Io non voglio pensarci.

Queste parole volevano dire, forse senza che Geltrude stessa lo scorgesse ben chiaro, che d'allora in poi ella non avrebbe pensato ad altro. Il nostro manoscritto segue qui con lunghi particolari il progresso dei falli di Geltrude; noi saltiamo tutti questi particolari, e diremo soltanto ciò che è necessario a fare intendere in che abisso ella fosse caduta, e a motivare gli orribili eccessi d'un altro genere ai quali la strascinò la sua caduta. L'assedio dello scellerato Egidio non si rallentò, e Geltrude cominciò a mettersi sovente nella occasione di mostrargli ch'ella disapprovava le sue istanze, quindi passando gradatamente dalle dimostrazioni della disapprovazione a quelle della noncuranza, da questa alla tolleranza,[117] finalmente dopo un doloroso combattimento si diede per vinta in cuor suo, e con quei mezzi che lo scellerato aveva saputi trovare e additarle lo fece certo della sua infame vittoria. Cessato il combattimento, la sventurata provò per uno istante una falsa gioja. Alla noja, alla svogliatezza, al rancore continuo, succedeva tutt'ad un tratto nel suo animo una occupazione forte, gradita, continua; una vita potente si trasfondeva nel vuoto dei suoi affetti; Geltrude ne fu come inebriata; ma era la coppa ristorante che la crudeltà ingegnosa degli antichi porgeva al condannato per invigorirlo a sostenere il martorio. L'avvenire gli apparì come piano e delizioso. Alcuni momenti della giornata spesi a quel modo, e il resto impiegato a pensare a quelli, ad aspettarli, a prepararli le sembrò una esistenza beata, che non lascerebbe nè cure, nè desiderj; ma le consolazioni della mala coscienza, dice il manoscritto, profittano altrui come al figliuolo di famiglia le somme ch'egli tocca dall'usurajo. L'accecamento di Geltrude e le insidie di Egidio s'avanzavano di pari passo, e giunsero al punto che il muro divisorio non lo fu più che di nome.

Già prima di arrivare a questo estremo, nel carattere di Geltrude era accaduto un gran cangiamento,[118] tutte le inclinazioni viziose, che vi erano come addormentate, si risvegliarono più forti e più adulte e a tutte queste si aggiunse l'ipocrisia. Cominciò ella nei primi momenti a divenire più attenta nell'esteriore, più regolare, più tranquilla; cessò dagli scherni e dal rammarichio; di modo che le suore si congratulavano a vicenda della mutazione felice. Ma quando all'effetto naturale del fallo si aggiunse la scuola viva e diretta dello scellerato giovane, ognuno può immaginarsi, quali diventassero le idee di Geltrude. Tutto ciò che era dovere, pietà, morigeratezza era già da gran tempo associato nella sua mente alla violenza ed alla perfidia, ed aveva un lato odioso e sospetto; i ragionamenti che tendevano a mostrare che tutto ciò era una invenzione dell'astuzia, un'arte per godere a spese altrui, accolti dal cuore e presentati all'intelletto, furono ricevuti in esso come amici savj e sinceri. Vi ha nelle teorie del vizio qualche cosa di più pensato, di più profondo, di più verosimile che non appaja nelle massime del dovere espresse in un modo volgare e talvolta inesatto: di modo che il pervertimento può parere facilmente un progresso di ragioni. Ben è vero che al di là di quelle teorie ve[119] n'ha una più profonda e vera che mostra la loro fallacia; ma questa non è dato trovarla se non ad una meditazione potente, o ad un sentimento retto; ma Geltrude non aveva nè l'uno, nè l'altro di questi ajuti. Ella fu dunque una docile e cieca discepola, e conobbe e ricevè tutte quelle idee generali di perversità a cui l'ignoranza e la irriflessione di quei tempi permetteva di arrivare.

Ma non andò molto che il maestro ebbe a domandarle, o ad imporle nuovi passi nella carriera ch'ella aveva intrapresa. Geltrude aveva a poco a poco trasandate quelle cure di apparente regolarità che si era prescritte; la licenza a cui si era abbandonata le rendeva più insopportabile ogni contegno, e così si rilasciò tanto, che negli atti e nei discorsi divenne più libera e irregolare di prima. Insieme a quelle cure cominciò, senza avvedersene, a trascurare anche le precauzioni che aveva da prima messe in opera per nascondere quello che tanto le importava di nascondere; e le trascurò tanto che ella s'accorse chiaramente un giorno che le due damigelle che le stavano più vicine avevano qualche sospetto. Tutta atterrita ella comunicò la sua scoperta a colui che era il suo solo consigliere. Questi ne fu pure atterrito, ma a mille miglia meno di Geltrude, per la diversità delle circostanze, e perchè tanto era minore il suo pericolo che non quello della donna, e per la diversità dell'animo: perchè quello di Egidio era duro e grossolano; e in Geltrude il timore della vergogna[120] era una passione furiosa, come si è veduto dalla sua condotta anteriore. Pensò egli quindi più freddamente al modo di scansare il pericolo, e ne trovò uno che era per lui una nuova occasione di soddisfare alle sue passioni. Per riuscirvi, egli coltivò il terrore di quella poveretta, le fece tanta paura del male, che nessun rimedio le paresse troppo doloroso: e finalmente propose l'infame rimedio, che fu di render partecipi del segreto e di associare alla colpa le due che la sospettavano. Lo scellerato pose in opera tutta la sua astuzia, si valse di tutto il predominio che aveva sull'animo di Geltrude, adoperò tutte le dottrine che le aveva insegnate e ch'ella aveva ricevute. L'albero della scienza aveva maturato un frutto amaro e schifoso, ma Geltrude aveva la passione nell'animo e il serpente al fianco; e lo colse. Con la direzione del serpente ella trasfuse prudentemente a gradi a gradi nelle menti delle due suore il pervertimento che era necessario per renderle sue complici, e consumò il proprio avvilimento nella loro colpa. Venuta in questo fondo, la sventurata perdette con ogni dignità ogni ritegno, e agguerrita contra ogni pudore, si trovò disposta ad agguerrirsi ad ogni allentato; e l'occasione non tardò a presentarsi.

Una delle due suore addette alla Signora, quando cominciò ad avere qualche sospetto, lo confidò ad un'altra suora, sua amica, facendosi promettere il segreto; promessa che le fu tenuta, perchè la Signora era troppo potente e il segreto troppo pericoloso, e la voglia di ciarlare fu vinta dalla paura.

[121]

Non era che un sospetto, e gli indizj eran deboli e potevano anche essere interpretati altrimenti; ma la curiosità della suora fu risvegliata, e non lasciava mai di tempestare quella che le aveva fatta la confidenza, per vederne, come si dice, l'acqua chiara. Quando però la suora, che aveva ciarlato, divenne complice, si studiò non solo di eludere le inchieste della curiosa, ma di disdirsi e di farle credere che il sospetto era ingiurioso e stolto, e ch'ella stessa si era pienamente disingannata. Ciò non ostante la curiosa ritenne sempre quel sospetto, e non lasciava sfuggire occasione di gettar gli occhi nel quartiere delle educande, e di origliare, per venire a qualche certezza.

Accadde un giorno che la Signora, venuta a parole con costei, la aspreggiò e la trattò con tali termini di villania, che la suora, dimenticata ogni cautela, si lasciò sfuggire dalla chiostra dei denti: ch'ella sapeva qualche cosa, e che a tempo e luogo l'avrebbe detto a chi si doveva. La Signora non ebbe più pace.

Che orrenda consulta! Le tre sciagurate e il loro infernale consigliere deliberarono sul modo d'imporre silenzio alla suora. Il modo fu pensato e proposto da lui con indifferenza, e acconsentito dalle altre con difficoltà, con resistenza, ma alla fine acconsentito. Geltrude fece più resistenza delle altre, protestò più volte che era pronta a tutto soffrire, piuttosto che dar mano ad una tanta scelleratezza, ma finalmente, vinta dalle istanze di Egidio e delle due, e nello[122] stesso tempo dal suo terrore, venne ad una transazione, per la quale ella si sforzò di fingere a sè stessa che sarebbe men rea: pattuì ella dunque che non si sarebbe impacciata di nulla, ed avrebbe lasciato fare.

Presi gli orribili concerti, determinato dalle esortazioni di Egidio al sangue l'animo di quella che fu scelta a versarlo; costei si ravvicinò alla suora condannata, e le parlò di nuovo di quegli antichi sospetti, in modo da crescerle la curiosità. E la curiosità era stimolata in essa dal desiderio di vendicarsi della Signora; ma per farlo con sicurezza aveva essa stessa bisogno di esser sicura. La traditrice, mostrando che non le convenisse di stare più a lungo assente dalla Signora per non darle sospetto, lasciò la suora nel forte della curiosità e nella speranza di scoprire qualche cosa; e come questa insisteva per trattenerla, le propose di venire la notte al quartiere, dove l'avrebbe potuta nascondere nella sua cella, e dirle il di più, e forse renderla testimonio di qualche cosa. La meschina cadde nel laccio. Venuta la notte, ella si trovò nel corridojo, dove la suora omicida le venne incontro chetamente e la condusse nella sua cella: quivi preso il pretesto dei servigj della Signora per partirsi, promettendo che tornerebbe tosto, la fece nascondersi tra il letticciuolo e la mura, raccomandandole di non muoversi finch'ella non la chiamasse. Uscì quindi a render conto del fatto all'altra suora e allo scellerato, che aspettavano in un'altra stanza, e pigliato da Egidio l'orribile coraggio che le abbisognava,[123] entrò nella cella, armata d'uno sgabello, con la sua compagna. Nella cella non v'era lume, ma quello che ardeva nella stanza vicina vi mandava per la porta aperta una dubbia luce. La scellerata, parlando colla compagna, perchè la nascosta non si muovesse, e parlando in modo da farle credere ch'ella cercava di rimandare la sua compagna come importuna, andò prima pianamente verso il luogo dove la infelice stavasi rannicchiata, quindi giuntale presso, le si avventò, e prima che quella potesse nè difendersi, nè gettare un grido, nè quasi avvedersi, con un colpo la lasciò senza vita.

Accorse al remore Egidio, che stava alla bada nella stanza vicina, ed incontrò le colpevoli che fuggivano spaventate, come avrebbero fatto se per caso e a mal loro grado si fossero trovate presenti ad un misfatto. Egidio le fermò, e chiese premurosamente se la cosa era fatta.—Vedete, rispose tremando l'omicida.—Ebbene! coraggio, replicò lo scellerato, ora bisogna fare il resto; e dava tranquillamente gli ordini all'una e all'altra su le cose da farsi per togliere ogni vestigio del delitto. Avvezze, come elle erano, a ubbidire a colui che aveva acquistata una orribile autorità su gli animi loro, a colui che faceva loro sempre paura, e dava loro sempre coraggio; e[124] rianimate e come illuse dall'aria naturale con la quale egli dava quegli ordini, come se si trattasse di una faccenda ordinaria; raccomandando ora la prestezza, ora il silenzio, elle fecero ciò che era loro comandato.—E la Signora, perchè non viene ad aiutarci? disse l'omicida: tocca a lei quanto a noi, e più.—Andate a chiamarla, rispose Egidio. L'omicida, che cercava anche un pretesto per allontanarsi, almeno per qualche momento, da quel luogo e da quell'oggetto che le era insopportabile, si avviò alla stanza di Geltrude. Questa si stava nelle angosce di chi sente l'orrore del delitto, e lo vuole. Sedeva, si alzava, andava ad origliare alla porta; intese il colpo, e fuggì ella pure a rannicchiarsi nell'angolo il più lontano della sua stanza, orribilmente agitata tra il terrore del misfatto e il terrore che non fosse ben consumato. L'omicida entrò, e disse: abbiamo fatto ciò che era inteso: non resta più che di riporre le cose in ordine: venite ad ajutarci.—No, no, per amor del cielo, rispose Geltrude.—Che c'entra il cielo, disse l'omicida.—Lasciami, lasciami, continuò Geltrude.—Come! replicò l'omicida, chi è stata [125]quella...?—Sì, è vero, rispose Geltrude; ma tu sai ch'io sono una povera sciocca nelle faccende; non son buona da nulla; lasciami stare per amor... Gli atti e il volto di Geltrude riflettevano in un modo così orribile l'orrore del fatto, che l'omicida non potè sopportare la sua presenza, e tornò in fretta presso a colui l'aspetto del quale pareva dire: non è nulla.—Non vuol venire, diss'ella, con un moto convulso delle labbra, che avrebbe voluto essere un sorriso di scherno: non vuol venire; è una dappoca.—Non importa, disse Egidio, non farebbe altro che impacciare: ecco, tutto è finito senza di lei.—Resta ancora.... volle cominciare l'omicida, ma non potè continuare.—Ebbene, disse Egidio, questa è mia cura: datemi tosto mano, e poi lasciate fare a me. Le donne obbedirono: Egidio, carico del terribile peso, ascese per una scaletta al solajo; e l'omicidio uscì per la porta che era stata aperta al sacrilegio. Quando lo scellerato fu nelle sue case, cioè in quella parte disabitata che toccava il monastero, discese per bugigattoli e per andirivieni, dei quali egli era pratico, ad una cantina abbandonata, o che non aveva forse mai servito; quivi in una buca, scavata da lui il giorno antecedente, depose il testimonio del delitto; lo ricoperse, e pigliati da un mucchio, che ivi era, cocci, mattoni e rottami, ve li gettò sopra per ricoprirlo, proponendosi di trasportare poco[126] a poco su quel sito tutto il mucchio, un monte se avesse potuto. Le due donne, rimaste sole, esaminarono in silenzio, se tutto era nello stato di prima; e poi... che avevano a dirsi? L'omicida ruppe il silenzio, dicendo: andiamo a cercare la Signora; l'altra le tenne dietro senza rispondere.

Bussarono premurosamente alla porta di Geltrude, la quale vi stava in agguato, e disse macchinalmente: chi è?—Chi potrebb'essere? rispose l'omicida: siam noi, apri e vieni, e vedrai che le cose sono tutte come jeri. Geltrude aprì, e venne con loro nella più orrenda stanza di quell'orrendo quartiere: volse in giro, entrando, un'occhiata sospettosa, e disse: che faremo qui?—Quel che faremo altrove, rispose l'omicida.—Perchè non andiamo nella mia stanza? replicò Geltrude.—È vero, disse quella che non aveva mai parlato; è vero; andiamo nella stanza della Signora. Ognuna delle tre sciagurate sentiva nella sua agitazione come il bisogno di far qualche cosa, di appigliarsi ad un partito che avesse qualche cosa di opportuno; e nessuna sapeva pensare quello che fosse da farsi: quando una faceva una proposta, le altre vi si arrendevano come ad una risoluzione. Geltrude si avvio, le altre le tennero dietro, e tutte e tre sedettero nella stanza di Geltrude.

—Accendete un altro lume, disse questa.

—No, no, rispose questa volta l'omicida: ve n'è anche troppo: abbiamo ristoppate le finestre, è vero, [127]ma se qualche educanda vegliasse...

—Santissima...! proruppe, con un moto involontario di spavento, Geltrude, e non terminò l'esclamazione, spaventata in un altro modo del nome puro e soave che stava per uscirle dalle labbra.

—E perchè, dunque, continuò, rimessa alquanto, perchè avete lasciato il lume nell'altra stanza?

—Perchè... rispose l'omicida, non si ha testa da far tutto.

—Andate a prenderlo.

—Andate, andate... andiamo assieme.

Le due serventi partirono, Geltrude le seguì fino alla porta, aspettando che tornassero col lume. Lo deposero sur una tavola, lo spensero, e sedettero di nuovo intorno a quello che ardeva da prima. Stavano così tacite, guardandosi furtivamente di tratto in tratto; quando gli sguardi si incontravano, ognuna abbassava gli occhi, come se temesse un giudice e avesse ribrezzo d'un colpevole. Ma l'omicida, più agitata, e agitata in un modo diverso dalle altre, cercava ad ogni momento di cominciare un discorso, voleva parlare del fatto e del da farsi come di cosa comune, parlava sempre in plurale come per tenere afferrate le compagne nella colpa, per essere nulla più che una loro pari. Concertarono finalmente la condotta da tenersi quel primo giorno, perchè nei concerti presi antecedentemente non avevano preveduti che i pericoli materiali: non avevano pensato che al modo di commettere il delitto segretamente e di cancellarne ogni traccia[128] esterna: ma il delitto aveva loro appresa un'altra cosa; che il sangue si sarebbe rivelato nei loro atti, nel loro contegno, nel loro volto. Stabilirono dunque che Geltrude si direbbe indisposta, che avrebbe un forte dolor di capo, che starebbe chiusa all'oscuro nella sua stanza, e le altre rimarrebbero ad assisterla. Ma in questo concerto stesso, quante difficoltà, quanti dibattimenti! Il punto più terribile, era di decidere a quale delle due serventi sarebbe toccato di avvertire le suore della indisposizione di Geltrude, per evitare che, non vedendola comparire, o la badessa, o qualche suora non venisse nel quartiere a chiederne novella. Ognuna voleva rigettare su l'altra questo incarico. L'omicida aveva una buona ragione per esimersi; ma questa ragione, poteva ella parlarne! Dire, io sarò più confusa, più tremante, perchè.... Cercava ella dunque pretesti come l'altra, ma li sosteneva con più furore. Geltrude indovinò, anzi sentì quella ragione, e persuase l'altra ad assumersi l'incarico, dicendole che sarebbe stato facile e spedito annunziare la sua indisposizione dalla finestra ad una delle suore che governavano le educande, pregando nello stesso tempo che non si facesse romore per non disturbarla.

Egidio intanto eseguiva gli altri concerti che erano stati presi, o per dir meglio ch'egli aveva proposti; giacchè il disegno era tutto suo. Occultata la vittima, egli uscì di notte fitta, accompagnato da alcuni suoi scherani, come soleva non di rado per qualche[129] spedizione. Gli dispose in un luogo distante da quello a cui aveva designato di portarsi, e gli lasciò come a guardia, lasciando loro credere che andasse ad una delle sue solite avventure. Quindi per lunghi circuiti si condusse ad un campo disabitato, col quale confinava l'orto del monastero, e ne era diviso dal muro. Ivi, dopo d'aver ben guardato intorno se nessuno vi fosse, si trasse di sotto al mantello gli stromenti da smurare, che aveva portati nascosti con le armi, e pian piano, in una parte del muro già intaccata dal tempo, e ch'egli aveva fissata di giorno, aperse un pertugio, tanto che una persona potesse passarvi. Riprese i suoi ferri, si ravvolse nel mantello, e camminando non senza terrore, minacciato com'era da più d'un nemico, raggiunse i suoi scherani; si mostrò ad essi lieto, s'avviò con essi, gittò per via qualche motto misterioso di altre avventure, e tornò alla sua casa.

Il mattino vegnente una suora mancò, si corse alla sua cella; non v'era; le monache si sparpagliarono a cercarla: ed una, che andava per frugare nell'orto, vide da lontano... possibile? un pertugio nel muro, chiamò le compagne a tutta voce, si corse al pertugio; è fuggita; è fuggita. La badessa venne al romore: lo spavento fu grande, la cosa non poteva nascondersi, la badessa ordinò tosto che il pertugio fosse guardato dall'ortolano, che si mandasse per muratori onde chiuderlo, e che si spedisse gente per raggiungere la sfuggita. Il lettore sa che pur troppo[130] ogni ricerca doveva riuscire inutile. L'occupazione che questo affare diede a tutte le monache fece che le tre che erano la trista cagione di tutto fossero lasciate in pace, o per meglio dire, sole.

È facile supporre che da quel giorno in poi il carattere di Geltrude (giacchè di essa sola esige la nostra storia che ci occupiamo) fu sempre più stravolto. Combattuta continuamente tra il rimorso e la perversità, tra il terrore d'essere scoverta, e un certo bisogno di lasciare uno sfogo alle sue tante passioni, e tutte tumultuose, dominata più che mai da colui che ella risguardava come l'origine dei suoi più gravi, più veri e più terribili mali, e nello stesso tempo come il suo solo soccorso, l'infelice era nel suo interno ben più conturbata e confusa che non apparisse nel suo discorso, per quanto poco ordinato egli fosse. Una immagine la assediava perpetuamente, e non è mestieri dire quale. Tentava ella di rappresentarsi alla fantasia la sventurata suora, quale l'aveva veduta infocata di collera e con la minaccia sul labbro quell'ultimo giorno. Ma l'immagine s'impallidiva sempre nella sua mente, invano ella cercava di raffigurarla con la testa alta, con l'occhio acceso, con una mano sul fianco; la vedeva indebolirsi, non poter reggere, abbandonarsi, cadere; se la sentiva pesare addosso. Per togliere ogni sospetto, e nello stesso tempo per dare un altro corso alle sue idee, procurava ella di toccar materie liete o indifferenti di discorso; ma ora il rimorso, ora la collera contra tutti[131] quelli che le erano stata occasione di cadere in tanto profondo, ora una, ora un'altra memoria si gettavano a traverso alle sue idee, le scompaginavano, e lasciavano nelle sue parole un indizio del disordine che regnava nella sua mente.

E quella regola nei discorsi, quel contegno nei modi, ch'ella non poteva avere naturalmente, e per ispirazione della pace dell'animo, non aveva i mezzi per trovarlo nella esperienza e per comandarselo. La sua esperienza non era altro che del chiostro, di quel poco che aveva veduto nel tempo burrascoso passato nella casa paterna, e di ciò che aveva imparato dall'infame suo maestro; le sue idee erano un guazzabuglio composto di questi elementi, ed ella non aveva potuto attingere d'altronde cognizioni per fare almeno una scelta in questi elementi. Le sue parole e il suo contegno sarebbero state uno scandalo insopportabile in un secolo meno bestiale di quello; ma allora la stranezza universale non lasciava spiccare la sua al punto da farne un oggetto di maraviglia singolare.

Due anni erano già trascorsi da quel giorno funesto, tempo in cui la nostra Lucia le fu raccomandata dal Padre cappuccino, il quale, come pure ogni altro del monastero, e di fuori, conosceva bene la Signora per un cervellino, ma era lontano dal sospettare quale in tutto ella fosse.

Siamo stati più volte in dubbio se non convenisse stralciare dalla nostra storia queste turpi ed atroci avventure, ma esaminando l'impressione che ce ne[132] era rimasta leggendola dal manoscritto, abbiamo trovato che era un'impressione d'orrore; e ci è sembrato che la cognizione del male, quando ne produce l'orrore, sia non solo innocua, ma utile.

Abbiamo lasciata, se il lettore se ne ricorda, Lucia sola nel parlatorio con la Signora. Il dialogo fra quelle due così dissimili creature continuò a questo modo:

—Ora, disse la Signora, parlate con libertà. Qui non c'è nè madre, nè padre; e ditemi il vero, perchè le bugie, che mi potreste dire, le ravviserei tosto come una antica conoscenza: non temete di nulla: qualunque sia il vostro caso, io vi proteggerò, purchè siate sincera con me.

Lucia pose la piccola sua destra sul cuore, e con quell'accento che toglie ogni dubbio, rispose: Signora, la verità è quello che ha detto mia madre, e che ha scritto il Padre Cristoforo; io non ho mai giurato finora, ma se ella, reverenda signora, vuole ch'io giuri, in questa occasione, io son pronta a farlo.

—Non di più, che vi credo, rispose la Signora. Ma contatemi dunque tutta questa storia. E qui cominciò ad affogare Lucia d'inchieste, volendo sapere tutti i particolari della persecuzione di Don Rodrigo e delle relazioni di Lucia con Fermo.

Questa curiosità era, come ognuno può figurarselo, assai molesta alla povera Lucia. All'istinto del pudore rei alla ripugnanza naturale di parlare di sè stessa su questa materia, si aggiungeva il timore anche di dire qualche cosa di sconvenevole in presenza[133] della reverenda madre. Lucia, che aveva parlato con un uomo, e che gli aveva dato promessa di sposarlo, che aveva tentato un matrimonio clandestino, si riguardava come una donna esperta, e più forse che non conveniva, nelle cose del mondo, come una scaltritaccia al paragone di una monaca, velata, rinchiusa, separata dal consorzio degli uomini, e pigliava le inchieste della Signora a un dipresso come si fa a quelle talvolta indiscretissime dei ragazzi, dalle quali uno si sbriga alla meglio, cercando di non rispondere direttamente e di mandare in pace l'interrogante.

E quanto le domande erano più avanzate, Lucia le attribuiva ancor più ad una pura e santa ignoranza. Rispose dunque sopra Fermo, che quel giovane l'aveva chiesta a sua madre e che essendo a lei dalla madre proposto il partito, ella lo aveva accettato volentieri, e che tanto bastava per conchiudere un matrimonio. Ma per ciò che riguardava Don Rodrigo, per quanto Lucia ponesse cura a schermirsi, le fu pur forza entrar in qualche particolare per ispiegare alla Signora la persecuzione ch'ella aveva sofferta, e contro la quale cercava un ricovero.

—Egli pativa dunque davvero per voi, domandò la Signora.

—Io non so di patire, rispose Lucia; so bene che avrebbe fatto meglio per l'anima e per il corpo a lasciarmi attendere ai fatti miei, senza curarsi d'una tapinella che non si curava niente di lui.

[134]

—Poveretto! sclamò la Signora, con una certa aria di compassione, nella quale pareva tralucesse quasi un rimprovero a Lucia.

—Poveretto? riprese questa, poveretto? Oh Madonna del Carmine! Ella lo compatisce, illustrissima!

—Sì, poveretto, rispose la Signora. Convien dire che voi non abbiate mai avuto chi vi volesse male, giacchè sentite tanto orrore per chi vi ha voluto bene. Birbone, cattivo, tiranno! Che parolone, figliuola, per una quietina, come parete; e la carità del prossimo?... Se gli aveste provati i tiranni davvero...! Vorrei un po' che mi ripeteste le ingiurie che vi diceva, per vedere quanta ragione avete di chiamarlo con questi nomi.

—Le ingiurie dei signori, rispose Lucia con quella sicurezza che non manca mai a chi comincia un discorso con una persuasione viva ed intima, le ingiurie dei signori, sono tremende pei poverelli: ma se gli era pur destino che quel signore dovesse aver qualche cosa a dirmi, sa il cielo, che io sarei ben contenta che m'avesse detto ogni sorta d'ingiurie, piuttosto che quello che mi è toccato sentire da lui. Io non avrei risposto, le avrei sofferte, è il destino di noi poverelli, e quando egli si fosse stato stanco, l'avrebbe finita; ed ora io non sarei qui lontana dalla mia patria, come una sbandata, a domandare un ricovero per amor di Dio, sarei... pensi, Signora, s'io posso dir bene di lui. Non ch'io gli desideri del male, no, grazie a Dio, ma quanto al bene ch'egli mi poteva[135] volere... Santissima Vergine, che razza di bene! Io non vorrei dir cose da non dirsi in sua presenza, signora madre, e so ben io quel che dico; ella sa molto di cose alte, di quelle che si trovano sui libri, ma le cose del mondo non è obbligata a conoscerle, e certe cose che potrei contare sarà meglio tacerle.

—Vi ho detto di parlare con sincerità: dite pur tutto; rispose la Signora ridendo, e senza quell'imbarazzo che le aveva cagionata una proposizione somigliante nella bocca del Padre Guardiano.

—Spero dunque di poter parlare con prudenza, riprese Lucia, ma di poterle far toccare con mano che cosa poteva essere il bene di quel signore. Sappia che io non sono stata la prima a cui per mala sorte egli abbia badato. Eh...! le cose si sanno, purtroppo: e d'una poveretta in particolare, io non ho potuto a meno di non saperlo, perchè eravamo amiche, e me ne piange il cuore tuttavia. Questa poveretta, non la nomino—diede retta al bene di quel signore; e sa ella che ne avvenne? Cominciò a disubbidire ai suoi parenti; quando fu ammonita si rivoltò, la casa le venne in odio, non ebbe più amiche, disprezzava tutti, e diceva: puh villani! come avrebbe potuto fare una gran dama. Quando i parenti s'avvidero di qualche cosa, sulle prime negò, e poi, rispose in modo da farli tacere per paura. Comparve con un vestito troppo bello per una ricca sposa, e credeva la poveretta che tutti avrebbero fatte le maraviglie e l'avrebbero inchinata, e tutti la sfuggivano: i ragazzi[136] le facevano dietro mille visacci. Un fior di giovane, mi compatisca se parlo male, che voleva ricercarla in matrimonio, non la guardò più; nessuno le parlava, nessuno voglio dire della gente come si deve, perchè i cattivi se l'avvicinavano per la via con una famigliarità come se le fossero sempre stati amici, e fino, a parlare con poca riverenza, i birri, la salutavano ridendo e le gittavano parole da non dire. Poveretta! di tratto in tratto pareva più lieta che non fosse mai stata, ma le lagrime che spargeva in segreto! e quante volte la vedevamo da lontano piangente, e si nascondeva da noi; e io mi ricordava di quando ell'era allegra come un pesce, di quando ridevamo insieme alla filanda. Basta: la disgraziata non potè più vivere nel suo paese e un bel mattino fece un fagottello e finì a girare il mondo.

—Girare! interruppe la Signora, non è poi la peggior disgrazia.

—E tutto questo, continuò Lucia, senza parlare dal tetto in su; perchè all'altro mondo Dio sa come andranno le cose. Ma povera la mia Bettina! oh poveretta me, ho detto il nome... spero che Dio le farà misericordia; perchè poi finalmente è stata tradita. Ma per me, dico davvero, che se per andare in paradiso bisognasse fare la vita di quella povera figlia, la mi parrebbe ancora molto dura.

—Ma quel signore, riprese la monaca, era egli di stucco? non la sapeva far rispettare? lasciava la briglia sul collo a quei tangheri?

[137]

—Fortunata lei, rispose Lucia, che non sa come vanno queste cose. Il signore, dopo qualche tempo, non si curò più di quella meschina; e si venne a sapere che un giorno ch'ella si lagnava con lui d'essere disprezzata, egli le rispose: si provino un po' a farvi qualche sgarbo in mia presenza, e vedranno. Tutto quello che la poverina doveva patire fuori della sua presenza, non era niente. Ma tutto questo non bastava a disingannarla; soffriva, ma non sapeva staccarsi da colui. Finalmente bisognò che fossi tormentata io, per farle conoscere il suo stato. Quando costui... sfacciato!... cominciò a pormi gli occhi addosso, allora...

—È un vile birbante, interruppe la Signora, avete ragione: avete fatto bene a voltargli le spalle, e io vi proteggerò.

—Dio gliene renda merito. Lo diceva ben io che se avesse saputo...

—Sì sì, è un birbante; son tutti così costoro. Date loro retta, sul principio: voi, voi sola siete la loro vita: che cosa sono le altre? nulla; voi siete la sola donna di questo mondo, e poi... Fortunata voi che potete sbrigarvene. Vi avrebbe voluta vedere amica di Bettina... amica! e sprezzarvi tutte e due, e vi so dire io come vi avrebbe trattate peggio che da serve. Se aveste fatto il primo passo...

Lucia teneva gli occhi sbarrati addosso alla Signora, come stupefatta ch'ella ne sapesse tanto addentro. Geltrude s'avvide che questo suo modo di disapprovare[138] il seduttore non era più conveniente alla sua condizione di quello che fosse stato quel primo compatimento, e che invece di togliere il sospetto, o almeno lo stupore che quello poteva aver fatto nascere, lo avrebbe accresciuto, e si ripigliò dicendo:

—Del resto, son cose che io non posso conoscere; ma già l'avrete inteso anche dai predicatori che quelli che seducono le povere figliuole sono i primi a sprezzarle. E se da principio, io ho mostrato qualche dispiacere per colui, è perchè non vi eravate bene espressa; io credeva che alla fine egli avesse intenzione di sposarvi.

—Sposarmi! sposarlo! sclamò Lucia, maravigliata di questo pensiero, che supponeva l'accordo di due volontà, una delle quali ella sentiva, e dell'altra sapeva che ne erano le mille miglia lontane. Geltrude credette che Lucia non alludesse ad altro ostacolo che alla differenza delle condizioni. E perchè no? rispose, e abbandonandosi alla intemperanza della sua fantasia continuò: Perchè no, sposarvi? Se ne vede tante a questo mondo. Sareste la signora Donna Lucia: che maraviglia! non sareste la donna più stranamente nominata di questo mondo. Avete sentito come mi chiamava quel buon uomo colla barba bianca, che vi ha condotta qui? Reverenda madre. Io, vedete, sono la sua reverenda madre. Bel bambino davvero ch'io ho. E a questa idea si pose a ridere sgangheratamente; ma tosto aggrondatasi e [139]levatasi a passeggiare nel parlatorio, madre!... continuò... avrei dovuto sentirmelo dire; non da un vecchio calvo e barbato:.........

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