Coro dell'atto III.

V'è segnata, in principio, la data «15 gennaio 1822»: in fine, «19 gennaio 1822». - Le varianti son notate, di solito, sopra o sotto del verso stesso.

Dagli atrj muscosi, dai Fori cadenti,

Dai boschi, dall'arse fucine stridenti,

Dai solchi bagnati di servo sudor,

Un popol disperso repente si desta,

Intende l'orecchio, solleva la testa

Percosso da novo crescente romor.

Dai guardi dubbiosi, dai pavidi volti,

Qual raggio di sole da nuvoli folti,

Traluce dei padri la fiera virtù:

Nei guardi, nei volti, confuso ed incerto,

Si mesce e discorda lo spregio sofferto

Col livido orgoglio del regno che fu.

È il volgogravato dal nome latino,

Che un'empia vittoria sul suolo tien chino

Che gli empj trionfi degli avi portò;

È il volgo che inerte, qual gregge predato,

Dall'Erulo avaro nel Goto spietato,

Nel Winilo errante dal Greco passò.

S'aduna voglioso, si sperde tremante;

Per torti sentieri, con passo vagante,

Fra tema e desire, s'avanza e ristà.

[144]

E guata e rimira, scorata e confusa,

Dei crudi signori la turba diffusa,

Che fugge dai brandi, che sosta non ha.

I fieri leoni, perduto il ruggito,

Col guardo inquieto, del daino inseguito

Le note latebre del covo cercar;

E intanto, deposta l'usata minaccia,

Le donne superbe, con pallida faccia,

I figli pensosi pensose guatar.

E sopra i fuggenti, con avido brando,

Quai cani disciolti, correndo, frugando,

Da destra, da manca, guerrieri venir.

Li vede, e rapito d'ignoto contento,

Con l'agile speme precorre l'evento,

E sogna la fine del duro servir.

Udite! Quei forti che tengono il campo,

Che ai vostri tiranni precludon lo scampo,

Son giunti da lunge, per aspri sentier;

Troncaron le gioje dei prandj festosi,

Assursero in fretta dai dolci riposi,

Chiamati repente da squillo guerrier.

Lasciàr nelle sale del tetto natio

Le donne accorate, tornanti all'addio,

A preghi e consigli che il pianto troncò:

Han carche le fronti dei gravi cimieri,

Han poste le selle sui bruni corsieri,

Volaron sul ponte che cupo sonò.

A truppe, di terra passarono in terra,

Cantando giulive canzoni di guerra,

Ma i dolci castelli pensando nel cor:

Per valli petrose, per balzi dirotti,

Vegliaron nell'arme le gelide notti,

Membrando i fidati colloquj d'amor.

[145]

Per greppi senz'orma le corse affannose,

Gli oscuri perigli di stanze incresciose,

Il rigido impero, le fami duràr;

Si vider le lance calate sui petti,

Udiron per l'aure, rasente gli elmetti,

Le frecce pennute fischiando volar.

E il premio agli stenti sperato dai forti,

Sarebbe, o delusi, rivolger le sorti,

Por fine ai lamenti d'un volgo stranier?

Se il petto dei forti pungeva tal cura,

Di tanto periglio, di tanta pressura,

Di tanto cammino non era mestier.

Son donni pur essi di lurida plebe,

Spogliata dell'armi, curvata alle glebe,

Densata nei chiusi di vinte città;

A frangere il giogo che i miseri aggrava,

Un motto dal labbro di questi bastava,

Che detto non hanno, che mai non s'udrà.

Tornate alle vostre superbe ruine,

All'opera imbelle dell'arse officine,

Ai solchi bagnati di servo sudor;

Stringetevi cheti l'oppresso all'oppresso,

Di vostre speranze parlate sommesso,

Dormite fra i sogni giocondi d'error.

Domani al destarvi, tornando infelici,

Saprete che il forte sui vinti nemici

I colpi sospese, che un patto fermò:

Che regnano insieme, che parton le prede,

Si stringon le destre, si danno la fede,

Che il donno, che il servo, che il nome restò.

[146]

Nella copia preparata per la stampa, e vista dalla Censura, appaiono cancellati alcuni versi, che si leggevano pur nella seconda, che mancano tuttora nello stampato. Essi sono i seguenti:

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