SCENA II.

SFORZA, FORTEBRACCIO, e DETTI.

MALATESTI.

Ditelo, o Sforza,

E Fortebraccio; voi giungete in tempo:

Ditelo voi, come trovaste il campo?

Che possiamo sperarne?

SFORZA.

Ogni gran cosa.

Quando gli ordini udîr, quando lor parve

Che una battaglia si prepari, io vidi

Un feroce tripudio: alla chiamata

Esultando venièno, e col sorriso

Si fean cenno a vicenda. E quando io corsi

Entro le file, ad ogni schiera un grido

S'alzava; ognuno in me fissando il guardo

Parea dicesse: o condottier, v'intendo.

FORTEBRACCIO.

E tai son tutti: allor ch'io venni a' miei,

Tutti mi furo intorno. Un mi dicea:

Quando udremo le trombe? Altri: noi siamo

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Stanchi d'esser beffati; e tutti ad una

La battaglia chiedean, come già certi

Dell'ottenerla, e dubbi sol del quando.

Ebben, compagni, io rispondea, se il segno

Presto s'udrà, mi date voi parola

Di vincere con me? Gli elmi levati

Sull'aste, un grido universal d'assenso

Fu la risposta, ond'io gioisco ancora.

E a tai soldati ci venia proposto

D'intimar la ritratta? e che alle mani,

Che già posate sulle spade aspettano

L'ordin di sguainarle e di ferire,

Si comandasse di levar le tende?

Chi fronte avria di presentarsi ad essi

Con tal ordine ormai?

PERGOLA.

Dal parlar vostro

Un novo modo di milizia imparo;

Che i soldati comandino, e che i duci

Ubbidiscano.

FORTEBRACCIO.

O Pergola, i soldati

A cui capo son io, far da quel Braccio

Disciplinati, che per tutto ancora

Con maraviglia e con terror si noma;

E non son usi a sostener gli scherni

Dell'inimico.

PERGOLA.

Ed io conduco genti

Da me, qual ch'io mi sia, disciplinate;

E sono avvezze ad aspettar la voce

Del condottiero, ed a fidarsi in lui.

[198]

MALATESTI.

Dimentichiamo or noi che numerati

Sono i momenti, e non ne resta alcuno

Per le gare private?

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