SCENA I.

Sala del Senato.

STEFANO, MARINO [Senatori].

STEFANO.

Io, Marino, per me non credo mai

Esser venuto tanto inutilmente

In Senato, quant'oggi: e son ben fermo

D'udir tacendo; chè ogni mia parola

In questo affar saria parola al vento.

MARINO.

Dunque credete risoluta affatto

La guerra?

STEFANO.

Oh risoluta, e così certa

Qual se intimata io la vedessi e rotta.

Dubbio ancor forse ci rimane? Il Doge

Quanto se l'abbia a cor, voi lo sapete.

D'altro ei non parla: e gli parria l'estremo

Giorno della Repubblica esser giunto,

Se fosse vinto ch'ella resti in pace.

Gran parte del Senato egli e l'ardente

Orator di Firenze in questo avviso

Avean già tratto. E quando io 'l vidi in prima

Porre a tutti l'assedio, instar, pregare,

[266]

E d'ognuno indagar l'animo: a questo,

Gli ampj disegni riandar del Duca,

E che il dì che Firenze alfin cadesse

Tremerìan di Venezia i fondamenti:

Dipinger lieve la vittoria a quello,

Anzi certa: a quest'altro, dello Stato

Allargati i confini; ognuno, insomma,

Da quel lato tentar donde più aperta

Al suäder fosse la via; ben vidi

Che i più ne avrebbe persuasi, e a voi,

Se vi ricorda, io lo predissi.

MARINO.

È il vero.

STEFANO.

Se ciò non basta, non vi par che brami

La guerra il Duca di Milano, anch'egli,

Mentre manda Oratori a chieder pace?

Che ambasceria! la petulanza al senno

Quasi per gioco unita. E che buon frutto

I savii detti di Giovan d'Arezzo

Han prodotto fin qui, che tosto in nulla

Del Lampugnano non mandasse il modo?

Tal noncuranza nel pregar, che male

Starebbe a quei che la preghiera ascolta;

E un vagar curioso e da contento

Viaggiator, qual se ai palagi e ai tempj

Fosse inviato: un orator davvero

A nozze o ad un torneo. Se il Duca vuole

Davver la pace, non potea costui

Meglio tradire il suo signor. Non parlo,

M'intendete, per ben ch'io voglia al Duca

(Foss'egli in fondo!): ben mi duol che tutto

Ei spinga a inutil guerra, anzi (bugiardi

Faccia, io nel prego, i miei presagj il Cielo!)

Dannosa al certo. Eppure, io vedo ancora

Che il più sano consiglio avria potuto

Vincere alfine, se non era il Conte

[267]

Di Carmagnola. Egli, dal Duca offeso,

Sul cui labbro sospetta ogni parola

Esser dovea, chè il suo dolor la forma

Non l'util nostro; egli è colui che ha vinti

Col suo dir violento anche i più saggi;

Egli è che a poco men che a tutti infuse

Quella febbre di guerra, ond'egli è invaso

Al par di lui che un dì la mosse in cielo.

MARINO.

Quanto ad orgoglio non gli cede al certo!

Ma a tal siam noi, che deggia e l'oro e il sangue

Profonder la Repubblica, lo Stato

Anco arrischiar, per vendicar gli affronti

D'un Francesco Busson da Carmagnola?

STEFANO.

Ella è così.

MARINO.

D'uno stranier? d'un figlio

Di vil guardiano del più vile armento?

D'uno che tutti quanti siamo (amara

A proferirsi ell'è questa parola;

Pur la dirò, ch'ella è conforme al vero)

Tutti ci sprezza; e se il vedemmo a molti

Inchinarsi finor, piaggiarne alcuni,

Già celar non potea con che fatica

La sua superbia ai fini suoi piegasse.

Ma poi ch'egli ebbe a questo modo i molti

Tirati dalla sua, svelatamente

Gli altri costui (così foss'egli in fondo!)

Guardò coll'occhio con che l'uom passando

Guarda l'arnese ond'ei non ha bisogno.

Occhio imprudente! Oh! non fa patti eterni

Con alcun la fortuna; e non dispero

[268]

Vederti un dì verso la polve inchino,

Ed il sorriso mendicar sui volti

A cui più imperturbabile e più fosco

Ora ti volgi!

STEFANO.

Non mi par sì presso

Questo momento.

MARINO.

E che, Stefano? Un uomo,

Fatto nimico al suo Signore, al suo

Benefattor, potrà trovar chi a lungo

A lui si fidi? Che stupor se il Duca

Cacciò da sè quest'odioso alfine,

Che sol prezza la guerra, e fra le guerre

Quelle sole ch'ei fe'; che ogni vittoria

Rinfacciata gli avrà? Men duro assai

Vedersi tôrre una città di mano,

Che doverla a costui. Chi degnamente

Può pagare i suoi merti? A udirlo, il Duca

È il più ingrato degli uomini; che mai

Far quel prence dovea? scender dal trono,

E locarvi costui? Soffrirem noi

Che il simile ne avvenga? E voi volete

In così grave occasion tacervi?

STEFANO.

O Marino, un naviglio al quale il vento

Gonfia ogni vela e a tutto corso il porta,

Volete voi ch'io con la mano il fermi?

Non quel che si vorrebbe è da tentarsi,

Ma quel che ottener puossi. Al par di voi,

E d'altri pochi, per la pace io sono;

Ma i più voglion la guerra. Il Conte io l'amo

Al par di voi; sulla sua fè riposo

Al par di voi; ma che possiam noi dire?

È un traditore, e traditor chiarirlo?

Ricantate i sospetti, e cento voci

[269]

Vi chiederanno prove. Egli ed il tempo

Ce le daranno, e certe, ove sappiamo

Aspettarle e vegliare. Questo è il suo giorno:

Lasciatelo passar; non glielo fate

Più splendido. Gli amici, ond'ora è cinto,

Ad uno ad un se li farà nemici;

Tale è la sua natura; allor potrete

Farvi ascoltar.

MARINO.

Tacete: apparir veggio

Un Senatore; è Marco.

STEFANO.

Omai dovrieno

Tutti esser giunti; chè mi par d'assai

Trascorsa l'ora del Senato.

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