In morte di Carlo Imbonati.

VERSI

A GIULIA BECCARIA

SUA MADRE.

Ch'ambo i vestigi tuoi cerchiata piangendo.

Casa.

Se mai più che d'Euterpe il furor santo,

E d'Erato il sospiro, o dolce madre,

L'amaro ghigno di Talia mi piacque,

Non è consiglio di maligno petto.

Nè del mio secol sozzo io già vorrei

Rimescolar la fetida belletta,

Se un raggio in terra di virtù vedessi,

Cui sacrar la mia rima. A te sovente

Così diss'io: ma poi che sospirando,

Come si fa di cosa amata e tolta,

Narrar t'udia di che virtù fu tempio

Il casto petto di colui che piangi;

Sarà, dicea, che di tal merto pera

Ogni memoria? E da cotanto esemplo

Nullo conforto il giusto tragga, e nulla

Vergogna il tristo? Era la notte; e questo

Pensiero i sensi m'avea presi; quando,

Le ciglia aprendo, mi parea vederlo

[513]

Dentro limpida luce a me venire,

A tacit'orma. Qual mentita in tela,

Per far con gli occhi a l'egra mente inganno,

Quasi a culto, la miri, era la faccia.

Come d'infermo, cui feroce e lungo

Malor discarna, se dal sonno è vinto,

Che sotto i solchi del dolor, nel volto

Mostra la calma, era l'aspetto. Aperta

La fronte, e quale anco gl'ignoti affida:

Ma ricetto parea d'alti pensieri.

Sereno il ciglio e mite, ed al sorriso

Non difficile il labbro. A me dappresso

Poi ch'e' fu fatto, placido del letto

Su la sponda si pose. Io d'abbracciarlo,

Di favellare ardea; ma irrigidita

Da timor da stupor da reverenza

Stette la lingua; e mi tremò la palma,

Che a l'amplesso correva. Ei dolcemente

Incominciò: Quella virtù, che crea

Di due boni l'amor, che sian tra loro

Conosciuti di cor, se non di volto,

A vederti mi tragge. E sai se, quando

Il mio cor ne le membra ancor battea,

Di te fu pieno; e quanta parte avesti

De gli estremi suoi moti. Or poi che dato

Non m'è, com'io bramava, a passo a passo

Per man guidarti su la via scoscesa,

Che anelando ho fornita, e tu cominci,

Volli almeno una volta confortarti

Di mia presenza. Io, con sommessa voce,

Com'uom, che parla al suo maggiore, e pensa

Ciò che dir debba, e pur dubbiando dice,

Risposi: Allor ch'io l'amorose e vere

Note leggea, che a me dettasti prime,

E novissime furo; e la dolcezza

De l'esser teco presentia, chi detto

M'avria che tolto m'eri! E quando in caldo

Scritto gli affetti del mio cor t'apersi,

[514]

Che non saria da gli occhi tuoi veduto,

Chiusi per sempre! Or quanto, e come acerbo

Di te nutrissi desiderio, il pensa.

E come il pellegrin, che d'amor preso

Di non vista città, ver quella move;

E quando spera che la meta il paghi

Del cammin duro e lungo, e fiso osserva

Se le torri bramate apparir veggia;

E mira più da presso i fondamenti

Per crollo di tremuoto in su rivolti,

E le porte abbattute, e fori e case

Tutto in ruina inospital converso;

E i meschini rimasti interrogando,

Con pianto ascolta raccontar de i pregi

E disegnar de i siti; a questo modo

Io sentia le tue lodi; e qual tu fosti

Di retto acuto senno, d'incolpato

Costume, e d'alte voglie, ugual, sincero,

Non vantator di probità, ma probo:

Com'oggi al mondo al par di te nessuno

Gusti il sapor del beneficio, e senta

Dolor de l'altrui danno. Egli ascoltava

Con volto nè superbo nè modesto.

Io rincorato proseguia: Se cura,

Se pensier di quaggiù vince l'avello,

Certo so ben che il duol t'aggiunge e il pianto

Di lei che amasti ed ami ancor, che tutto,

Te perdendo, ha perduto. E se possanza

Di pietoso desio t'avrà condotto

Fra i tuoi cari un istante, avrai veduto

Grondar la stilla del dolor sul primo

Bacio materno. Io favellava ancora,

Quand'ei l'umido ciglio, e le man giunte

Alzando in ver lo loco onde a me venne,

Mestamente sorrise, e: Se non fosse

Ch'io t'amo tanto, io pregherei che ratto

Quell'anima gentil fuor de le membra

Prendesse il voi, per chiuder l'ali in grembo

[515]

Di Quei, ch'eterna ciò che a Lui somiglia.

Che fin ch'io non la veggo, e ch'io son certo

Di mai più non lasciarla, esser felice

Pienamente non posso. A questi accenti

Chinammo il volto, e taciti ristemmo:

Ma per gli occhi d'entrambi il cor parlava.

Poi che il pianto e i singulti a le parole

Dieder la via, ripresi: A le sue piaghe

Sarà dittamo e latte il raccontarle

Che del tuo dolce aspetto io fui beato,

E ridirle i tuoi detti. Ora, per lei

Ten prego, dammi che d'un dubbio fero

Toglierla io possa. Allor che de la vita

Fosti al fin presso, o spasimo, o difetto

Di possanza vital feceti a gli occhi

Il dardo balenar che ti percosse?

O par ti giunse impreveduto e mite?

Come da sonno, rispondea, si solve

Uom, che nè brama nè timor governa,

Dolcemente così dal mortal carco

Mi sentii sviluppato; e volto indietro,

Per cercar lei, che al fianco mio si stava,

Più non la vidi. E s'anco avessi innanzi

Saputo il mio morir, per lei soltanto

Avrei pianto, e per te: se ciò non era,

Che dolermi dovea? Forse il partirmi

Da questa terra, ov'è il ben far portento,

E somma lode il non aver peccato?

Dove il pensier da la parola è sempre

Altro, e virtù per ogni labbro ad alta

Voce lodata, ma nei cor derisa;

Dov'è spento il pudor; dove sagace

Usura è fatto il beneficio, e brutta

Lussuria amor; dove sol reo si stima

Chi non compie il delitto; ove il delitto

Turpe non è, se fortunato; dove

Sempre in alto i ribaldi, e i buoni in fondo.

Dura è pel giusto solitario, il credi,

[516]

Dura, e pur troppo disegual, la guerra

Contra i perversi affratellati e molti.

Tu, cui non piacque su la via più trita

La folla urtar che dietro al piacer corre

E a l'onor vano e al lucro; e de le sale

Al gracchiar voto e del censito volgo

Al petulante cinguettìo, d'amici

Ceto preponi intemerati e pochi,

E la pacata compagnia di quelli

Che, spenti, al mondo anco son pregio e norma,

Segui tua strada; e dal viril proposto

Non ti partir, se sai. Questa, risposi,

Qualsia favilla, che mia mente alluma,

Custodii, com'io valgo, e tenni viva

Finor. Nè ti dirò com'io, nodrito

In sozzo ovil di mercenario armento,

Gli aridi bronchi fastidendo, e il pasto

De l'insipida stoppia, il viso torsi

Da la fetente mangiatoia; e franco

M'addussi al sorso de l'Ascrea fontana.

Come talor, discepolo di tale,

Cui mi saria vergogna esser maestro,

Mi volsi ai prischi sommi; e ne fui preso

Di tanto amor, che mi parea vederli

Veracemente, e ragionar con loro.

Nè l'orecchio tuo santo io vo' del nome

Macchiar de' vili, che oziosi sempre,

Fuor che in mal far, contra il mio nome armaro

L'operosa calunnia. A le lor grida

Silenzio opposi, e a l'odio lor disprezzo.

Qual merti l'ira mia fra lor non veggio;

Ond'io lieve men vado a mia salita,

Non li curando. Or dimmi, e non ti gravi,

Se di te vero udii che la divina

De le Muse armonia poco curasti.

Sorrise alquanto, e rispondea: Qualunque

Di chiaro esemplo, o di veraci carte

Giovasse altrui, fu da me sempre avuto

[517]

In onor sommo. E venerando il nome
Fummi di lui, che ne le reggie primo
L'orma stampò de l'italo coturno:
E l'aureo manto lacerato ai grandi,
Mostrò lor piaghe, e vendicò gli umili;
E di quel, che sul plettro immacolato
Cantò per me:Torna a fiorir la rosa.
Cui, di maestro a me poi fatto amico,
Con reverente affetto ammirai sempre
Scola e palestra di virtù. Ma sdegno
Mi fero i mille, che tu vedi un tanto
Nome usurparsi, e portar seco in Pindo
L'immondizia del trivio, e l'arroganza,
E i vizj; lor; che di perduta fama
Vedi, e di morto ingegno, un vergognoso
Far di lodi mercato e di strapazzi.
Stolti! Non ombra di possente amico,
Nè lodator comprati avea quel sommo
D'occhi cieco, e divin raggio di mente,
Che per la Grecia mendicò cantando.
Solo d'Ascra venian le fide amiche
Esulando con esso, e la mal certa
Con le destre vocali orma reggendo:
Cui poi, tolto a la terra, Argo ad Atene,
E Rodi a Smirna cittadin contende:
E patria ei non conosce altra che il cielo.
Ma voi, gran tempo ai mal lordati fogli
Sopravissuti, oscura e disonesta
Canizie attende. E tacque; e scosse il capo,
E sporto il labbro, amaramente il torse,
Com'uom cui cosa appare ond'egli ha schifo.
Gioja il suo dir mi porse, e non ignota
Bile destommi; e replicai: Deh! vogli
La via segnarmi, onde toccar la cima
Io possa, o far, che s'io cadrò su l'erta,
Dicasi almen: su l'orma propria ei giace.
Sentir, riprese, e meditar: di poco
Esser contento: da la meta mai

[518]

Non torcer gli occhi: conservar la mano

Pura e la mente: de le umane cose

Tanto sperimentar, quanto ti basti

Per non curarle: non ti far mai servo:

Non far tregua coi vili: il santo Vero

Mai non tradir: nè proferir mai verbo,

Che plauda al vizio, o la virtù derida.

O maestro, o, gridai, scorta amorosa,

Non mi lasciar; del tuo consiglio il raggio

Non mi sia spento; a governar rimani

Me, cui natura e gioventù fa cieco

L'ingegno, e serva la ragion del core.

Così parlava e lagrimava: al mio

Pianto ei compianse, e: Non è questa, disse,

Quella città, dove sarem compagni

Eternamente. Ora colei, cui figlio

Se' per natura, e per eletta amico,

Ama ed ascolta, e di filial dolcezza

L'intensa amaritudine le molci.

Dille ch'io so, ch'ella sol cerca il piede

Metter su l'orme mie; dille che i fiori,

Che sul mio cener spande, io gli raccolgo,

E gli rendo immortali; e tal ne tesso

Serto, che sol non temerà nè bruma,

Ch'io stesso in fronte riporrolle, ancora

De le sue belle lagrime irrorato.

Dolce tristezza, amor, d'affetti mille

Turba m'assalse; e da seder levato,

Ambo le braccia con voler tendea

A la cara cervice. A quella scossa,

Quasi al partir di sonno io mi rimasi;

E con l'acume del veder tentando,

E con la man, solo mi vidi; e calda

Mi ritrovai la lagrima sul ciglio.

[519]

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