Urania

Poemetto

Su le populee rive e sul bel piano

Da le insubri cavalle esercitato,

Ove di selva coronate attolle

La mia città le favolose mura,

Prego, suoni quest'Inno: e se pur dégna

Penne comporgli di più largo volo

La nostra Musa, o sacri colli, o d'Arno

Sposa gentil, che a te gradito ei vegna

Chieggo a le Grazie. Chè da i passi primi

Nel terrestre viaggio ove il desio

Crudel compagno è de la via, profondo

Mi sollecita amor che Italia un giorno

Me de' suoi vati al drappel sacro aggiunga,

Italia, ospizio de le Muse antico.

Nè fuggitive dai laureti achei

Altrove il seggio de l'eterno esiglio

Poser le Dive; e quando a la latina

Donna si feo l'invendicato oltraggio,

Dal barbaro ululato impäurite

Tacquero, è ver, ma l'infelice amica

Mai non lasciâr; chè ad alte cose al fine

L'itala Poësia, bella, aspettata,

Mirabil virgo, da le turpi emerse

Unniche nozze. E tu le bende e il manto

Primo le désti, e ad illibate fonti

[524]

La conducesti; e ne le danze sacre

Tu le insegnasti ad emular la madre,

Tu de l'ira mäestro e del sorriso,

Divo Alighier, le fosti. In lunga notte

Giaceva il mondo, e tu splendevi solo,

Tu nostro: e tale, allor che il guardo primo

Su la vedova terra il sole invia,

Nol sa la valle ancora e la cortese

Vital pioggia di luce ancor non beve,

E già dorata il monte erge la cima.

A queste alme d'Italia abitatrici

Di lodi un serto in pria non colte or tesso;

Chè vil fra 'l volgo odo vagar parola

Che le Dive sorelle osa insultando

Interrogar che valga a l'infelice

Mortal del canto il dono. Onde una brama

In cor mi sorge di cantar gli antichi

Beneficj che prodighe a l'ingrato

Recâr le Muse. Urania al suo diletto

Pindaro li cantò. Perchè di tanto

Degnò la Dea l'alto pöeta e come,

Dirò da prima; indi i celesti accenti

Ricorderò, se amica ella m'ispira.

Fama è che a lui ne la vocal tenzone

Rapisse il lauro la minor Corinna.

Misero! e non sapea di quanto Dio

L'ira il premea; chè a la famosa Delfo

Venendo, i poggi d'Elicona e il fonte

Del bel Permesso ei salutando ascese;

Ma d'Orcomene ove le Grazie han culto,

Il cammin sacro omise. Il dévio passo

Vider da lunge e il non curar superbo

Del fatal giovanetto le Immortali,

E promiser vendetta. Al meditato

Inno di lode liberato il volo

Pindaro avea, quando le belle irate,

Aërie forme a mortal guardo mute,

[525]

Venner seconde di Corinna al fianco.

Aglaja in pria su la virginea gota

Sparse un fulgor di rosea luce, e un mite

Raggio di gioja le diffuse in fronte:

Ma la fragranza de' castalj fiori

Che fanno l'opra de l'ingegno eterna,

Eufrosine le diede; e tu pur anco,

Dolce qual tibia di notturno amante,

Lene Talia, le modulasti il canto.

Di tanti doni avventurata in mezzo

Corinna assurse: il portamento e il volto

Stupìa la turba, e il dubitar leggiadro

E il bel rossor con che tremando al seno

Posò la cetra; e, sotto la palpebra

Mezza velando la pupilla bruna,

Söave incominciò. Volava intorno

La divina armonia che, con le molli

Ale i cupidi orecchi accarezzando,

Compungea gl'intelletti, e di giocondo

Brivido i cori percotea. Rapito

L'emulo anch'ei, non alito non ciglio

Movea, nè pria de' sensi ebbe ripresa

La signoria, che verdeggiar la fronda

Invidïata vide in su le nere

Trecce di lei, che fra il romor del plauso

Chinò la bella gota ove salia

Del gaudio mista e del pudor la fiamma.

Di dolor punto e di vergogna, al volgo

L'egregio vinto si sottrasse, e solo

Sul verde clivo onde l'äeria fronte

Spinge il Parnaso, s'avvïò. Dolente

Errar da l'alto Licoreo lo scòrse

Urania Dea cui fu diletto il fato

Del giovanetto, e di blandir sua cura

Nel pio voler propose. È nei riposti

Del sacro monte avvolgimenti un bosco

Romito opaco, ove talor le Muse,

Sotto il tremolo rezzo esercitando

[526]

L'ambrosio piè, ringioviniscon l'erbe

Da mortal orma non offese ancora.

A l'entrar de la selva, e sovra il lembo

Del vel che la tacente ombra distende,

Balza l'Estro animoso, e de le accese

Menti il Diletto, e, ne la palma alzata

Dimettendo la fronte, il Pensamento

Sta col Silenzio che per man lo tiene.

Bella figlia del Tempo e di Minerva

V'è la Gloria, sospir di mille amanti:

Vede la schiva i mille, e ad un sorride.

Ivi il trasse la Diva. A l'appressarsi,

De l'aura sacra a l'aspirar, di lieto

Orror compreso in ogni vena il sangue

Sentia l'eletto, ed una fiamma leve

Lambir la fronte ed occupar l'ingegno.

Poi che ne l'alto de la selva il pose

Non conscio passo, abbandonò l'altezza

Del solitario trono, e nel segreto

Asilo Urania il prode alunno aggiunse.

Come tal volta ad uom rassembra in sogno,

Su lunga scala o per dirupo, lieve

Scorrer col piè non alternato a l'imo,

Nè mai grado calcar nè offender sasso;

Tal su gli äerei gioghi sorvolando,

Discendea la celeste. Indi la fronte

Spóglia di raggi, e d'ale il tergo, e vela

D'umana forma il dio; Mirtide fassi,

Mirtide già de' carmi e de la lira

A Pindaro mäestra; e tal repente

A lui s'offerse. Ei di rossor dipinto,

A che, disse, ne vieni? a mirar forse

Il mio rossore? o madre, oh! perchè tanta

Speme d'onor mi lusingasti in vano?

Come la madre al fantolin caduto,

Mentre lieto al suo piè movea tumulto,

Che guata impäurito e già sul ciglio

Turgida appar la lagrimetta, ed ella

[527]

Nel suo trepido cor contiene il grido,

E blandamente gli sorride in volto

Perch'ei non pianga; un tal divino riso,

Con questi detti, a lui la Musa aperse:

A confortarti io vegno. Onde sì ratto

«L'anima tua è da viltate offesa?»

Non senza il nume de le Muse, o figlio,

Di te tant'alto io promettea. Deh! come,

Pindaro rispondea, cura dei vati

Aver le Muse io crederò? Se culto

Placabil mai degl'Immortali alcuno

Rendesse a l'uom, chi mai d'ostie e di lodi,

Chi più di me di preci e di cor puro

Venerò le Camene? Or se del mio

Dolor ti duoli, proseguia, deh! vogli

L'egro mio spirto consolar col canto.

Tacque il labro, ma il volto ancor pregava,

Qual d'uom che d'udire arda, e fra sè tema

Di far parlando a la risposta indugio.

Allor su l'erba s'adagiaro: il plettro

Urania prese, e gli accordò quest'Inno

Che in minor suono il canto mio ripete.

Fra le tazze d'ambrosia imporporate,

Concittadine degli Eterni e gioja

De' paterni conviti eran le Muse

Ne' palagi d'Olimpo, e le terrene

Valli non use a visitar; ma primo,

Scola e conforto de la vita, in terra

Di Giove il cenno le invïò. Vedea

Giove da l'alto serpeggiar già folta

La vaga mortale orma, e sotto il pondo

Di tutti i mali andar curvata e cieca

L'umana stirpe: del rapito foco

Piena gli parve la vendetta; e a l'ira

Spuntate avea l'acri säette il tempo.

Alfin più mite ne l'eterno senno

Consiglio il Padre accolse, ed, Assai, disse

[528]

E troppo omai le Dire empio governo

Fer de la terra; assai ne' petti umani

Commiser d'odj, e volser prone al peggio

Le mortali sentenze. Di felici

Genj una schiera al Dio facea corona,

Inclita schiera di Virtù (chè tale

Suona qua giù lor nome). A questi in pria

Scorrer la terra e perseguir le crude

De l'uom nemiche ed a più miti voglie

Ricondur l'infelice, impose il Dio.

Al basso mondo ove la luce altérna,

Sceser gli spirti obbedïenti, e tutto

Ricercârlo, ma in van; chè non levossi

A tanto raggio de' mortali il guardo;

E di Giove il voler non s'adempia.

Però baldanza a quel voler non tolse

Difficoltà che a l'impotente è freno,

Stimolo al forte; essa al pensier di Giove

Novo propose esperimento. Al desco

Del Tonante le Muse una concorde

Movean d'inni esultanza; inebrïate

Tacean le menti degli Dei; fe' cenno

Ei la destra librando; e la crescente

Del volubile canto onda ristette

Improvviso. Raggiò pacato il guardo

A le Vergini il Padre; e questo ad elle

D'amor temprato fe' volar comando.

Figlie, a bell'opra il mio voler ministre

Elegge or voi. Non conosciute ancora

Errar vedete le Virtù fra i ciechi

Figli di Pirra: d'amor santo indarno

Arder tentaro i duri petti, e vinte

Farsi de l'ardue menti aprir le porte:

La forza sol de l'arti vostre il puote:

Là giù dunque movete: a voi seguaci

Vengan le Grazie; e senza voi men bella

Già la mia reggia il tornar vostro attende.

Tacque a tanto il Saturnio; e su gli estremi

[529]

Detti, dal ciglio e da le labra rise

Blandamente. Al divino atto commossa

Balzò l'eterea vetta, e d'improvviso

Di tutta luce biondeggiò l'Olimpo.

Nel primo aspetto de la terra intanto

Il lungo duol de le Virtù neglette

Vider le Muse; ma di lor la prima

Chi fu che volse le propizie cure

I bei precetti ad avverar del Padre?

Calliope fu che fra i mortali accorta

Orfeo trascelse; e sì l'amò che il nome

A lui di figlio non negò. Vicina

A l'orecchio di lui, ma non veduta,

Stette la Diva, e de l'alunno al core

Sciolse la bella voce onde si noma.

Il bel consiglio di Calliope tutte

Imitâr le sorelle; e d'un eletto

Mortal mäestra al par fatta ciascuna,

L'alme col canto ivan tentando, e l'ira

Vincea quel canto de le ferree menti.

Così dal sangue e dal ferino istinto

Tolser quei pochi in prima; indi lo sguardo

Di lor, che a terra ancor tenea il costume,

Che del passato l'avvenir fa servo,

Levâr di nuova forza avvalorato.

E quei gli occhi giraro, e vider tutta

La compagnia degli stranier divini,

Che a le Dire fea guerra. Ove furente

Imperversar la Crudeltà solea,

Orribil mostro che ferisce e ride,

Vider Pietà che mollemente intorno

A i cor fremendo, dei veduti mali

Dolor chiedea; Pietà, de gl'infelici

Sorriso, amabil Dea. Feroce e stolta

Con alta fronte passeggiar l'Offesa

Vider, gl'ingegni provocando, e mite

Ovunque un Genio a quella Furia opporsi,

Lo spontaneo Perdon che con la destra

[530]

Cancella il torto e ne la manca reca

Il beneficio, e l'uno e l'altro obblia.

Blando a la Dira ei s'offeria: seguace

Lenta ma certa, l'orme sue ricalca

Nemesi, e quando inesaudito il vede,

Non fa motto ed aspetta. Un giorno al fine

Ne gl'iterati giri, orba dinanzi

Le vien l'Offesa; al tacit'arco impone

Nemesi allor l'alata pena; aggiunge

L'äerea punta impreveduta il fianco,

E l'empio corso allenta. Inonorata

La Fatica mirâr, che gli ermi intorno

Campi invano additava, a cui per anco

Non chiedea de la messe il pigro ferro

Gli aurei doni dovuti: a lei compagno

L'Onor si fea; se forse a la sua luce

Più cara a l'occhio del mortal venisse

L'utile Dea. Vider la Fede, immota

Servatrice dei giuri, e l'arridente

Ospital Genio che gl'ignoti astringe

Di fraterna catena; e tutta in fine

La schiera dia ne l'opra affaticarsi.

Videro, e novo di pietà, d'amore

Ne gli attoniti surse animi un senso,

Che infiammando occupolli. E già de' lieti

Principj in cor secure, il plettro e l'arte

Sacra del plettro a i figli lor le Muse

Donâr, le Grazie il dilettar donaro

E il süader potente. Essi a la turba

Dei vaganti fratelli ivan cantando

Le vedute bellezze. Al suon che primo

Si sparse a l'aura, dispogliò l'antico

Squallor la terra, e rise: e tu qual fosti,

Che provasti, o mortal, quando sul core

La prima stilla d'armonia ti scese?

Quale a l'ara de' Numi allor che il sacro

Tripode ferve, e tremolando rosse

Su le brage stridenti erran le fiamme,

[531]

Se la man pia del sacerdote in esse

Versi copia d'incenso, ecco di bruno

Pallor vestirsi il foco, e dal placato

Ardor repente un vortice s'innalza

Tacito, e tutto d'odorata nebbia

Turba l'etere intorno e lo ricrea;

Tal su i cori cadea rorido, e l'ira

V'ammorzava quel canto, e dolce, in vece,

Di carità, di pace vi destava

Ignota brama. A l'uom così le prime

Virtù fur conosciute onde bëata,

Quanto ad uom lice, e riposata e bella

Fassi la vita. Allora in cor portando

Il piacer de l'evento, e la divina

Giocondità del beneficio in fronte,

A l'auree torri de l'Olimpo il volo

Rïalzar le Camene. Ivi le prove

De l'alma impresa e le fatiche e il fine

Dissero al Padre; e pieno, in ascoltarle,

Da la bocca di lui scorrea quel dolce

Canto a l'orecchio dei miglior, la lode.

Ma stagion lunga ancor volta non era,

Che ne le Nove ritornate un caro

De la terra desio nacque; chè ameno

Oltre ogni loco a rivedersi è quello

Che un gentil fatto ti rimembri: e questa

Elesser sede che secreta intorno

Religïon circonda, e, l'arti antiche

Esercitando ancor, l'aura divina

Spirano a pochi in fra i viventi, e dánno

Colpir le menti d'immortal parola.

E te dal nascer tuo benigna in cura

Ebbe, o Pindaro, Urania. E s'oggi, o figlio,

Tanto amor non ti valse, ell'è d'un Nume

Vendetta: incauto, che a le Grazie il culto

Negasti, a l'alme del favor ministre

Dee, senza cui nè gl'Immortai son usi

Mover mai danza o moderar convito.

[532]

Da lor sol vien se cosa in fra i mortali

E di gentile, e sol qua giù quel canto

Vivrà che lingua dal pensier profondo

Con la fortuna de le Grazie attinga;

Queste implora coi voti, ed al perdono

Facili or piega. E la rapita lode

Più non ti dolga. A giovin quercia accanto

Talor felce orgogliosa il suolo usurpa,

E cresce in selva, e il gentil ramo eccede

Col breve onor de le digiune frondi:

Ed ecco il verno le dissipa; e intanto

Tacitamente il solitario arbusto

Gran parte abbranca di terreno, e, mille

Rami nutrendo nel felice tronco,

Al grato pellegrin l'ombra prepara.

Signor così degl'inni eterni, un giorno,

Solo in Olimpia regnerai: compagna

Questa lira al tuo canto, a te sovente

Il tuo destino e l'amor mio rimembri.

Tacque, e porse la cetra: indi rivolta,

Candida luce la ricinse: aperte

Le azzurre penne s'agitâr sul tergo,

Mentre nel folto de la selva al guardo

Del suo Poëta s'involò. La Diva

Ei riconobbe, e di terror, di lieta

Maraviglia compunto, il prezïoso

Dono tenea: ne l'infiammata fronte

Fremean d'Urania le parole e l'alta

Promessa e il fato: e la commossa corda,

Memore ancor del pollice divino,

Con lungo mormorar gli rispondea.

[533]

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