X. VITA DA COW-BOYS

— Per Iddio! Aspettare ecco la vera angoscia di questa guerra! Aspettare gli ordini, aspettare le manovre, aspettare l’offensiva. Ora siamo a riposo in una brutta fattoria perduta nell’immensa pianura paludosa... Per quanto tempo? Aspettare non vuol dire riposarsi. Se fossi a Milano o a Roma farei almeno dell’utile propaganda. Qui non si fa nulla. Per fortuna il nostro cuoco è veramente meraviglioso!

Parlo ai miei compagni dell’8ª squadriglia, tra monumentali paste asciutte sanguigne sotto la lampada fumosa assalita da tutte le farfalle di una afosa sera di agosto.

— Io, dice il tenente Volpe, rimpiango la mia caccia e la mia pesca.

Volpe è un ligure magro, asciutto, quarantenne, agente di cambio e viveur, furbissimo, pratico. Ma si sente che al denaro e alle donne preferisce in realtà il piacere originario della sua razza.

— L’ultima mia pesca, che bellezza! Con tre amici in un guscio bene equilibrato. Al largo di Genova calma perfetta... Una luna enorme che sembrava una torta... Otto rematori con dei remi lunghi, lunghi. Acciughe, acciughe, acciughe; a manate, a palate. Tonnellate di acciughe. La barca era tutta piena di argento. Otto tonnellate, 9 mila lire! Affondavamo quasi sotto il peso. Il bordo sorpassava l’acqua di 10 centimetri. Attenti! non imbarchiamo acqua per carità!... Ma a me piace anche la caccia. Andavo ogni anno sul valico del Turchino. Uccelli d’ogni specie. All’alba si vedevano venir su col vento di tramontana... Sono lenti, sembrano tirare il carretto per superare il valico. – Passano a un metro dalla testa. – Non bisogna tirare quando vengono su. È questione di calma: tu li lasci passare, poi ti volti e pam, pam, una botta nel culo. Te li vedi venir giù, a due a due. Se tiri prima che siano passati, quelli che seguono scappano via.

Il tenente Sacco ragazzone forte pieno di orgoglio infantile, figlio di papà. Viene dal corpo degli automobilisti. Vuol passare per un conoscitore di donne. Fiero di aver goduto qualche libertà e qualche cocotte. Attacca ironicamente il tenente Lattes israelita pallido, occhiali, poca salute, intelligente tipo di lavoratore, sensualissimo, goloso, furbo, mellifluo, un po’ strisciante.

— L’amico Lattes, dice Sacco, rimpiange il suo imboscamento di un anno al comando supremo.

— Taci! tu hai fatto la guerra molto meno di me. Ti dai delle arie da viveur per due o tre prostitute dei Portici Po...

— Io non sono stato giolittiano e neutralista come te, e leccapiedi di tutti i professori germanofili. Dove eri nelle giornate di maggio?

— E tu, dove eri?

— Io, risponde Sacco, era ancora un ragazzo, ma almeno mi divertivo con fior di mezzi.

Risata generale. L’espressione fior di mezzi suscita una ilarità irrefrenabile. Il tenente Paccagnella, effettivo, bel ragazzo snello, elegante, viene dal corpo dei mitraglieri, già ferito due volte. Un po’ effeminato nelle mosse. Interrompe annunciando che fra due giorni cominceranno le manovre con la 1ª divisione di cavalleria e i bersaglieri ciclisti per prepararsi alla grande offensiva prossima.

Il capitano Raby a capo-tavola ride ironicamente. Ventisei anni, grassoccio, tende alla pinguedine. Mangia poco ma ne soffre perchè ghiotto. Faccia quadrata, grassa, piccoli occhi; tipo di turco.

Se avesse il fez! Pigro, molle, dorme molto, intelligentissimo, però. Nasconde evidentemente delle riserve di energia preziosa. Ha inventato un motore a scoppio senza cambio molto semplificato. Grande memoria, sa quasi tutto. Crede fermamente nella teosofia, vuole spiegare tutto colla gradazione teosofica delle vite. Ufficiale effettivo di cavalleria. Dice:

— Io non credo assolutamente nella cavalleria come truppa celere, utile. Non credo nelle tanks data la canalizzazione del Veneto. Ho comandato per due anni le autoblindate, a Gorizia e durante la ritirata, e ci credo. Se potremo slanciarci avanti coi bersaglieri ciclisti faremo cose grandi. Tutto al più qualche plotone di cavalleria per collegamento fuori dalle strade. Possono evitare gli accerchiamenti.

Il piccolo Bosca entra nella sala brandendo una bottiglia di moscato.

— Altro che cavalleria! ci vogliono donne, donne per prepararci!

È dimagratissimo dagli innumerevoli infortunii sul lavoro erotico. Corpo esile fragilissimo, ma grande forza nervosa e volontà. Intelligente, pratico, attivo, coraggioso e assetato di cocotte.

Il capitano annuncia:

— Domani andremo alla messa di Bevadoro per valutare il bel sesso dei dintorni.

Sigarette e sigari in bocca usciamo tutti nella calda notte d’estate che si sprofonda incalcolabilmente su l’incalcolabilmente vasta pianura.

cra cra cra cra cra cra cra cra cra cra cra cra

Polifonia oceanica di rumori, scatti, tonfi. Rane. Rospi. Officina filanda di scricchioliii organizzati cra cra cra cra cra cra cra cra cra cra cra cra.

Tutti i rospi della terra lavorano al tornio 3 miliardi di granate nere per bombardare di nero tradimento-terrore-ironia la troppo bianca lirica spasimante luna fiduciosa che nasce a sinistra. Dietro di noi la fattoria massa nera calda fende col suo tetto-prua il dilagaaante fresco oceano lunare di rumori odori argentei fieri acri.

Sssssssssssssssssiiiiilenzio lunare.

La luna soffia a gote bianche piene nel suo megafono di raso bianco per imporre il ssssssssiiilenzio. Taaaaaci! Vieeeeeni! La notte è attentissima a tutti i rumori. Alziamo la testa e incensiamo colle nostre sigarette la via lattea.

Via lattea, muta rivolta di caratteri tipografici. Polvere di rumori già uditi... pinpinpinpindipingere... punpunpunpungere. Punteggiatura. Ritmo di telegrafo Morse. Stelle parole telegrafate d’amore o di guerra: 200.000 uomini di riserva!... Presto! ad ogni costo! chiudere il varco del fronte... e del cuore che muore!

La notte è attentissima a tutti i rumori. Bau bau bau della passione folle asmatica. Chi è chi è che abbaia? Quel cane o il mio cuore? Irto erotismo che abbaia verso la vulva soave colma di latte tenerezza, la luna. Bau bau. Hoooo pau pau pauraaa di non averti sotto le labbraaaa in questa notte spaventosamente vuotata dalla tua assenzaa.

L’abbaiare del cane sveglia in alto a sinistra la costellazione dello Scorpione, smisurato dinamismo inchiodato. Lo Scorpione spara le sue stelle di punta che sembrano rumori di guerra: pan! in alto. Ta-pum! più giù. Poi pan! Ta-pum! in fondo all’orizzonte.

Ti ti ti ti ti ti ti ti ti d’insetti.

I volumi degli alberi setacci di rumori si sfasciano sotto la pasta dei rumori. Catalogare tuttiiii rumori presto, presto impacchettarli e spedirli a volo ai lontaniiisssimi silenzi affamati di rumori.

Il cielo nero è un orecchio infinito circonvoluto, circoncanalato, contatore di rumori. 3 miliardi, 6 miliardi, 9 miliardi di rumori!

Le acque veggenti copiano, copiano, azzurri copialettere della notte attentissima.

La costellazione dello Scorpione è una muta fucileria di stelle, sparate contro il lontano ma prossimo Sole. Ma se ne infiiiiischia laggiù la locomotiva di quel treno di guerra che corre stringendo nella sua pancia sotto le sue mani di grasso fumo il rovente Sole imbavagliato che urla lunghe griiiida rosse disperatissssssime e trionfali di fuuuuufufuoooocooo.

La chiesa di Bevadoro puzza come una stalla ed è piena di contadine che hanno un odore forte, belle vesti a colori. Alcune zoccolanti. Altre fruscianti in calze di seta e scarpini.

Siamo seduti sul primo banco. Don Luca, prete di Bevadoro, rude sessantenne, abbronzato, ha due piccoli ragazzini di otto anni che servono la messa. Sembrano ammaestrati. Don Luca fa un cenno e il primo ragazzino gli solleva la tonaca nera. Subito l’altro ragazzino tira fuori dalla tasca della sotto-tonaca un vasto fazzoletto giallo e lo pone nelle mani aperte del prete. Queste soffiano tre volte rumorosamente un gran naso rossastro poi si ricongiungono. Il fazzoletto ripreso automaticamente dalle mani alzate del secondo ragazzino sparisce nella tasca. Allora il primo ragazzino lascia ricadere la tonaca. Don Luca comincia:

— Dunque oggi vi parlerò dell’Immacolata Concezione... Taci, Giuseppino, fa silenzio! (rivolgendosi a un moccioso). Come vi dissi nella predica precedente, i profeti avevano annunciato che una vergine di Galilea... Mariettin! sì, sì, te. È una vergogna venire in chiesa così scollata per eccitare i soldati! (rivolgendosi a una ragazza che arrossisce, Don Luca scende fra i banchi e le tira l’orlo della camicietta). Sei una sgualdrina! Dunque i profeti avevano annunciato che una vergine di Galilea sarebbe stata scelta come sposa da Giuseppe il falegname, e divenuta madre pur rimanendo immacolata, avrebbe dato la luce al divino bambino Gesù. Ora è in Paradiso. Come la vostra vacca nella stalla è circondata da tante mosche, così la Beata Vergine è circondata da tanti angeli nel paradiso. Tantum eeergooo! Silenzio!... Quest’anno ha tempestato. Non verrò a raccogliere l’uva nelle case. Quelli che vogliono portarmela vengano coi canestri nella canonica. Sacrameeeentuuum!

Don Luca fa poi un primo giro di questua tra i banchi della chiesa. Ma davanti al primo banco tira con ostentazione dal portamonete due soldi e li fa cadere rumorosamente nel piatto.

Fuori, un vecchio contadino che ara un campo mi dice:

— Eravamo 14 uomini in famiglia prima della guerra, e coltivavamo 83 campi. Oggi tutti gli uomini in guerra e poche donne qui.

Poi riprende a pungolare due vacche e 6 buoi aggiogati che tirano l’aratro.

— Valaa Furboon. Haa le vacchee! Rombon canaiaa. Bigioo valaaa. Vaacheee vaacooon ve beee.

Una contadinella quattordicenne ma già forte, muscolosa impugna le stanghe dell’aratro pesando sopra col busto in avanti. È graziosa. Con civetteria mi guarda voltando la testa all’indietro. Mette in rilievo le natiche e mostra con scatti abili delle belle gambe nude e rudi cuoiate dal sole. Le domando perchè le due vacche sono aggiogate in testa. Mi risponde:

— Per segnà la strada.

Fffuuu fffuuu fffuuu fffuuu dei fiati bovini

Tlin trac tin tin tliiiin di catene e gioghi.

Sono coricato in un solco; intorno a me corrono, battagliano i tre cani della squadriglia: Zazà, Nick e Kim. Kim è un foxterrier bastardo con muso da levriero dolce, stupido incoscente, ragazzaccio. Vuole fare tutto, andare da per tutto, velocissimo ma senza coraggio. Nick puro Ruffterrier tipo di uomo sanguigno ambizioso e prepotente, avventuroso, rissoso, indipendente. Poche idee. Pochi odii violentissimi. È un po’ pazzo. Fa una maffia elegante di balzi arcuati, pomposi, inutili su delle alte erbe imaginarie. Morde tutto. Insegue anitre, oche, galline, mosche e farfalle. Si tuffa in tutte le pozzanghere; poi si ricorda ad un tratto di Zazà e le fa una corte spudorata, brutale. Zazà si dà delle arie di cacciatrice di topi. Scava buchi e fruga in fondo per cercarvi delle talpe, corre velocissima ma si stanca presto. Fa la cura delle erbe. Golosa, intelligentissima e artista.

Quando scoppia una rissa tra il suo adoratore Nick e il grosso bracco della fattoria, Zazà si sdraia per assistere. Spesso abbaia per annunciare a Nick il bracco nemico e aizzarli.

Kim ama anche lui Zazà, si slancia e la rovescia. Zazà rotola sotto, poi scatta e morde Kim che fugge, ritorna. Addosso a Zazà che rotola regolarmente. Nick disprezza Kim. Ma se il bracco assale Kim, Nick con spavalderia di uomo atletico, interviene feroce.

Monotonia, monotonia del sole operaio che cuoce i germi delle viti, sguinzaglia i tafani sulle groppe dei buoi, accende pruriti nella carne di quella contadinella, arroventa il dinamismo giocondo dei tre cani e gonfia il mio petto d’un’ansia soffocante di amore e di guerra. Vita da cow-boy. La nostra fattoria di Barchessa immobile, sola come una nave sul mare infinito delle pianure. Tutto il giorno senza giubba, piedi nudi nei fossi pieni di lucci, anatre, oche. Lucertoliamo al sole.

A schiena nuda sento ramificarsi sulla mia pelle il cervello di Fabre formicolante d’insetti attivissimi in guerra. Intorno, le pianure vastissime, aperte, senza alberi partono a grande velocità lontaaano verso le radici del Grappa che si copre talvolta di nuvole e ribolle di cannonate ovattate. Questo è certo un bombardamento più feroce di tutti i precedenti. Ogni sera il Grappa si incorona di vampe convulse.

All’alba erro nell’immensa pianura semi-allagata.

Nick, Kim, e Zazà mi accompagnano. Sono divertentissimi. Ma Nick sempre più innamorato di Zazà diventa insopportabile. Quel bellissimo cane tutto muscoli scattanti è, come tutti i cani di razza, un mediocre assalitore di femmine. Tenta, tenta, ritenta. Zazà si presta con mille grazie e abilità impudiche. Nick non riesce. Lingua fuori, esasperatissimo, continua anche lontano da Zazà il movimento convulso della schiena. Io lo sollevo ogni tanto per la piccola coda dura come per un manico e lo tuffo nei fossi per rinfrescarlo. C’è invece un altro pretendente di Zazà, sempre in agguato a 50, 100 metri in giro davanti una siepe o nell’erba. Piccolo cagnolino bastardissimo nero con enormi orecchie da vampiro. Ghiandusso che lo ha dichiarato austriaco lo rincorre a pietrate. L’odiato pretendente sparisce ma 5 minuti dopo eccolo a pochi metri incollato a Zazà. Tutti addosso. Guaiti, lacerazione, fuga.

L’altro giorno avevo Zazà al guinzaglio. Sicuro, non sorvegliavo. Ad un tratto doppio peso al guinzaglio. È lui, incollatissimo. Devo piantargli il piede sul muso per sturacciolar via la mia cagnetta. Evidentemente il piccolo bastardo è un amatore fulmineo.

Mentre le mie scarpe ruminano, brucano e masticano l’erba rasa, penso che tutti gli erranti pastori e cow-boys delle pianure americane portano nel loro corpo rimpicciolito dall’opprimente avviluppante Infinito, una minuscola rosicchiante ossessione oscena o una miserabile rapacità finanziaria. Essi non godono come me la vasta fusione dell’idea di spazio e dell’idea di tempo fra il sciiivff sciaaff dei piedi nella terra molle e pantanosa. L’abitudine delle vaste respiranti, dilatate, pianure toglie loro ogni curiosità e ogni amore per i cieli, le nuvole, le stelle e le polifonie degli insetti. Io che noto tutto, valuto, catalogo ogni sensazione letterariamente, mi sento naufragare a poco a poco nell’incoscienza dei pastori erranti.

Ma il capitano Raby mi sorprende in una di queste meditazioni e mi invita ad accompagnarlo a Padova, dove si reca a vedere un suo compagno morente all’ospedale. Ecco la divina velocità, maestra d’ogni energia e d’ogni lirismo, furente inaffiatoio di varietà sorprendenti. Mezz’ora dopo entriamo all’ospedale. Atmosfera tragica e storia ancor più tragica di questo giovanissimo ufficiale di cavalleria che prese la sifilide a Pinerolo, si curò col 606. Apparentemente guarito tornò a Pinerolo, vi prese una blenorragia.

— È entrato pochi giorni fa all’ospedale, mi dice il capitano Raby. Ha delle febbri misteriose, dimagra. Avant’ieri l’ho trovato con un braccio al collo. Mi raccontò che nell’agitare il termometro si era rovesciato completamente il pollice contro l’avambraccio.

Entriamo nella sala. Il maggiore medico ci dice in fretta:

— È morto stanotte. Ha le ossa disfatte e disgregate dal 606.

Ci avviciniamo al cadavere. Non si può resistere dal fetore. Dal naso esce una materia verdastra e delle grandi bolle che scoppiano emanando un odore di putrefazione avanzata. Il maggiore dice gravemente:

— L’uomo ha trovato due sole medicine: il chinino per la malaria e il mercurio per la sifilide. Gli antichi greci, persiani, indiani, cinesi frizionavano il corpo sifilitico con una pomata mercurale. Abbiamo fatto pochi progressi. I giovani in genere non resistono al 606, le loro ossa sono troppo fragili, si sfasciano, vedete.

26 agosto, sveglia dolorosa alle due del mattino.

Incominceranno all’alba le grandi manovre tra il Bacchiglione e il Brenta per prepararci all’avanzata tra Piave e Tagliamento. Saremo coi bersaglieri ciclisti in testa al primo corpo d’armata d’assalto sotto il comando del generale Grazioli. Ore tre, in macchina. Lotta tra la luna quasi piena che investe gli alberi coricandone le ombre lunghissime e i fanali delle blindate. Queste squassano, sfasciano sventolano le loro ombre nerissime geometriche. La campagna si gonfia di pulsazioni scoppianti di motociclette. Freddo. L’interno delle auto-blindate che diventa un forno al sole è, questa notte, una gelatiera. Un side-car con fanale bianchissimo che ci sorpassa sembra un pezzo di vita intima invernale strappata a un castello da un vento pazzo. Fantastica fuga d’una poltrona con relativo sedentario, le gambe prese nella coperta, davanti al fuoco del camino.

Le truppe si concentrano in un immenso prato di monte Galdella, orlato di squadroni di cavalleria. Si indovinano i cavalli sotto gli alberi. Fiati, fiati di fieno, sterco, piscio, acri ammoniacati mordenti. Agitazioni di groppe e code sventaglianti. Nel buio sfilano le colonne di cavalleria. Ci accodiamo alla terza. Il corpo d’armata d’assalto ha il compito di rastrellare il terreno conquistato da noi e stabilire le prime linee difensive.

Corteo lentissimo. Davanti a noi i cavalleggeri al trotto si fermano e mandano pattuglie in avanscoperta. Ci fermiamo, poi lentamente avanti. Caldo nauseante di olio bruciato nella mia blindata chiusa. Il rumore del motore con nota d’organo ostinata mi dà sonno. Apro lo sportello per non dormire. Una strada di campagna ci beve nel folto dei suoi fogliami. Ingombro di batterie da montagna someggiate con muli. Un reparto d’assalto fez neri. Arditi che sembrano scolaretti in ricreazione. Scapigliamento disciplinato. Si addensano, precipitano la marcia. Passo più che bersaglieresco. Violenti, velocissimi con maffia gloriosa. Penso all’assurdità delle manovre, cretine in tempo di pace poichè comandate da ufficiali invecchiati in caserma e imbelli; cretine in tempo di guerra poichè gli ufficiali che le comandano sono quasi tutti feriti e perciò svogliati dall’assenza del personaggio più importante: il signor Pericolo.

Siamo di punta coi bersaglieri ciclisti in contatto silenzioso col nemico. Un razzo enorme sfascia il suo fuoco nel cielo. Sono gli arditi che indicano al comando il punto estremo conquistato. Giunge a cavallo un maggiore affannato. Con voce rotta dall’emozione dice al generale:

— Vi è un tiro di artiglieria infernale sulla nostra destra. Minaccia di accerchiamento. Bisogna ripiegare. Ritirata.

Le sue parole spaventate (da chi?) e i suoi gesti tragici sono di una comicità sublime in questo silenzio quasi assoluto che trasuda il bisbiglio degli uccelli negli alberi soffocati dal caldo quasi torrido di questa aurora d’agosto. Penso che se i reparti d’assalto colla cavalleria e le blindate s’infischiassero eroicamente di questo tiro d’artiglieria infernale non ci sarebbe proprio bisogno di ritirarsi. Tutto dunque dipende dall’accoglienza che noi faremo al signor Pericolo. Le manovre servono soltanto a stabilire qualche servizio logistico e a distribuire medaglie!

Ore tre del pomeriggio. Riprendo la manovra nella mia blindata tropicale. Innumerevoli errori. Il generale temeva quel punto fosse battuto dall’artiglieria. Non è così. Vi sono solo delle mitragliatrici. Due maggiori dichiarano che le mitragliatrici sono 12. Invece sono due. Constato una volta di più che la nostra razza è legata alla improvvisazione e alla realtà. Non crede negli esami preparatorii, non ama le finte, risolve tutto quando l’esame finale è decisivo.

Vado avanti colla mia blindata e un plotone di cavalleggeri appiedati, baionetta inastata. Mi seguono curvi in fila, defilandosi dietro la mia blindata che rincula con la poppa armata di tre mitragliatrici. In fondo la strada è sbarrata da 2 mitragliatrici coperte di fogliame. Un giudice di campo mi dichiara che non posso fare nulla. Io punto colle due mitragliatrici le due avversarie.

Un capitano dei bersaglieri ciclisti insorge.

— Guardi che le mie due mitragliatrici sono puntate e la strada è sbarrata.

Rispondo:

— Le mie sono puntate e blindate. È mezz’ora che io inseguo i suoi bersaglieri. Lei non ha avuto il tempo di fare lavori di sbarramento. Del resto mentre io la mitragliavo i miei uomini hanno tolto tutti gli sbarramenti.

— Non è possibile.

— Il giudice di campo deciderà.

A 50 metri da noi, altro dialogo tra due reparti avversari.

— Lei con le sue mitragliatrici è fuori uso.

— Io considero prigioniera la sua sezione.

— Se vuole, si accomodi, signor capitano!

Mi consolo dell’ironia scoraggiante e del caldo tropicale con l’ammirare una giovine mugnaia in rosa ritta sulla chiusa d’un mulino con un orinale azzurro nella mano destra. Beve estatica il tapaplum tapaplum di 3 cavalieri che galoppano sotto il ta-ta-ta-ta di una mitragliatrice innocua, a salve.

Ssssssssssss della limpida vasta gomma di acqua convessa dell’affioratore. Gonfia gelatina trasparente che contiene tutto il sapore dorato dell’agosto. Cristallo mobile che porta l’immagine precisa della mia blindata.

Rrrrrrr d’areoplano in cielo. Un fascio di sole fuor delle nuvole investe una bandiera azzurra alla finestra d’un cascinale.

Passa un cavaliere con una bandiera rossa e bianca nello stivalone.

Davanti, il prato è una fusione di smeraldi. Quattro bambini pastori. Si chiamano forse Rosa Italia, Ninette France, Nik Wilson, John Bull. Sorvegliano 2 groppe enormi cubiche: un toro cieco che si chiama certamente Berlino, una vacca elegante magrissima che si chiama senza dubbio Vienna.

Mascelle: bruuc bruuc bruucroff bruucroff.

Fiati: fuu fuu.

Code incensieri e code ventagli contro le mosche

Turutuum turutuum di cannonate sul Grappa.

Tuf tuf tuf tuf tuf della mia autoblindata.

Tuf – tuff – tuff della lavandaia che sbatte e sciacqua quei panni forse bende insanguinate nel fosso d’oro blu.

Blu blu blu blu blu di tacchine berlinesi e romantiche.

Plaaff plaaff di sterco di vaaacca vaaacca.

Valaaa bireee vekiii moreee.

Bruuc bruucrof.

Zzzzzzz di mosconi tedeschi che tornano zzzzzz insistono zzzzz pungono metodici, filosofici. I 4 bambini pastori giuocano colla palla di caucciù solare che rimbalza sul prato verde.

John!... Wilson!... France!... Italiaaaa!...!

Da tre giorni l’intiera 8ª squadriglia si esercita al tiro della mitragliatrice. Mentre crediamo poco nella collaborazione della cavalleria in caso di celere offensiva abbiamo grande fiducia nelle nostre auto-blindate. Si lavora energicamente sotto il sole tropicale che trasforma la mia 74 in una vera scatola di cottura.

Ricordo di aver per il primo nella mia Battaglia di Tripoli paragonato la mitragliatrice a una donna seducentissima perfida capricciosa e crudele con la sua lucente cintura di cartucce. Trovo ora che l’immagine è precisa specialmente se si tratta di caratterizzare queste nostre mitragliatrici S. Etienne vendute dalla Francia all’Italia, più parigine e più femminili di ogni altra mitragliatrice, più passionali e più perfide. La mitragliatrice S. Etienne è un’arma perfetta, ma esige cure tali da stancare qualsiasi amante devoto. Sarebbe docile e continua, se ben fissata sul candeliere in terra. Ma soffre di affacciarsi alle finestre troppo strette della blindata. Non ama gli scossoni polverosi della velocità, esige una oliatura leggerissima, dirò meglio una toilette da Istituto di bellezza. Altrimenti si inceppa, mastica le cartucce invece di spararle e si ingombra lo stomaco colla polvere.

Brutto affare sentirsi accerchiati mentre la S. Etienne ha le bizze. Il mio sergente ha svestito interamente una delle due S. Etienne in cupola. L’aiuto, seconda cameriera affaccendata intorno al corpo della dama che andrà al ballo. Eccola rivestita. Spara; poi di nuovo si inceppa. Il mio sergente bestemmia:

— Accidenti, ora fa la matta! Questa stupida non ama l’olio!

Si soffoca nella mia blindata. Salto fuori per respirare pensando a un’altra donna che fa la matta nella sua ultima lettera. Si chiama Bianca, è bionda, fiorentina, sensuale, sta a Palermo, spera di incontrarmi a Napoli. L’ho amata, ma la sua natura bizzarra piena di svolte misteriose, sincerità e snobismi, calcoli e generosità assolute, mi esaspera specialmente ora in questo periodo della mia vita di guerra, inadatto alle complicazioni e ai diabolismi erotico-sentimentali. Sarei contento di non rivederla più. È una mitragliatrice graziosa, precisa, ma turbolenta e piena d’inceppamenti. D’altra parte, come incontrarla ora? Mi scrive una lettera assurda ponendomi l’ultimatum. Vedersi a Napoli o non vedersi più!

Il capitano Raby mi batte sulla spalla con queste parole inaspettate:

— Non posso andare ora in licenza, se vuoi andarci tu, puoi partire fra due ore.

Scatto di gioia e accetto. Questa gioia mi irrita. Sento che il fascino della mitragliatrice lontana mi domina, ma dico con tono strafottente:

— Caro Raby, grazie. Parto perchè non temo le mitragliatrici.

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