XI. LA MARCHESA CASATI E I BALLI FUTURISTI

In treno riepilogo le cose da sbrigare nella mia licenza: gruppi di giovanissimi futuristi da visitare, propaganda da intensificare, prima rappresentazione dei balli futuristi di Depero ecc. ecc. Dominano nella mia fantasticheria sonnolenta le figure di due donne: Maria, amica affettuosa e intelligente purtroppo influenzata da un marito professore germanofilo. La vedrò a Roma. E Bianca che amo un poco, molto, non so, desidero, odio, strangolerei o trascurerei, vedremo.

Mi ero proposto 4 anni fa di eliminare durante la guerra qualsiasi amore importante. Non tanto per gelosia, quanto per portare al fronte un’anima serena, spensierata e gogliardica. Vi sono riuscito a metà.

Nel compartimento vi sono molte donne. Il mio istinto le valuta. Una è coricabilissima, l’altra è coricabile, la terza è traversabile quando si ha molto freddo e molta noia nei nervi.

Davanti a me, la moglie un po’ volgare, ma bella bionda, sensuale un po’ cocottesca di un venditore di formaggi milanese. Seduto vicino, un tenente aviatore romano chiacchierone, gioviale, scherza invita tutti a dividere il suo cestino poi mangia parlando colla signora milanese:

— Stamattina, ho volato su Peschiera. Fui attaccato da un cacciatore austriaco. Subito l’ho contrattaccato, ma non ho potuto sbatterlo giù. Aveva un motore più forte del mio. Nel cielo di Torbole me ne sono venuti due addosso, di cacciatori austriaci. Ho dovuto tagliar la corda. Mi avevano forato le due ali come due setacci. Alle sette ero sulla piazza di Peschiera. Vedevo gli uomini sulla piazza...

— Oh! conosco bene Peschiera! risponde la signora milanese con una assoluta indifferenza per l’eroismo aviatorio. È una bella cittadina... Non butti via quel cestino. Servono molto i cestini per spedir la roba. In tempo di guerra tutto è buono...

La mia ironia assapora questo urto violento tra il cretinismo di una donna mediocre e la verbosità di un eroe nato per fare l’impiegato e proiettato in alto nelle battaglie aeree dalla guerra, questa miracolosa trasformatrice di valori umani.

A Bologna cambio treno. Nello scompartimento altro paesaggio umano:

Alla mia destra e davanti a me due commercianti ricchi fornitori di guerra.

Fingendo di sonnecchiare li ascolto.

Quello di faccia calvo, pancione dice:

— Che sole, al lido d’Albaro! Ci si sta bene. Come a Napoli. Pesce fresco. Abbiamo passato io e mia moglie una giornata divina.

La moglie che gli sta vicino, grassa impellicciata, quarantenne, vecchia luna, approva col vasto seno.

— Se un affare mi va bene, mi prenderò in affitto una villa per l’inverno prossimo. Non capisco come si possa, quando si può, preferire di passare l’inverno nel fetido nebbione milanese. Ora c’è molto lavoro. Io quest’anno per il lavoro non ho fatto la campagna.

Penso che per questi imboscati il fronte temibile è Milano con la nebbia per nemico.

Senza rancore, continuo ad ascoltare.

Il mio vicino di sinistra altro tipo di fornitore di guerra, trentenne, magro, racconta con solennità:

— Siamo stati su, in montagna, sopra Pontedecimo. Una signorina americana colla sua brava licenza di carrozza pubblica ci ha portato dappertutto. Come guidava bene! Abbiamo scovato così su, su, in un piccolo villaggio del burro in quantità! Ne ho un pezzo nella valigia. A proposito, tu non sai che il bel Luigi è morto! Non si sa più nulla di lui. Abbiamo fatto tutto per sapere se era prigioniero. È certamente morto. Se avesse voluto! Dopo la prima medaglia ha voluto partire ancora! Già non è stato mai un giovane capace e serio. Faceva il bel giovane. Eleganza e donne! Suo fratello sì, che ha guadagnato dei soldi! Sua sorella è stata veramente fortunata, ha sposato un milionario!

Il primo fornitore risponde malinconicamente come parlando a se stesso:

— Io ho 4 vagoni di caolino fermi a Modane. Dall’Inghilterra! Cosa vuoi, nella mia fabbrica di porcellana tutto carbone, esclusivamente carbone! Noi non abbiamo come voi aria compressa e ventilatori. Per raggiungere certe calorie tutto carbone. Senza di che si cuoce lì bene e male là. Colla porcellana è così!

Il secondo fornitore:

— È un anno che io aspetto 80.000 lampadine elettriche dall’Olanda!... Sono 35 anni che lavoro con Bianchi. Ci si sta bene, un personale d’oro.

Mi addormento mescolando nel mio sogno il personale d’oro veramente tutto d’oro massiccio fantasticamente aggredito da 80.000 lampadine elettriche che gli scoppiano sulla testa. Traverso in sogno la fabbrica di porcellana con le pazze calorie equatoriali. Valico montagne di burro e mi sveglio a Roma nell’oro ricco, rovente, dorato di un sole pacifista di burro sontuoso.

Nella folla scorgo il poeta Mario Carli, capitano degli arditi ferito, ora direttore di Roma Futurista. Ecco Balla, veloce, paglietta con nastro a colori dinamici, cravatta di celluloide tricolore.

Abbracci. Entusiasmo. Sopraggiunge un gruppo schiamazzante di giovanissimi futuristi quattordicenni tutti affannati dalla speranza di partire presto volontari, tutti irti d’odio contro le isradicabili spie, il governo languido ecc...

All’Hotel Flora, una lettera di Bianca che mi aspetta a Napoli e una di Maria che mi aspetta a Firenze.

La sera vado dalla Marchesa Casati che desidera essere accompagnata da me alla prima rappresentazione dei balli futuristi di Depero.

La Marchesa Casati è uno dei nostri più originali prodotti nazionali. Questa milanese geniale ha saputo per due anni di seguito battere clamorosamente in eleganza eccentrica e in sbalorditiva creazione di bizzarrie e snobismi tutto ciò che di più originale, elegante, eccentrico snobistico conteneva Parigi.

Essa rimane la prova vivente che l’Italia se vuole può domani vincere anche il primato della moda Parigina. La Marchesa Casati è inoltre appassionata conoscitrice d’arte futurista, la difende e l’impone nella società romana. Sono meriti importanti che io particolarmente apprezzavo mentre l’Italia si valorizzava integralmente al fronte.

Suono al cancello della sua villa in via Piemonte. Il campanello fa subito accendere laggiù in fondo al giardino buio il lampadario della scala esterna. Paaak. Ripercussione magica in un ambiente predisposto agli stupori. La porta s’apre: servo negro bello in frak elegantissimo. Nell’atrio un odore chiesastico. Forse incenso? No. Piante marine. Profumo dolce, acre, selvatico che accentua la bianchezza carnale d’una statua mutilata nella penombra. Sono nella biblioteca a fondo oro vecchio: le lampade non rischiarano che i tappeti. Questi imbavagliano le voci del palazzo. Entra il servo negro. Mi tende un vassoio con due cok-tails. Se fossi vagneriano penserei ai due filtri d’Isotta. Prendo il mio, bevo: cok-tail eccellente, non troppo forte, fantasioso, tonico.

Ho nel sangue un ritmo africano sincopato e la ribalta accecante d’un caffè concerto.

Il negro scompare con l’altro cok-tail, secondo filtro per Lei!

Pausa. L’atmosfera ha delle intenzioni speciali. La turbo camminando su e giù. I miei scarponi enormi con speroni sono felici di stonare fra le delicatezze sornione delle luci striscianti.

Con un lampo-slancio entra Swift il levriere bianco che veloce si corica in tondo nella poltrona bianca, profonda. Ritmo freddo polare di calme astrazioni filosofiche. Swift sembra un cordame bianco per frenare le probabili vele di questa casa che naviga nel sogno.

Swift sembra anche un salvagente bianco.

Una larga cadenza musicale di profumi e fruscii annunzia il terzo ritmo: la bella Marchesa!

Saggia pazzia danzante aerea. La sua mano stesa. La sua voce chiara. Giovialità. Allegrezza d’alba primaverile. La prima impressione di naturalezza infantile centuplica i valori estetici della figura alta, agile, tagliente e pur flessuosa, inguainata e pure libera nel mantello di Paquin crespo di Cina nero con bordo infiorato di oro vecchio.

Non le vedo il viso poichè le lampade illuminano soltanto i tappeti.

La Marchesa apre un poco il mantello per offrire alla luce i suoi pantaloni turchi Calot in broccato oro vecchio orlati di pizzi veneziani. Ripete più volte il gesto di tirar sul seno una fascia d’oro vecchio che conduce giù i miei sguardi agli scarpini turchi oro vecchio con fibbia nera e tacchi alti madreperlacei. Ma le due mani che portano e sembrano rincorrere ciascuna due perle enormi sfiorano la parete e fanno scaturire altre luci da altre lampade cosicchè appare la faccia pallida e felina, una faccia di tigre sbiancata da un chiaro di luna intrepido.

Grandi occhi neri, lenti che fissano un punto poi un altro con le pause di un proiettore. Ricordo il proiettore italiano che dal monte Corada fissava dopo il lungo nostro bombardamento le trincee austriache del Kuk travolte, sfondate, impaurite nell’attesa del nostro assalto. Qui l’assalto è dato dai cavalloni convulsi rossi dei capelli che le incorniciano la faccia.

Ma la Marchesa non vuole dar l’assalto a nessuno. Ride, scherza, parla d’arte e della rappresentazione dei balli futuristi che andremo a vedere. La voce fresca e senza trucchi musicali contrasta col dilagare a ruota, a spirali, a volute degli sguardi muti. Questi sono pure sguardi naturalissimi, non vogliono nulla, nè fingono nulla, ma le occhiaie vaste e fonde contengono una involontaria magia di cerchi azzurri che si svolgono all’infinito.

Certamente quegli sguardi potrebbero essere fatali ad un inesperto navigatore di mari femminili. Essi sprofonderebbero intorno le pareti per creare la penombra verdastra carica d’insetti lussuriosi e veleni profumati delle foreste native. La marchesa è una milanese bella intelligente e immaginosa che ha saputo crearsi un’atmosfera equatoriale, selvaggia, dolce e truce tragicallegrissima. Sudan imbellettato in automobile.

La bocca è bella, prominente, ma poco civile. Mascelle graziose ma forti, da belva onesta. Le dimostro che nessuna donna ha mai avuto una distanza così grande fra le nari apertissime, mobili e le labbra. Risponde con una risatina a scatti, assolutamente inadatta al senso delle parole:

— Conoscete il mio pappagallo dell’equatore che si chiama Bra-cadabrà?

Nell’angolo buio un arabesco bianco, giallo, verde appollaiato stride:

— Bracadabrà, Bracadabrà, Bracadabrà.

Il grido del pappagallo lega i colori delle sue penne al rosso dei capelli della marchesa al nero degli occhi e delle nari, al rosso sangue della bocca e alla cravatta di celluloide bianca, rossa, verde dell’amico Balla che entra cantando:

— Bracadabrà, Bracadabrà.

Prima d’uscire la marchesa s’infila al dito mignolo uno strano anello che bilancia sospeso a tre catenelle un microscopico incensiere con un granello d’incenso fumante. Traversiamo una sala popolata da tre assiemi plastici di Boccioni in rissa con dei dinamismi violacei di Russolo e dei cicloni gialli di Balla.

Usciamo. L’automobile è veloce. Roma notturna: ruderi presi a rasoiate bianche dalle lampade elettriche.

La sala del Teatro dei Piccoli contiene molte russe agitate, zazzere pittoriche, occhiali passatisti di professori, signore romane magnetizzate dai titoli e dal cosmopolitismo, futuristi impazienti, veleni critici in bottiglia con la relativa testa da morto sopra, tutto il neutralismo elegante che si infischia della guerra continuando a mendicare un sorriso e un invito dalla principessa tale, dalla duchessa tal altra. Balordaggine snobistica, falsa intellettualità, smorfie pro e contro il futurismo.

Sono seduto fra la marchesa Casati e la principessa di Bassiano, americana gioviale semplice e intelligente.

Il pittore Besnard, illustre passatista, contende alla marchesa Casati una parte della curiosità bisbigliante.

Il quadro dei selvaggi enormi fantocci di legno a colori e forme sintetiche impone il silenzio. Aurora africana con balzi di colori. I mormorii di stupore fanno pensare alla musica degli insetti sulle paludi tropicali. Si soffoca dal caldo. Questo è accentuato da un’enorme selvaggia rossa che s’avanza sulla scena. Ha un petto-ventre quadrato che subitamente spalanca due sportelli e partorisce una piccola marionetta.

I bambini nella sala schiamazzano dalla gioia. Interrogo i figli della signora Giordana. Rispondono con entusiasmo che quelle marionette sono le più belle, le più vere, le più vive. Ora danzano incalzate dalla musica futurista di Malipiero, stramba, rude, originalissima. Il conte di S. Martino che mi stringe la mano calorosamente dichiara ad alta voce:

— Il vostro Depero ha molto ingegno. Non dimenticate, Marinetti, che io sono un futurista della prima ora, non rimorchiato. Ho assistito a tutte le vostre manifestazioni e ho sempre pensato che l’ingegno originale è tutto nel vostro gruppo futurista.

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