XIX. LA VILLA DEVASTATA

A tavola i bollettini di guerra stupefacenti e i giornali colmi di vittorie passano di mano in mano sulla pasta asciutta. L’appetito lotta col cuore ebbro che sotto i tonfi delle notizie gioiose vorrebbe schizzare lagrime e singhiozzi felici. Cinquantamila prigionieri, 300 cannoni. Il colonnello Trivulzio annunzia:

— L’intero sistema difensivo del Grappa è caduto nelle nostre mani!

Uragano d’applausi. Un bersagliere ciclista scaraventa dalla gioia tutta la sua pastasciutta fumante in faccia del suo compagno. Questo ridendo calmo sornione, ingolla due bicchieroni di vino, poi ne riempie un terzo e pluff! doccia di rosso il suo assalitore.

— Io non mangio più, non ho più fame, dice Trivulzio; sono pieno come un otre di gioia pesante... Ho avuto le due gioie sognate! Prima: vendicare Caporetto. Seconda: finire malgrado la mia età la guerra, godendo la vittoria con l’animo d’un giovane! Andiamo a prendere il caffè al primo piano. Fra mezz’ora ordine di partenza.

Tutti in fila entriamo dalla signora Lucatich. Un tenente, bersagliere ciclista, ha portato con sè un piatto di carne che divora camminando. La padrona di casa, donnone biondastro, dal corpo liquefatto, straripante, ossequia in buon italiano. Ci presenta sua figlia, magrolina, bionda, slavata. Parla anch’essa molto bene in italiano correggendo così il carattere tedesco dell’interno: quattro oleografie di Siglinde, Sigmund, Sigfrid e Drago, Ondine ecc., a tinte rosse, azzurre, verdi, violente, stonate, antipatiche.

La signora Lucatich che versa in giro il caffè, ci minaccia colle sbrodolanti mammelle. Poi apre il pianoforte a coda. Subito un capitano dei bersaglieri s’impadronisce della tastiera come il canto si impadronisce della marina napoletana. Nerissima capigliatura impennata, pizzo nero, faccia di bersagliere di Lamarmora in una stampa del ’48. Il capitano canta: Me ne vogl’ì in America...

Il lamento nostalgico, patetico, lacerato della sua bella voce meridionale dilaga. Naufragano un istante le anime nostre irte e gli angoli duri dei nostri temperamenti.

Nella melodia soave, ironica, carezzevole, la voce si sviluppa delicatamente sale e s’intenerisce morendo, poi con vellutate violenze si scaglia in ondate impetuose su, su fino a delle note fulve, calde, sorridenti. L’eleganza imperiosa e maschia della voce domina, determina e precisa la passione. L’immaginazione nostra evoca il golfo napoletano nella sua carnalità lunare che completando la facile melodia forma un alto elastico vivo capolavoro del genio italiano.

Ma uno grida:

— Basta col sentimento! Suonami una cosa allegrissima pazza.

La signora Lucatich si avvicina al piano forte, vorrebbe consigliare. Il capitano scatena l’introduzione del Barbiere di Siviglia. Gioia generale. Io spacco una sedia, rovesciandomi indietro di scatto. Tutti in piedi, giro tondo intorno alla tavola. Pigliamo nel vortice la cameriera che abbracciata, palpata e rischizzante di braccia in braccia, mi mormora accennando alla padrona:

— Se la intendeva cogli austriaci!

Ma un accordo funereo e grave mi attira al pianoforte.

— Che cosa suona, signorina?

— Beethoven... Beethoven è più grande di Rossini.

Un urlo selvaggio.

— Ma cosa ne sa lei? Cosa ne sa lei? Rossini è smisurato! Abbasso Beethoven! Beethoven è morto quattro anni fa! Rinascerà se vorremo fra quindici giorni. Ora è ancora sepolto e Wagner pure con suo fratello Von Kluk, suo cugino Hindenburg e Ludendorf cretino quanto quel Sigfrid che è sulla parete. E lei, signorina, si convinca che l’Austria è morta e che non si festeggiano gli Italiani suonando Beethoven. Con tutto il rispetto che ho sempre dato al bel sesso, le dichiaro che lei è una cretina! Noi italiani di Vittorio Veneto possiamo finalmente strafotterci di Sigmund di Sigfrid e anche del Drago germanico! Così!

Strappai quattro quadri e sfondandoli a pedate li infilai sulla testa a quattro amici. Poi tutti giù per la scala dirigendo l’orchestra e cantando il «buona sera... buona sera...» del Barbiere di Siviglia.

L’ordine di partenza non venne. Il colonnello Trivulzio dovette sedare energicamente un principio di tumulto fra gli arditi che accalcati nelle strette gole di Serravalle erano impazienti di partire, battersi, inseguire. Gridavano al tradimento, si dichiaravano sacrificati ad altri reparti privilegiati.

Rimasi solo coll’amico capitano Franci di Pietralunga, incontrato la mattina e di cui constatavo una volta di più lo strano mutismo e l’ancor più strana melanconia. Lo strinsi di domande:

— Tu non sai, mi rispose dopo un po’ d’esitazione; la mia vita passata... Dolley è partita; sparita non si sa dove!... Qui a un chilometro da Vittorio c’è la nostra villa... Vi abbiamo vissuto tre anni, felici, felici d’amore, come in paradiso. La villa deve essere tutta devastata. Vorrei andare a vederla; ma non solo. Sono troppo triste. Vuoi accompagnarmi? In mezz’ora andiamo e torniamo.

La cosa non mi sorrideva, ma vidi due lagrime negli occhi di Franci e accettai.

C’informiamo. Siamo in libertà sino alle nove di sera. Via, a passo rapido, quasi di corsa.

— Questo sentiero è più breve, dice Franci. Quante volte l’ho percorso con lei... Ora è tutto allagato, ci infangheremo. Mi secca per te.

— Non importa, avanti, presto!... Dimmi, Franci, raccontami, quando ti lasciò?

— Dopo Caporetto è andata a Firenze. Mi ha scritto una lettera, l’ultima sua lettera, poi più nulla, nulla, nulla. Ho interrogato tutti i suoi parenti quando fui in licenza. Mi risposero vagamente che era partita per Londra. Ti ricordi l’ultima volta che sei venuto a trovarci? Avete parlato di Londra insieme tutto il tempo! Ecco la villa... Eccola!

Attraversiamo dei vigneti sconvolti e pestati dalle cannonate. Tra gli alberi, la facciata della villetta elegante appare quasi intatta, bianca, colle sue finestre aperte che bevono golosamente i raggi obliqui scarlatti del sole. Il muro del giardino è qua o là affumicato da cucine di soldati scomparse.

— Qui, mi hanno detto, sono stati accampati molto tempo i bosniaci.

I due battenti del cancello, scardinati, crollati l’uno sull’altro, pendono obliqui in fuori. Entriamo da una breccia del muro. Penombra verde, appestata da un odore acido e dolciastro di sterco, piscio di cavalli, legno bruciato. Franci mi prende la mano e me la stringe forte. Lo guardo: ha gli occhi gonfi di lagrime, ma si irrigidisce. Buchi di cannonate, gomitoli di sterpi, liane, rovi. Rotaie profonde di autocarri, matasse di reticolato e immondizie. La villa è realmente quasi intatta. Ha una ferita leggera di granata. Ne palpo le schegge cadute a terra. Il muro ha resistito. La porta è ingombra di rottami. Saltiamo dentro dalla finestra.

— Questa è la camera da letto, dice Franci, aggrappandosi a una poltrona.

Io avanzo nella penombra esplorando. Nel centro, quelle canaglie di bosniaci hanno fatto un fuoco con tutti i libri della libreria. Odore di cuoio cotto e di cavolo marcio: nauseante.

— Anche lì hanno acceso il fuoco, nel mezzo del tappeto persiano. Questa macchia sembra sangue, forse è vino. In cantina v’era molto champagne. L’impiantito è sfondato. Qui hanno vomitato sul letto! Porci! È un vero lago di fango, vino. Dio che orrore! Una vera cloaca!... Strano! Hanno rispettato l’armonium!

Mentre io esploro così ad alta voce questo luogo divenuto infame, Franci ha trovato in un armadio una piccola lampada a petrolio.

— Bizzarrie dei saccheggi! Come diavolo non hanno scovato questa lampada! dice Franci e l’accende.

Io apro l’armonium e appoggio le mani sulla tastiera provando il pedale. L’accordo funebre, tremante, lento, sfinito sale inondando il silenzio d’una amarezza disperata. Al terzo accordo mi fermo, poichè sento il mio amico singhiozzare dietro di me. Vado a sedermi vicino a lui e gli batto sulla spalla per confortarlo:

— Su coraggio, devi dimenticare, vieni via è meglio per te.

— Non posso dimenticarla, non posso. Vedi, malgrado il fetore, l’orrore di questa camera, io la sento qui, lì dietro. Dolley è nella villa! Verrà, verrà! Viene! Ecco il suo passo leggero, scivola con quelle piccole babbucce comprate insieme a Costantinopoli. Aveva una vestaglia di seta grigio-perla e le babbucce con tante perline... La sento. La vedo quasi. Se mi fermassi qui tutta la notte mi apparirebbe. Ne sono sicuro! Oh come piangerebbe a vedere tutti i suoi cari volumi bruciati! Lei così intelligente, fine! Ah! quei suoi profondi occhi! Talvolta... un po’ pazzi! Avevano d’un tratto dei riflessi duri. Un attimo. Ma l’azzurro si bagnava subito e ridevano, ridevano. Eppure mi amava, mi amava! Ha fatto mille pazzie per venirmi a trovare al fronte. Che lacerazione, i nostri distacchi! Ed ora finito, finito, per sempre finito! Dov’è dove è andata! Dove? Dove? Dove? Almeno sapere! Sapere qualche cosa. Chi ama? Con chi è?

La lampada si affievoliva, ma Franci non voleva alzarsi. Bruscamente preso dall’irruenza dei singhiozzi si mise a graffiarsi le mani con ferocia. La fatica di questi giorni di battaglia e il dolore scoppiato frustavano i nervi di quel povero corpo dilaniato. Non badai alle sue mani che annaspavano nell’aria. Afferrarono il tavolino che reggeva la lampada. Questa crollò, divampando. Il fuoco scivola col petrolio incendiando un ammasso di stracci. Il fuoco corre, si arrampica crepitando. Franci resta immobile, seduto. Io rimango pure immobile, seduto. Quando fu certo che il fuoco non si sarebbe più spento Franci mi disse:

— Ora andiamo!

Gli strinsi la mano e lo seguii dicendo:

— Sono d’accordo coi bosniaci e con te.

Annotta. Appena scavalcato il muricciolo vediamo un ufficiale a cavallo sul sentiero buio.

— Lo conosci? mi dice Franci.

— No. Ad ogni modo ci ha visti uscire dalla villa. Questo è seccante.

Noi fermi sull’attenti. È un generale. Dall’alto del suo cavallo ci interroga con furia brutale:

— Cosa facevano là dentro? Perchè si sono allontanati dai loro reparti? Non è il momento di curiosare nelle ville! Ignorano certamente il loro dovere di ufficiali! Se tutti gli ufficiali fanno come loro si perdono le battaglie! Vadano! Vadano! Vadano per Dio! Vadano presto ai loro accampamenti!

E il generale si allontanò dopo questa valanga di parole che non mi aveva concesso la minima risposta. Io rido fragorosamente. Franci irritato si meraviglia della serenità colla quale ho ascoltato quell’alto berretto insolente e maleducato.

— Evidentemente, caro Franci, tu ignori la meravigliosa teoria del giaguaro inventata da me. Tutti l’applicano efficacemente. La mia teoria del giaguaro è ormai popolare. Ti potrà essere utile. Te la spiego in due parole. Ogni volta che ti capita addosso uno di codesti burbanzosi superiori nevrastenici e rabbiosi, guardati bene dall’ascoltare le insolenze, minacce e bestiali interrogazioni sue. Fermo sull’attenti, osserva scientificamente il suo grugno inferocito e cerca di catalogare la belva fra le belve più pericolose di un serraglio. Silenziosamente o rivolgi a te stesso un discorso di questo genere: Bene! bene! Una vera fortuna, potere ammirare da vicino e senza gabbia il celebre Giaguaro del Bengala! Ah! non sapevo, questo giaguaro divora dunque diciotto ufficiali al giorno e sessantacinque soldati. Si nutre così in tempo di guerra. Dorme poco. Tre ore gli bastano per digerire tanta carne umana. In tempo di pace, mangia a colazione i suoi tre figli, sua zia, e anche sua moglie. Ma questa è assolutamente indigesta! Non la mastica mai abbastanza, cosicchè le ossa non assimilate della moglie gli schizzano fuori dalla fronte. Vedo, vedo, ciò gli serve d’altronde a tener su il berretto. Caro Franci, se applicherai sistematicamente la mia teoria del giaguaro, non ti farai mai del cattivo sangue.

Alle nove di sera si parte da Vittorio Veneto. Il comando non ha preveduto l’allagamento di una strada di campagna e c’incolonniamo, cavalleria e blindate, in un vero pantano. Nel buio ad un bivio, mi sento chiamare. Sporgendomi dalla mia blindata riconosco Franci a cavallo in testa al suo squadrone. Alto, elegante, muscoloso. Indovino più che vedo nel buio la sua faccia volta in alto che forse cerca fra le stelle quelle perdute per sempre.

— Buona sera, Marinetti! La strada che prendiamo rasenta la villetta.

Ci avviammo, ma dopo un chilometro eravamo impantanati fra filari di vigneti, rovine di case e campi allagati. Tutti i cavalieri appiedati, guidando per mano i cavalli che affondavano continuamente nella pece saponacea del terreno. Urti e scossoni infiniti, bestemmie, comandi non ascoltati, ingiurie, gomitate, calci di muli. Un cavallo s’impenna e resta preso colle zampe in un reticolato. Un mulo non si districa più dai filari. Un altro è crollato giù nel fosso profondo. Beve. Si gonfia d’acqua. Una corda! Occorrono delle corde per tirarlo fuori! Io supplico il capitano Raby di fermare la nostra squadriglia. Le ruote della mia blindata sono incastrate nella mota.

Rrrrrr di motore, tin zin zan zang di casse di cotture.... «Accidenti, fetente, mascalzone! Metti una corda sotto la pancia al mulo! Chi è quel porco che ci ha cacciati in quest’inferno? Sarà una carogna imboscata!».

Giù bestemmie nel flic-flac delle pozzanghere. Tutto si pigia, si urta, urla, capitombola e ingiuria nella notte buia che vuol perfezionare l’impantanamento con una sua pioggerella lenta lenta. S’inzuppa così di lagrime nere la villa piena di fascino tragico. Questo pantano forse non è che povera carne tumefatta intorno a quella ferita dolorante. Le blindate sono ferme, invischiate. A cento metri il lume di una fattoria. La svegliamo con grandi urli. Nell’impossibilità assoluta di ricevere e domandare ordini, il capitano decide di aspettare l’alba. I miei amici, temendo i pidocchi, dormono in blindata.

Io sono affranto e sfidando gli insetti accetto una strana ospitalità nel granaio della fattoria trasformato in dormitorio. Sembra quasi la camera nuziale di un sultano. Diciannove materassi occupano tutto l’impiantito. Sui diciotto occupati, diciotto donne, d’ogni età e d’ogni calibro. Nella penombra le vocine giovanili mi invitano.

— C’è un letto, uno solo, un materasso per lei, tenente! Siamo in diciotto donne; se non ha paura, venga pure!

Mi coricai. Ricominciava l’impantanamento, ma questo allegrissimo. Nessuno poteva dormire. Troppe pulci. Chiamiamole pulci! Troppi aliti. Non tutti primaverili! E c’erano i buoni profumi della carne giovane, ma anche alcuni puzzi che mi pugnalavano le nari di tanto in tanto. Molta allegria e i rubinetti della chiacchiera veneta tutti aperti. Una mi raccontava naso a naso tutte le canagliate austriache senza dimenticarne una. Forse mi addormentai per mezz’ora, due o tre volte. Mi scoteva, dovevo ascoltarla. Alla mia destra c’era una bella ragazzotta alquanto polputa. Indago. Esploro, ride. Incomincia il gioco del solletico. Nel buio le donne anziane sbuffano, discutono, complottano contro di me; ma le giovani mi difendono. Se qualcuna si ribella, le altre in coro: «Lascialo fare, lascialo fare, siamo tutti italiani! Evviva l’Italia!». Ad un tratto tre moraliste si slanciano su di me e tra il serio e il buffo mi tirano per le gambe. Tentano d’imbavagliarmi con un cuscino. Sarei disposto a far la fine di Desdemona, ma puzza troppo il cuscino. Mi libero con un pugno che disgraziatamente finisce in un occhio a un marmocchio.

Uhèèè! Uhèèè!

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