XX. LE FORZE DELLA GIOIA, DELLA PIETÀ E DELLA VENDETTA

Balzo in piedi, sveglio i compagni che dormono ognuno sul suo volante e subito con sforzo nel rombo bronchiale catarroso dei motori inferociti ci svincoliamo dal pantano. Via, via a grande velocità verso Polcenigo. La cavalleria non potrà così presto disimpegnarsi. Saremo soli, primi, anzi primissimi, nell’inseguimento dell’ala sinistra austriaca che si ripiega sul Tagliamento.

Menghini è al volante: muscoloso, ventenne, veneto begli occhi scuri intelligenti, faccia entusiasta di bambinone innamorato della vita. Adora le donne e il vino senza cedere loro nulla d’importante. Scherza sempre ma ripiglia a volo la sua allegria e le sue burle spensierate per identificarsi col volante e col motore, fusione perfetta. Mi piace perchè armato d’istinti sicurissimi. Guida come si nuota, coi suoi nervi ramificati e vibranti su tutta la superficie della macchina. Sa che la corazza della ruota di destra passerà esattamente a due centimetri da quel carro.

Menghini questa mattina è loquacissimo; la gioia della vittoria gonfia di calore inebriante il suo corpo giovanile. Lo ascolterei volentieri, ma temo gli straripamenti della sua immaginazione. Dobbiamo combattere ancora. Perciò calma e poche parole. Seduto alla sua sinistra, colla schiena presa nella cinghia-spalliera, mi sporgo di tanto in tanto dallo sportello di sinistra aperto per spiare l’alba che s’affretta.

Si leva il vento, non piove più.

Sprizzano qua e là le prime luci bianche quasi rosee, vorrebbero essere rosse, come le risatine frenate d’una educanda che indovina nel discorso severo della suora notturna l’immancabile annuncio del perdono e della dorata ricreazione ventosa. Vaste, morbide, fresche letizie di luci sugli orti e sui prati come guance d’angeli in Paradiso sognate dai dannati sotto i trapani dell’inferno.

Tengo la gamba destra allungata sull’invisibile acceleratore delle velocità spirituali, la gamba sinistra fuori dallo sportello di sinistra, piegata sul predellino.

I bersaglieri ciclisti del colonnello De Ambrosis ci raggiungono pedalando a destra e a sinistra.

Il cielo lavato sembra abbia pareti di maiolica. Il vento con gomitate e rabbuffi spazza via all’orizzonte l’ultima nuvola rossa-nera-avvinazzata poi passando leviga la vallata davanti a noi, purissima conca di smalto verde. Vasca tiepida per raffinatissimi piaceri di carni ignude.

Una voce di donna sale da un prato e dondola sopra di noi, morbida amaca. A sinistra rombi di cannonate lanciate a cavallo dei lontani monti trentini. A destra il profilo di una collina intrisa di sole s’immerletta di cavalleria.

Lentezza ieratica, estetismo professorale, solennità assurda di quel corteo medioevale che sembra cerchi dei castelli antichi. Uno svolto della strada mi permette di riconoscere il primo squadrone che scende seguendo la cresta di una seconda collina, in un quadro di Carpaccio. Rasenteremo fra poco il primo plotone. Ecco Franci! O almeno mi pare. Sì, è lui! Profilo elegante di bel cavaliere sul suo alto, magro irlandese da guerra. Ha la testa piegata indietro. Guarda il cielo. Offre, forse, la faccia disperata a una possibile palla pacificatrice. Sparisce. Quel corteo medioevale di cavalieri persiste nella mia mente come un gran fregio scultoreo sul frontone di un tempio, s’impolvera come un quadro nella penombra di un museo poi crolla al rombo della mia macchina futurista.

Ridono le cento e cento ruote veloci dei bersaglieri ciclisti. Grandi domeniche sportive delle democrazie, scodellate fuori dalla città in ciclismi violenti accaniti nutriti di polvere-sudore! Gioia popolare dell’aria aperta e dei polveroni solari fuori dalle città-prigioni-officine-caserme, lanciata ora verso litri di vino rosso da spaccare sulla testa del Cecchino bettoliere sotto pergole di granate esplodenti!

Furia schiamazzante di contadini romagnoli in biciclette all’assalto del prete pidocchio nero insradicabile da sradicare dal materasso delle città! Le osterie che sventagliavano nei crepuscoli le canzoni lunghissime trascinate, ubriache e ubriacanti di malinconia, sono spente. Questa più grande, un tempo affollatissima, porta come insegna il motto Invidia e crepa. Ha perduto il ritmo ansante del gioco della morra.

Cinq du sett vott tri

Ma si consola col: «Primo pezzo! fuoc!» della batteria che spara nel suo orto scaraventando a 6 mila metri zuffe di acciaio avvinazzato.

Il polverone è un eccitante lirico. I rasoi del vento gelato mi fanno la barba. La mia blindata canta i record mondiali dei motori + il lavoro di mille operai + ingegneri e ufficiali improvvisatori geniali + Perrone Ansaldo e Fiat in lotta + la gloria di Nazzaro velocità onnipresente + superiorità del genio italiano + praticità italiana + futurismo italiano.

— Ho verificato tutto, mi dice il sergente Locatelli dietro di me. Gli scaffali-nastri in ordine, sembrano una libreria. Nastri lucenti cassette di petardi tutto a posto. La cupola girevole funziona bene. Non un centimetro di spazio perduto. Il telo-tenda cinghiato nel fortino di poppa non ingombra.

Voltato a metà, controllo nastri, serbatoio, caricatori, ogni cosa amata, ogni cosa preziosa con l’affetto che mi lega a questa stupenda e veloce alcova d’acciaio.

— Guardi! mi dice Menghini.

Attraverso l’occhio orizzontale della macchina sotto la palpebra metallica un po’ alzata vedo sventolare sul cofano, a prua, il gagliardetto triangolare tricolore e il suo motto d’oro «Vincere o morire» scintillante nel primo raggio di sole. Zazà che dormiva in uno scaffale-nastri si sveglia.

Sporgendomi dallo sportello di sinistra guardo dietro di me la sua piccola testa intelligente che abbaia bevendo il verde-roseo vento della corsa nell’aurora. Ghiandusso in piedi sul serbatoio di benzina ha cacciato la testa nella botola osservatorio della cupola e grida:

— Come è bella l’Italia, signor tenente!

— È la prima volta che la vedi?

— Sì, signor tenente.

Valli, vallate, campi arati e praterie, tutto intorno a noi si imbeve di sole con una avidità verginale, s’imbeve d’un ardore italiano che certo sembra nuovo alla carne dell’uomo piena di tenebre schiave e alla fibra dei vegetali che non amano dare succhi allo straniero.

— Ascolti il motore come va bene, dice Menghini.

Rumore puro ritmato perfetto. È quasi un canto. Languido, languido vellutato, un po’ lamentoso per estrema dolcezza, quando il motore fa da freno in discesa. Ora si sale. Ne gioisce il motore e al suo rumore aggiunge flauti, clariiini, violiiini. Poi nitriiiti, nitriiiti di tutti i cavalli scalpitanti che contiene. L’armonia si completa col cigolio di tutte le costole d’acciaio. Vibrano, le giunture metalliche. Pare sul rrrrombo del motore il festante cicicicigolio di mille passeri giulivi che la blindatura imprigioni come una gabbia volante. Quei passeri d’acciaio vogliono gareggiare coi passeri sbarazzini che godono il verde della campagna intorno! Eppure ora non decifro più le origini di questo rumore confuso che certo ha per base il rumore del motore, tanto si è arricchito d’altri suoni ed è divenuto umano. Ampio rumore febbrile, dilagante, flebile e aspro che ora s’avventa, c’investe come una ondata.

— Polcenigo! grida Ghiandusso... tutti i borghesi corrono nella campagna, verso di noi! Donne, bambini... Quante donne!

Vivaaaa! Italiaaaaaa! Vivaaaaa!

Aaaaaaa!

Sento un tuffo di gioia brutale nel cuore che mi rimbalza in gola. Via, fèrmati, cuore mio, se non sei un cuore di donna! Il cuore sotto la morsa della volontà cede ma subito piange silenziosamente, quasi muore in un vasto lago di pianto.

Come frenare questa gioia cara tiepida soave che mi punge gli occhi? Gioia intrisa di pietà e di angoscia!

Vivaaaaaa! Italiaaaaa!

— Attento, Menghini, sorveglia la strada, non arrotare i bambini, per carità!

Ad ogni angolo di villaggio una folla colorata rorida di allegria solare. Braccia nude al cielo, fazzoletti al vento della corsa e fiori che sfiorano la blindata. Polcenigo, Castello d’Aviano e Villetta sono preziose miniature di villaggi disposti sopra una serie di colline verdi, basse, flessuose. La strada che li attraversa tutti va su e giù con grazia disinvolta, curve molli persuasive seguendo le ondulazioni musicali del paesaggio. La strada bianca ondeggia e freme come un immenso albero caduto sotto il peso dei suoi villaggi appollaiati a destra e a sinistra sui rami.

Vivaaa! Italiaaaaaa!

Siamo i primi italiani che liberano Villetta. La sorpresa è grande. La notizia rimbalza di casolare in casolare lontano lontano chilometri e chilometri collo scatto lungo infilzante dei primi raggi di questo sole. Corrono a perdifiato contadini e contadine. Mille grida tra i fienili e abbaiare di cani furenti come per una caccia. Corrono le vecchie. Quel mendicante con stampelle sembra un pellicano veloce. Pietà, pietà per quella vecchia trascinata a forza come un sacco dalla figlia scarmigliata che urla. Finestre sbatacchiate. Sono loro! Sono gli italiani! E giù per le scale. Ruzzoloni e ressa sulla soglia.

Vivaaa! Italiaaa! Benedeeeetti!

Dobbiamo rallentare. Tutta la popolazione è addosso. Passione passione che ci soffia sul viso come un forno acceso. Siepe di contadine, intrico di braccia alzate, mani striscianti sulla blindata e unghie che la graffiano con delirio affettuoso.

Bevo questo entusiasmo tragico e selvaggio. Cuore mio, fèrmati, se non sei un cuore di donna!

Io grido, forzando la voce per dominare il fragore:

— Grazie, grazie! Viva l’Italia! Abbiamo fretta, lasciateci passare!

Ma la messe gioconda di braccia e facce impetuose non cede, s’infittisce, vorrebbe fermarci, abbracciare, strangolare d’amore la blindata. I miei occhi pieni di lagrime che non riesco a domare ammirano per la prima volta il fantastico Giardino delle Gioie. Tutte le gioie della Terra e del Paradiso: Gioia di quella faccia di vecchio con le sue rughe finalmente distese, riposate stirate come dal massaggio di una contentezza assoluta. Gioia di quegli occhi verdi di bambina sedicenne che beve, beve colla bocca e sui denti brillanti la pioggia continua delle lagrime. Gioia della madre che mescola il suo pianto al pianto del suo pupo rosso. Anch’esso sgrana gli occhi davanti al dolce sovrumano, sognato nella culla della fame invernale. Gioia di quella faccia maschia che si apre ancora tutta tôrta, spremuta dalle mani dell’accanita nera Lavandaia! E i cani ispirati che si arrampicano a leccarmi le mani. Zazà si slancia con invidia e li morde. E quel vecchio dal viso come venuto di lontano, dissepolto. Mi guarda dal fondo nebbioso del suo anno di dolore che attendeva. Ha le spalle affrante cadute giù, le braccia aperte come le madonne, le mani morte sorto il peso della gioia di piombo!

Cristo, Rabbi vestito di miracoli e di pazzia benefica, Tu che hai mutato in vino l’acqua delle giarre e moltiplicato i pani e i pesci nel convito dell’amico tuo, Cristo, Cristo, tu che hai bevuto a larghi sorsi la gratitudine delle folli guarite, guarda guarda il giardino stupendo delle Gioie sovrumane che abbiamo creato! Certo tu c’invidii, noi liberatori di città! Devi, devi invidiarci! Sento che devi invidiarci!

Hai mai veduto simile fioritura di gioia?

Non l’acqua, ma il fiele, il fango e la bile avevamo, e tutto mutiamo in roseti! Per noi, con noi, il Sole liquefa i suoi raggi in sovrabbondanti capigliature di liquido fuoco sulle campagne beate. Tonde reti di raggi. Guizzano, si slanciano, mille corridori felici: corrono, corrono incontro a noi, Erba felice che si mescola di gioia ai capelli ricciuti dei bimbi nei capitomboli d’oro. Capelli foglie mani palpebre di gioia! Agili arbusti vibranti come quella bambina pazza di gioia alla terrazza. E ciglia lunghe imbrillantate dalla linfa d’amore che sale dal centro della terra a dissetare le città arse dal Dolore:

— Largo, largo, vi prego lasciateci passare, lasciateci passare, abbiamo fretta di prendere quelle canaglie!

— Sì, sì signor tenente, ma vi potete fermare. Si sono trincerati sull’altra sponda del Cellina. Sono partiti di qui ieri sera... Sono sul Cellina, li ha visti mio marito.

Menghini fa rombare il motore e si apre un varco. Via, via a tutta velocità fra le penne di gallo e le facce scintillanti di sudore dei bersaglieri ciclisti che ci hanno raggiunto. Rrrrombi, rrrombi burbanzosi dei motori fra il zin zin zin zin delle biciclette tascapani e baionette sbatacchiate.

— Massacrateli, massacrateli tutti, grida una donna coi pugni tesi.

— Vivaaaaaa Italiaaaa!

Fuori dal paese sui globi rotolanti del polverone dorato una visione ci magnetizza. È una chiesuola, un’umile chiesuola sopra un poggio che domina la strada, ma è bagnata d’una luce spiritica estatica, lunare e solare insieme, una luce d’eclisse o di terremoto. Realmente vediamo, vediamo realmente la chiesuola presentare le armi con tutte le croci e tutte le lapidi del suo piccolo cimitero arrampicate in fila lungo il muricciolo, metalli arruginiti e marmi antichi, così raggianti di gioia al sole da sembrare nuovi e un po’ ebbri di sfarzosa novità!

Aviano ci ha sentiti venire e prima ancora di scorgere laggiù il profilo del campanile e delle case sghimbesce vediamo la strada coprirsi del suo popolo accorrente.

— Benedeeeetti! Benedeeeetti gl’Italiaaaani! gl’Italiaaaani!

Entriamo nel paese in un frastuono assordante quasi sospesi sulle ondate del popolo. Il capitano Raby mi sorpassa facendosi largo colla sua vetturetta e col braccio alzato ordina di fermarci. Rifornirsi di benzina e ripulire i motori. Io scendo. Preso, trascinato via dalla folla agitata affannosa che non dà tregua, insiste, vuole, interroga, racconta, racconta, racconta. Le donne mi opprimono.

— Hanno portato via tutto tutto, tutto! Le campane! anche i parafulmini! e dicevano: Abbiamo comprato tutto il Friuli e tutto il Veneto dai vostri Generali. Non vi lasceremo che gli occhi per piangere... Oh! gli ultimi 3 giorni, signor tenente, che strazio!... Gli ufficiali hanno ordinato ai soldati di portare via tutto. Requisizioni di giorno e di notte. Sì, anche la notte. Hanno puntato la baionetta sul cuore di mia mamma! Hanno preso tutto rame, bestiame, grano, urlavano: O ghent o caput! o denaro o morte! Muss, muss vuol dire: per forza! Noi li chiamiamo muss quelle canaglie... Se sapesse! un anno, un anno... Fingere ogni giorno, per non morire! Ma dentro c’era l’odio, quanto odio, signor tenente! Il prete è stato buono con noi. Aveva molto coraggio. Io gli dicevo in confessione: Sono colpevole di avere molto odiato. E lui: «Chi hai odiato?» Rispondevo: «Gli austriaci» «Oh allora» mi diceva don Luigi, «allora è inutile che continui la confessione, sei perdonata di tutti gli altri peccati...» Quelle canaglie volevano prendere le ragazze. Hanno tentato, i primi giorni. Un pomeriggio i prati tutti intorno erano pieni di urli di donne violentate!

— Sì al sole, al sole, ho visto io, dice un vecchio balbettante. — Uno teneva le gambe aperte della ragazza e l’altro si metteva sopra. Ma mia figlia non l’hanno toccata. Ringrazio la Madonna. Gli ha strappato coi denti un baffo, a quel porco che l’abbracciava... Per un mese il colonnello mi ha rifiutato la sporca razione di grano e di pane nero!

— Sono io, io che gli ho portato via il baffo coi denti! Erano tanto brutti, tutti. Colle lenzuola rubate facevano vestiti bianchi per ufficiali... Colle lenzuola di grossa tela ruvida facevano le scarpe! Sembravano Arlecchini! E le donne, le loro donne, li aiutavano nelle requisizioni. Tutte puttane con la fascia d’infermiera. Ce ne sono ancora tre!

— No, sono sei, bisogna massacrarle! Le pianterò gli spilloni negli occhi. Dicono che sono triestine, ma sono slave o austriache, bestiacce!

È una forte friulana bruna che parla così, grandi occhi azzurri nel viso sensuale infuocato dall’ira. Mi tira per il braccio. Sono in un fiume di popolo esasperato, pieno di rancori che scoppiano in moralismi esagerati. Intuisco anche basse invidie camuffate di patriottismo e sento l’urgenza d’incivilire, frenare questa massa pericolosa.

— Ecco la casa di una di quelle puttane!

Mi volto di scatto e con un gesto rude impongo alla folla delle donne di fermarsi. Riesco a contenerle sulla soglia ed entro col tenente Cenami chiudendo dietro di me la porta.

Al primo piano in un cucinone pulito troviamo una slava piangente impaurita che si precipita ai miei piedi. La rialzo e battendole sulla spalla dolcemente la tranquillizzo. Viso banale, pallidissimo, piccoli occhi celesti e capelli biondo sporco, tirati sulla nuca. È di Lubiana. Ha una camicetta di velluto a righe gialle e nere, grembiule nero e gonna verde. Mi racconta in cattivo italiano che è stata dimenticata ad Aviano dal fidanzato ufficiale austriaco.

Le domando che cosa succeda a Lubiana. Mi risponde che a Lubiana si odiano gli Ungheresi, ma non si amano neanche i Serbi.

Nel cucinone entra un’altra donna che spiava dalla camera vicina. Si precipita anch’essa a baciarmi le mani, in ginocchio. È una falsa magra, agile, audace, bocca carnosa, bellissimi denti, grandi occhi neri lucenti. Corpo senza pudore, sessualità insolente, il caratteristico marchio del bordello, malgrado l’accuratezza seria del vestito.

— Io sono friulana, signor tenente, sono italiana. Nel paese dicono che sono slava, non è vero. Mio nonno era di Aviano. Ho ospitato questa povera diavola, per carità.

— Non è vero, non è vero, urla la folla nella strada. Non ascolti, signor tenente. Sono puttane, tutte e due! Bisogna massacrarle, sventrarle!

— Non credo che tu sia friulana. Tu sei senza dubbio o ungherese o austriaca. Parli troppo male l’italiano. Ad ogni modo niente paura, noi non siamo dei barbari come i tuoi fratelli.

Esco sul balconcino e mi sporgo verso la folla che ormai è diventata enorme. Tutti urlano, gridano, agitano le braccia, tendono i pugni, si mordono le dita. Risento e rivedo nel cielo sfolgorante le tonde forme di nuvole d’oro massiccio irte di raggi della spaventosa Forza cosmica, la Vendetta.

— No! no! italiani, non gridate morte! La morte ha già lavorato abbastanza! Gridate Vittoria! Non è degno di un popolo civile come il nostro, il massacrare delle donne!

— Non sono donne; puttane, puttane, puttane! A morte! Morte! urla la folla.— Sono venute con gli austriaci a rubare tutto nelle case nostre. Facevano la spia! Spie! Ci hanno sputato sul viso, hanno sputato sul nome d’Italia!

— Lo so, lo so. Sono convinto che sono delle luride prostitute. Siete italiani e perciò non potete mentire! Ma come italiani non saprete certo colpire dei vinti. Sono femmine cioè deboli e senza difesa! Noi ufficiali italiani, non rubiamo il mestiere agli austriaci. Queste due austriache scontano oggi le loro colpe nel vedere la nostra bandiera sventolare su Aviano e nell’apprendere da me, da questa bocca e da questi polmoni, l’irrimediabile sconfitta dell’Austria. L’esercito dei loro fratelli, padri, sposi o amanti è stato da noi sconfitto per sempre. Italiani! Noi ufficiali che abbiamo avuto l’onore di entrare per primi in Aviano, vi ordiniamo di non toccare un solo capello di queste due donne. Andate, e festeggiate con canti di gioia la liberazione di Aviano.

Un urlo feroce salutò il mio discorso. Ma gli applausi scroscianti dei bersaglieri ciclisti e dei miei soldati si propagarono, e lentamente, con gesti minacciosi e borbottamenti, la folla si staccò ringhiando, dalla piccola casa mentre io consegnavo le due donne atterrite e spettrali a due bersaglieri ciclisti nerboruti.

— Conducetele indietro con gli altri prigionieri austriaci. Se la folla le tocca, io vi denuncio al Tribunale di guerra. Capito?

Quel salvataggio mi costò un cicchetto dal mio capitano che mi cercava.

— Vieni con me.

Partiamo in bicicletta. Il capitano mi annuncia che la 12ª squadriglia è stata massacrata a cannonate a 3 chilometri da qui, nella brughiera di Santa Foca. L’angoscia accelera la nostra corsa. Vasta pianura sconfinata, senza alberi. Desolatissimo paesaggio spagnuolo. Quando giungiamo a S. Foca non troviamo nessuno da soccorrere. I contadini stanno seppellendo i cadaveri in tre vaste fosse. I feriti sono già stati trasportati in autocarro. Oltrepassiamo un sipario di alberelli fronzuti e vediamo le tre blindate piegate sul fianco destro sull’orlo destro della strada, in fila, a 20 metri l’una dall’altra. Tutte e tre sventrate. La terza incendiata. Ha dei colori rossicci e canarino. Il cofano sembra masticato da mascelle titaniche. Fuma ancora. Odore di panno cotto nell’olio e di carne arrostita. Comprendiamo l’errore del comandante che in un terreno scoperto non ha distanziato le blindate in marcia offrendo così un facile bersaglio al fuoco d’infilata dei cannoni mascherati dal sipario d’alberi di Santa Foca.

Nulla da fare. Uno sguardo affettuoso alle fosse, e raggiungiamo pedalando l’8ª squadriglia sull’ultimo tronco di strada che scende nella ghiaia del Cellina.

Letto smisurato di fiume torrentizio con tre filoni d’acqua. Non siamo più in Italia, neanche in Spagna, forse in America. Desolazione, monotonia di linee tristi. Dune africane. Alla nostra destra gli alti pali telegrafici, soli segni di civiltà, misurano con precisione nel deserto del letto asciutto le distanze nebbiose. La loro geometria metallica da disegno d’ingegneria taglia le piumose sofficità delle lontananze grige, affamatissime di sprofondarsi ancor più lontano, calamitando i nostri pensieri e i nostri sguardi. Non scorgo nulla sull’altra riva.

Sulla nostra appare l’automobile del Conte di Torino comandante della cavalleria. Snellezza elegante aristocratica. Dentoni gialli di vecchio cavallo di razza, sorriso ironico nelle gote di viveur.

— È impossibile, capitano. Vede? il mio autocarro arenato. Se non passano gli autocarri vuoti come vuol fare lei a passare con le blindate?

Noi passeremo lo stesso, lo sento. Il Conte di Torino non ha la mia sensibilità divinatrice. Questa guerra cominciata col lento rosicchiare d’un terreno conquistato a palmo a palmo tenendo ogni metro con la lunghezza di un cadavere, deve finire per un prevedibile capriccio delle Forze in una velocità aggressiva di 10 giorni. Le Forze della Fortuna amano sorprendere, rovesciare tutte le previsioni, distruggendo ogni logica. Bisogna come me dare una fede ottimistica illimitata e un credito assoluto alla Fortuna. Questa vuole ad un tratto avere tutto l’infinito da respirare, per riempire tutto di prodigio.

Davanti a questo guado che non può fermarci sento la Fortuna in alto respirare, respirare a pieni polmoni. Vuole la Fortuna divertirsi con una generosità di doni sempre più stupefacente.

Se l’Italia si è insanguinata la bocca e i denti nell’addentare il Carso, dura pagnotta, ora riceverà nella bocca aperta tutti i pani enormi e bianchi e divini del suo sogno. Cuore mio, apriti, apriti per ricevere la smisurata gioia.

Lo potrai?

— Ci sono! ci sono! Trincerati sulla cresta! mi dice un tenente dei bersaglieri ciclisti che iniziano il passaggio del primo filone d’acqua.

Molti bersaglieri muscolosamente portano in alto, sulla testa, la bicicletta. Alla nostra sinistra il ponte della ferrovia è spaccato in due pezzi crollati giù neri nel secondo filo d’acqua azzurro. Il primo guado è difficile. Ho l’acqua alla pancia mentre spingo il culo della mia blindata che si siede ogni tanto, ringhia con tutta la rabbia del motore, si disimpantana per sei metri, poi di nuovo si siede. Ma la liberiamo. Salto dentro e si corre per un chilometro serpeggiante di strada sabbiosa nel letto infinito del Cellina.

Ogni blindata coi suoi uomini che la reggono nello sforzo, coll’acqua ai ginocchi o alla pancia, col viso grondante sudore e i piedi gelati. A destra e a sinistra due lunghi cortei di bersaglieri ciclisti in fila indiana. Strani arabeschi molli formati di innumerevoli ruote e arruffii di penne di gallo sul letto ghiaioso grigiastro del fiume. Quei due lunghi formicolii di bersaglieri evocano l’esercito di Napoleone sul letto gelato della Beresina nelle celebri stampe.

Top, top, top, top. Il crik! No! no! la binda! Presto un pezzo di legno. Ora colla corda, un nodo forte. Issaaa oooh. Issaaa oooh! State dietro alla macchina. Forza alla corda! Tien fermo il legno sotto la binda! Imballa il motore, per Dio, imballa! Rrrr forza! Rrrrrrr Fooorza! Personalità del motore, umano, patriottico che vuole, vuole vincere la resistenza aggrapparsi, sollevarsi fuori dalle rotaie di fango saponaceo. Il motore suda sbuffa. Fumo acre del suo sudore. Rrrrr Rrrrrrr.

Fra le gambe gelate il morbido serico sssss frusciare dell’acqua coi glugluglu got gatt glan.

— Un badile! No! no! la pala! Togli le pietre dal parafango sotto la ruota! Rrrrr! Accidenti non vuol venire! Su forza, un gran sforzo insieme!

Subitamente pam pam pam scoppia la fucileria sulla cresta a 300 metri. I primi bersaglieri sono già appiattati e sparano dietro le loro biciclette coricate mentre i due cortei d’altri elmetti piumati e biciclette continuano con calma a passare.

— Forza, ragazzi! Forza che andiamo su a mitragliarli. Niente paura. Tirano male, troppo alto!

Le trecce dell’acqua sembrano cavi metallici. Strappano le mie gambe gelate. Sento sulle ginocchia le zampine tremanti gelatissime della mia Zazà che ritta mi implora di prenderla in braccio. Me la metto come un pacco sotto il braccio sinistro meentre la mia blindata con un gran colpo di reni balza rrrrombando, rrrrombando fuori dall’acqua. Tutta fangosa; ma la cupola porta superbamente il fascione tricolore coi lunghi becchi irritati delle due mitragliatrici che si muovono a fiutare il nemico.

— Tutti in macchina presto! e pronti a sparare!

A 100 metri la mia prima mitragliatrice spara, screstando colle sue pallottole l’orlo della trincea in collina, tutta vampe, scoppi e pennacchietti di polvere e fumo. A destra al di là degli Austriaci un grande aaaaa! Sono i bersaglieri che li prendono alle spalle. Mi volto di scatto e fermo Locatelli che spara. Ta ta ta ta ta ta. — Feeerma! — Gli echi ampi e golosi del letto smisurato giocano a palla volubilmente col rumore della fucileria che ingoiano e sputano liquefacendo gli ultimi pim pam pam pac pam. Una colonna di prigionieri scende incontro a noi e ritraversa il fiume. La salutiamo in coro con un ilare: Austria caput, Austria caput! Poi ci slanciamo sulla strada. A una svolta da una parte e dall’altra della strada due grandi roghi di fieno incendiato con spirali altissime di scintille salgono su, su ad arrostire le nuvole rosse scorticate vive come agnelli, infilzate dai lunghissimi schidoni del zingaresco sole al tramonto.

— Via, via Menghini, dentro, tra le fiamme!

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