XVIII. LA VITTORIA

— Chi vuol venire con me in esplorazione notturna?» domanda il capitano Raby.

— Pronti! Seconda sezione!— rispondiamo io e il tenente Bosca.

Il capitano sale nella blindata di Bosca e parte. Io perdo un minuto a bere un po’ di caffè che mi versa il cuoco Caroli dall’alto dell’autocarro dei viveri. Poi in macchina. Il motore non prende. Parto con un piccolo ritardo. Ma ho lo stomaco a posto. Ho messo al volante Fatutto. Eccellente meccanico e volantista, ma cade dal sonno. Sono ormai tre notti che non si dorme. Corriamo. Comprendo che il pericolo questa notte è eccezionale, poichè di pattuglia ci si va a piedi e non a tutta velocità senza lumi sugli arabeschi di una strada sconosciuta. Questa è certamente la prima esplorazione di blindate in pattuglia notturna. Sbarro gli occhi sul nastro perlaceo della strada crepuscolare che l’ombra degli alberi sfrangia deforma e corrompe. Ad un tratto non vedo più la macchia nera della blindata che mi precede. Sono le nove. La strada gira ad arco. Il volantista non lo prevede, ed ecco a destra giù la mia macchina piega. Accidenti! Sempre più nel fosso giù, giù. Rovesciamo! Catastrofe! Griiing, Griiing, griiing craacraaac di rami. Plaaaf di fango.

La mia 74 si è coricata nel fosso. Non è profondo per fortuna. Saremmo ridotti in marmellata! Benchè imbottite di cartucce, cassette, mitragliatrici e spigoli d’ogni genere, le blindate nel rovesciarsi salvano spesso ciò che contengono.

Con voce fredda tagliente raccomando la calma perchè gli uomini uscendo salvino se si può l’ordine interno. Vana illusione. Tutti i nastri di cartucce, casse, cassette sono crollati. Una lacerazione non profonda sul cranio. Il mitragliere Salis ha la faccia insanguinata. Ferite non gravi. Ci penseremo dopo. Si tratta di rimettere sulle ruote la 74. Spero, spero, spero che il motore non abbia danni seri. Buio. Lancio un uomo sulla strada per avvertire la blindata di Bosca. Certo si sarà accorta di non essere più seguita e si ferma. I miei uomini intanto svegliano le poche case abitate di Bibano. Candele accese alle finestre. Le donne sono le più leste. Una contadina arriva correndo. Interroga, colla voce rotta d’angoscia. Ho acceso una torcia: la contadina è giovane, bella ma d’un pallore affamato. Le regalo una scatola di conserva.

— Va subito a chiamare tuo padre, tuo fratello, tutti gli uomini. Ho bisogno di leve, rami di albero; niente zappe. Le abbiamo!

Accendiamo altre torce senza curarci della fucileria austriaca che brontola sulla destra, molto lontano. Sono senza dubbio le retroguardie austriache che cedono alla terza armata sul Piave verso Fagarè. Tutti al lavoro. Bisogna scavare l’orlo della strada per sollevare la blindata su terreno piano. Zin-zin-zin di zappe febbrili accanite. In un’ora tutto deve essere finito. Menghini visita il motore e grida dalla gioia:

— È sano, è sano, è completamente sano!

Arriva il capitano, bestemmia contro Fatutto che certo dormiva al volante. Poi distribuisce il lavoro zappando anche lui.

Contadini e contadine con leve e rami d’alberi.

Io riordino il materiale sparso. Sulla destra la fucileria austriaca rumoreggia. Spengiamo due torce. Si lavora quasi a lume di naso. Con le leve e colle binde la mia 74 si solleva lentamente. È tutta fangosa, ma intatta. Mi ricordo finalmente della mia ferita. Fasciato, ho l’aria di avere una infiammazione ai denti. Non posso sopportare l’elmetto. Tutti dicono: Se tu avessi avuto l’elmetto sarebbe stato meglio.

— Tutto a posto?

— Tutto a posto.

All’improvviso la blindata del tenente Cenami che mi segue a 100 metri di distanza s’incendia. Alt. Il suo motore è in fiamme. Subito, tutti allo spegnimento. Sbatacchiamento arruffio, di panni, braccia, coperte, mani che lavorano sul fuoco che guizza, si scatena, si rizza, agonizza, divampa, sparisce, torna, scoppia, lingueggia su tutti i punti. Soffocato non muore; rosso, viola, blu rinasce. Accidenti! non gettate terra sul motore! Iratissimo il capitano, perde la calma. L’attendente di Bosca un pugliese forte e audace che si chiama Siciliano e sembra un vero Arabo si è coricato sotto il motore. Il fuoco è domato.

Sembra il destino di questa pattuglia di blindate di avanzare con fragori e incendi. Certo, gli austriaci ci hanno scorto. Rallentiamo. Devono essere molto vicino. Una luce. Si veglia in quella fattoria. Una contadina quarantenne gioviale dice:

— Mezz’ora fa sono passati due battaglioni austriaci! La loro trincea è a 500 metri.

Si spegne tutto, aspettando le altre blindate. Nel buio la donna parla:

— Non ho nulla da darvi, cari figlioli di Dio. Niente vino, niente polenta. Hanno portato via tutto. Ieri qui, c’è stato una grande confusione. Due divisioni boeme si sono ammutinate. Lì fuori, andate a vedere, sotto gli alberi ci sono due boemi impiccati.

Fuori, con un cerino acceso, scopriamo i due corpi sospesi. Tipico arricciamento delle braccia sotto la corda rallentata un poco. Uno ha la testa volta all’insù verso il fogliame e gli occhi aperti ma senza la solita ferocia spaventata. Sembrano guardare distrattamente degli uccelli. I due impiccati portano sul petto una tabella che denuncia in tedesco il loro tradimento. Rientriamo.

— I germanici sono i più prepotenti, continua la donna nel buio. Quando un germanico dà un ceffone a un debole se questo lo riceve senza renderlo ne riceverà due, tre, quattro, senza fine. Se invece questo risponde con due ceffoni al primo, il germanico li piglia e se ne va. Il Germanico non rispetta che la forza violenta. Molti prigionieri nostri fuggivano dai germanici per farsi fare prigionieri dagli austriaci. Gli ungheresi sono però i più crudeli. In fondo, tutti predoni e briganti. Un esercito di ladri. Hanno portato via tutto, tutto!

Quando ripartiamo fa ancora buio. Lentamente, cercando di diminuire il rumore dei motori. Ma gli austriaci vegliano e subito la fucileria scoppia. Siamo bersagliati da una casa, tutta vampe nelle sue finestre e nel folto del suo giardino. La mia blindata risponde per la prima colla mitragliatrice in cupola:

— Con calma, adagio! Locatelli, punta bene una delle finestre.

Ta ta ta ta ta ta ta ta ta ta ta ta ta ta ta ta ta.

— Hanno un cannoncino! Punta bene, Locatelli! Guarda la strada. Fatutto! Come va il motore?

— Bene, signor Tenente.

A sessanta metri dalla casa. La blindata di Bosca, venti metri dietro la mia, spara anch’essa con due mitragliatrici. Ciò mi dispiace perchè siamo troppo vicini, e offriamo un grande bersaglio. Le nostre tre mitragliatrici funzionano puntate su 3 finestre diverse che agonizzano. Ammutolite.

Gli austriaci sparano ancora dal folto del giardino.

Raby grida:

— Giù tutti! Cessate il fuoco! Coi moschetti! Prendi i petardi! Tutti insieme dentro il giardino!

Mi slancio. Nello scavalcare il muricciolo sento bestemmiare Siciliano che tempesta col calcio del moschetto due austriaci in un boschetto. Si arrendono. Siciliano viene avanti spingendoli a pugni e a calci.

— Ne ho acciuffati due. Gli altri si sono squagliati.

Nella cucina bolle un infernale cazzottio fra le ombre nere e le boccacce rosse del focolare. Fragore di pentole. Una trentina di prigionieri con una mitragliatrice. Entrano nel giardino pattuglie d’arditi fez neri, scamiciati, con altri prigionieri.

Incolonniamo le prede e le rimandiamo indietro. Intanto la fucileria si accende a ventaglio colle prime luci dell’alba che scioglie gli incubi dei prati.

Partiamo veloci, lasciando sulla sinistra un battaglione di fanteria che conquista un grande prato in fondo al quale una cortina d’alberi sputa maledettamente pallottole. È l’ala dell’esercito austriaco che si ripiega per difendere Vittorio Veneto. Accanita. Ora si aggiungono tre mitragliatrici che rallentano l’avanzata della nostra fanteria. Noi filiamo sulla strada, per girare al largo di questa estrema difesa, e giungere in Vittorio Veneto.

Due ore dopo vi entriamo con venti autocarri rigurgitanti di arditi fez neri. Impetuoso scamiciamento, fucili branditi da braccia pazze, bocche squarciate dal canto, lazzi feroci di gioia barbarica nel polverone incandescente, fiocchi neri al vento, bandiere nere che spazzano gli alberi sotto il sole che pomposamente si spacca in cannonate arroventando l’aria. Beviamo nella corsa un simun africano saporito di allegria infantile. La polvere calda sulle labbra è lo zucchero della vittoria. Rimbalzano in aria i cuori nostri gareggiando in splendore, furore e rotondità trionfali con le nuvole tronfie e ricche d’oro che vorrebbero certo metallizzarsi per combattere anch’esse e schiacciare il nemico. Belle nuvole di Vittorio Veneto, gonfiate da tutti gli aliti italiani dove eravate, donde venute? Vi lodo di aver perduto nel vento le belle curve flessuose femminili per assumere soltanto le forme aggressive impennate e gli spigoli infilzanti!

Questa nuvola a destra soffia getti di lava d’oro fra i suoi mille baffi accecanti, il suo irto pelame variegato e la sua coda altissima di tigre d’argento. Altre nuvole come spazzole di bragia rigovernano accanitamente quel nuvolone-cavallo dalle troppe zampe correnti come i primi cavalli dinamici dei pittori futuristi. Un’altra nuvoletta agile di nickel fila, fila verso il mare come una torpediniera grondante di liquido azzurro per raggiungere forse la squadra italiana. Sul mare, sul mare, certo, anche sul mare, ora l’Italia vince. Ma sulla testa un’altra bella nuvola di vittoria. Mi sporgo fuori dalla blindata per ammirarla. È un cerchio, un grande cerchio d’oro massiccio dipinto di rozzi pomi vermigli. Degna corona del vincitore Caviglia che, scopati i vecchi piani strategici, seppe mediante le sue spie volanti in aeroplano sui notturni accampamenti, scoprire il punto debole del nemico e colpirlo nell’immenso scacchiere, mortalmente. L’esercito Austriaco ferito nella saldatura delle due sue armate del Grappa e del Piave, cade a pezzi. Pezzi potenti, armatissimi, ancora disciplinati, che cercano di sfuggire agli inevitabili accerchiamenti.

Nella città di Vittorio Veneto c’è festa e battaglia. Canti di gioia, fucileria rabbiosa, facce in lagrime, pioggia di fiori, inseguimenti al galoppo nei giardini e su per le scale, pugilati e strangolamenti di difensori nei fossati. La città ci riceve a finestre spalancate. Quel balcone rigurgita di donne. Le grida prolungano le capigliature. Capriole di scugnizzi nel fango, fra le pazze motociclette che scimmiottano aizzano le mitragliatrici.

Grondano le facce degli arditi che s’arrampicano sulle terrazze. E anche sui tegoli rossi dei tetti. Colle corde tirano su una mitragliatrice. Puntata. Contro quel quartiere laggiù dove i bosniaci resistono. Entro in una vasta piazza colla mia 74. Tutte le donne scarmigliate intorno alle ruote. «Accidenti alle donne! Via! Via! Sarete colpite!» Ma poco importa! Se ne infischia questa giovane che spara col moschetto da un portone contro il fondo del cortile.

Spara, poi si slancia dentro. Tumulto grigio verde. Braccia nude e capelli al vento. La gioconda chiacchiera veneta pettegola colla mia mitragliatrice che bersaglia un caseggiato zeppo di bosniaci e prostitute austriache. Vittorio Veneto ne conteneva circa un migliaio, di quelle donne d’ogni classe camuffate da Crocerossine, felici di servire a tutti gli usi e istinti dell’esercito austriaco pur di mangiare, ciò che era diventato difficile in Austria. Avevano collaborato coi soldati nelle ciniche requisizioni ed erano odiatissime.

«Quelle vacche, quelle vacche! bisogna massacrarle! Mi dia un fucile per carità, signor tenente, mi dia un fucile! Ci vado io e le sgozzo, le sgozzo!»

— Perchè un borghese spari così sui soldati, bisogna che sia inferocito dalla vendetta! sentenzia Ghiandusso.

Altre donne accorrono, mi baciano le mani, mi stringono i fianchi, tentano di portarmi via il revolver. Delle bionde sedicenni gracili e gentili sembrano forsennate.

La Vendetta, Forza gigantesca irta di baionette, pugnali, spilloni, unghie di donne, rotola nell’aria tiepida profumata dei giardini.

La Vendetta, Forza elementare cocciuta sintetica, nutrita da milioni di rancori covati. Il padre maltrattato e schiaffeggiato. La sorella incinta buttata giù dal letto per rubarne le lenzuola. Il vecchio beffeggiato. La vacca, l’unica vacca rimasta per il latte ai bambini, rubata. Il colonnello austriaco che baciò per forza mia sorella! Bisognava cedere e subire quel corpo schifoso perchè la mamma non morisse di fame. E i buoi, il rame, la biancheria, tutto rubato. I mobili, tutti portati via da quei ladri, ladri, ladri! La Vendetta rotola nel cielo con i volumi mostruosi di quelle nuvole irte di raggi acutissimi brucianti, che penetrano nelle ossa, facendone sprizzare lagrime di fuoco.

Ricordo, ricordo che in me, nei miei soldati e in tutte le facce nere polverose degli arditi la Vendetta penetrava, imbeveva di sè ogni fibra, scatenava i muscoli, unghiava le labbra, gli occhi le orecchie.

Vento caldo di ferocia era l’alito diabolico di questa divinità tremenda: la Vendetta! Vendicare un anno di soprusi, saccheggi, prepotenze e crudeltà! E quei famosi bollettini spavaldi e imbecilli dello Stato Maggiore germanico dopo Caporetto! Come dimenticarli? Sentivo, sentivo, in me gli insulti atroci alla mia razza bella, intelligente, lirica, geniale, pronta a tutte le generosità, bontà, cortesie, e così mal ripagata da quei bruti smargiassi! Bruciano, bruciano ancora le ingiurie di quella soldatesca ingorda e balorda. In nome di quale giustizia mille volte più che divina posso io dimenticare? Io non sono San Francesco. Sono un futurista italiano, più umano d’ogni essere umano, e civilizzatissimo. Ma la bestia immonda, merita la lezione, una spaventosa definitiva lezione. Nel cielo di Vittorio Veneto rotola la Vendetta coi suoi abbacinanti volumi di nuvole tonde irte di raggi acutissimi. Viaggia con lei un’altra Forza vestita di sciarpe eleganti di nuvole rosee che schioccano ed è la divina Allegria italianissima, con morbide frange di dolcezza. Questa spensierata vorrebbe avvolgere rinfrescare l’impetuoso corpo aereo tropicale della Vendetta. Con mille moine delle sue carezze e sorrisi, frange di piume volubili, la Forza dell’Allegria spruzza di rosa le ombrie tiepide dei giardini, risveglia i sapori delle frutta autunnali e cuoce i profumi dei nascituri fiori primaverili che le fanciulle porteranno nei capelli obliosi, coi fidanzati, quando la guerra sarà dimenticata e il nemico perdonato poichè vinto. Ma la Vendetta urge, preme dall’alto, urlando con le mille bocche delle donne:

— Massacrarle, massacrarle bisogna! Quelle puttane!... Erano tutte d’accordo con loro! D’accordo con quelle canaglie! Volevano che andassimo a letto col colonnello! Dov’è il colonnello? dov’è il colonnello Sweiger? Se lo trovo, gli mangio il cuore! Sì, signor Tenente, glielo mangio io!

Intanto si sentiva dovunque come la respirazione vasta di un mare, ed era la respirazione della Vittoria che invadeva le strade colmando ogni essere vivo, uomo, donna, fanciulli, altrettanti vasi capaci straripanti in lagrime e risate di gioia. Tutti vi si abbandonavano, tutti. Ma per brevi istanti, poichè la Forza della Vendetta ritorna, implacabile, affamata! La vedo, la sento piombare in un gorgo di donne con un grido, una parola. Il gorgo diventa frenetico. A calci a pugni le false crocerossine Austriache sono trascinate in mezzo alla piazza.

Sinistro tafferuglio. Le donne vogliono strappare agli arditi la preda. Un colosso bosniaco crolla, la faccia revolverata: orrenda spugna rossa.

La fucileria cede, cede alla periferia della città. I comandi prendono il sopravvento. Io libero i bosniaci prigionieri, faccio sgombrare la piazza e di nuovo in blindata per le strade della città. Continua nel mio cuore il tumulto d’una rissa dolorosa fra due mie anime.

L’anima umana sensibile e visionaria che tutto comprende, prevede immagina, perdona, riassume in uno spasimo d’angoscia tutti i dolori dei vinti, discernendo fra le colpe dei capi e le brutalità meccaniche dei greggi, lotta ora furiosamente contro la seconda Anima selvaggia sanguigna, negra sorella della ferocia generale, e legata alla massacrante Vendetta aerea. Questa non è ancora sazia!

Giù nel quartiere di Serravalle vociare e confusione. Gli arditi si precipitano in un portone. Li raggiungiamo troppo tardi.

Quando entro tre bosniaci sono a terra sventrati. Non mi pento d’essere arrivato in ritardo poichè vedo nello loro tre mani destre tre enormi mazze ferrate.

— Buon giorno, Marinetti, mi dice il colonnello Trivulzio, con la pipa in bocca. Non compiangete quelle belve e guardate!

Lo seguo in un camerone dove contro il muro sono attaccate in bell’ordine migliaia e migliaia di mazze ferrate.

— Vi sono altre tre camere piene come questa. Basta per ora. Usciamo! V’invito a colazione. Prenderemo il caffè in una strana famiglia mezzo austriaca, tutta smorfie e baci per noi. Divertentissimo. Venite.

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