XVII. DUELLO FRA CAVIGLIA E LA PIOGGIA

— Su, Ghiandusso, non fare l’imbecille. Sei ubriaco da far schifo. Non ho bisogno di te in questo momento; farò io.

Ghiandusso si allontana barcollando, col sergente Locatelli. Hanno bevuto in due un’intera bottiglia di grappa rubata alla padrona della fattoria. La certezza dell’offensiva, la speranza di rivedere la sua bella terra friulana hanno sconvolto dalla gioia Ghiandusso. Ho dovuto fare la mia cassetta da me ed ora sto disponendo con cura i petardi nell’interno della mia 74, illuminato di luce elettrica.

Massimo ordine e massima comodità. Tutti i nastri di cartucce lucenti e precisi. Tutte le pistole di riserva per gli uomini e per me. Tutti i petardi. Passato il Piave, ci lanceremo alla punta estrema dell’esercito col pericolo di essere accerchiati e di cadere in imboscate. Se le mitragliatrici si incepperanno ce la caveremo coi petardi. Siano molti e tutti a posto. Ho concesso poco spazio al vestiario e alle vettovaglie. Non avremo tempo di cambiarci e le nostre bocche si arrangeranno alla meglio. Poche scatole di marmellata, ecco tutto. L’interno della mia blindata 74 mi appare lucente, ricco di riflessi dorati, modernissimo come l’interno d’una alcova per piaceri sani, giocondi e felici. Alcova d’acciaio per grandi amori futuristi.

Alba augurale del 15 ottobre. Partiamo dalla fattoria Barchessa. La nostra colonna di blindate e autocarri si ferma a Dolo. Locatelli calmo dorme in fondo dietro di me. Ghiandusso chiacchiera come una grondaia. Il vino e i liquori gli fanno male. Ha un piccolo viso raggomitolato, verdastro e gli occhi tristi.

Piove. Il cielo è una lugubre inondazione nella quale sembrano beccheggiare i barconi che passano alti sui vagoni interminabilmente. Un motociclista arriva con scoppi, balzi e scia schizzante. Si ferma per domandare la strada. Col suo gabbano grondante, sembra un palombaro. Dice:

— A Milano i neutralisti e i preti hanno cercato di fare la rivoluzione con un allarme di campane in piena notte annunciando l’armistizio e la pace. Speravano di salvare l’Austria. Non la salveranno. Ora tutto è a posto. A Mestre ci sono 86 milioni di cartucce per fucili e mitragliatrici.

Alle 5 del mattino sotto la pioggia torrenziale, alt a Sanbuchè. Secondo alt a Zero Bianco. Ripartiamo colla brigata Lupi di Toscana. Gli ufficiali raccontano: «Uno dei nostri soldati fu fatto prigioniero dagli austriaci. Cinque giorni dopo abbiamo visto arrivar giù sul Brenta una zattera con sopra un cadavere: era il prigioniero inchiodato. Inchiodato vivo, lo si capiva, poichè la faccia aveva le contrazioni tipiche degli annegati. Sul ventre una tela portava scritte queste parole: «Vi rendiamo il vostro lupo». E gli ufficiali concludono salutandoci: «Quelle vigliacche carogne la pagheranno!».

E vanno coi loro fanti che ridono sotto la pioggia. Il nostro fante è affiatato colla pioggia, glorioso impasto di grigio-verde bagnato bestemmie cicche, peli di barba, pidocchi, capelli polverosi, sguardi di buon cane, risata furba, verruche, sudore, fango, l’innamorata e piccirilli, signor tenente, l’ultima m’è nata... tengo la fotografia... e la pagnotta.

Filiamo avanti coi bersaglieri ciclisti. Sembrano scolari in vacanza, benchè pedalino in ordine perfetto. Correndo nella penombra dei villaggi chiudono fra due file di ruote veloci polli, anatre, oche. Il ciclista in testa le arrota, quello che segue si china e con la mano destra pesca la preda morta. Se il secondo non l’acchiappa, il terzo, il quarto, sempre con gesto distratto, ma rapidamente, la ghermisce e via, via così, con polli, anatre e oche che spariscono nel tascapane.

Il 24 ottobre arriviamo a Paese. Villaggio banale con alto campanile, osservatorio incolume sulla strada, la piazza e le case imbottite e rigurgitanti di truppe. Colloco la mia branda in una stanzuccia che ha nel centro dell’impiantito un gran buco e ne salgono nitriti impazienti di cavalli, fiati caldi che aggravano la temperatura di densa angoscia. Piove. Atmosfera d’uragano prossimo, lontano, errante. I cani soffiano e s’agitano nervosamente nel sonno. Tutte le forze del cielo e della terra sono tese. Nuove forze si aggiungono a quelle già concentrate. Rrrrrr di autocarri innumerevoli. Tatatata di motociclette. Crrrrrr sssssss di carreggio e truppe in marcia. Questa è veramente una notte che cammina.

La notte cammina con le sue migliaia, migliaia e migliaia di ruote, gomme, zoccoli, scarpe. La terra è pigiata, masticata dalle masse di volontà umane tutte personali, originalissime e pur guidate dai fili collegati alla centrale elettrica di un pensiero unico. Ho saputo che Caviglia ha il comando dell’8ª armata, forte imbrigliatore elettrico che guiderà gli italiani elettrizzati d’odio-vendetta-patriottismo al di là del Piave. Ho fiducia.

Rrrrr, di autocarri. Tatatata di motociclette. Crrrr sss di carreggio e truppe in marcia.

Si distingue ora fra questi rumori ormai diventati il tessuto stesso dell’atmosfera, un bombardamento continuo lontano. L’offensiva è già cominciata sul Grappa. Va bene, ma trova una resistenza strana. Tutti parlano dei segni evidenti di sfasciamento nell’interno dell’Austria, ma l’esercito è più che mai in piedi: costruzione antica, cementata da una disciplina feroce. Disciplina divinizzata. La disciplina per gli Austriaci è una religione. Ufficiali e comandi formano una casta sacra di sacerdoti della guerra. I soldati non si battono per l’Austria, ma per l’Imperatore capo dell’esercito, e si fanno ammazzare per la Dea Disciplina.

All’alba il fragore del bombardamento lontano cresce. La battaglia sul Grappa infuria. Mi alzo e guardo il cielo come si squadra un manometro. Non piove ma ha piovuto e ripioverà. Le nuvole imperano, dispongono, minacciano. Il Piave è già pieno e quegli otri di pioggia sospesi sul destino dell’Italia diventano tragici. Il capitano Raby mi ordina di recarmi da Caviglia perchè io possa ottenere ciò che noi desideriamo ansiosamente: passare il Piave in testa alla cavalleria.

Il capitano Raby è turbato. Stanotte al comando della divisione di cavalleria che ha per ufficio un autocarro fra le case bombardate Raby ha avuto come risposta alla sua domanda di ordini: «I ponti non portano che 30 quintali. Lei, capitano, tenga ferma la sua squadriglia, e m’incolonni il carreggio della divisione.»

Strabiliante, imbecille, disonorante. Parto subito. Le strade ingombre mi ritardano. Giungo verso le 6 alla villetta del comando dell’8ª armata.

Viavai di ufficiali, precisi, che in silenzio entrano, escono. Questo a cavallo. Quello in motocicletta. Altri in biciclette sguinzagliate a ventaglio. Pure a ventaglio si sentono partire le forze della volontà centrale per i fasci di fili telefonici meticolosamente sorvegliati e controllati dai guardafili che corrono per la campagna. Quando entro nel giardino della villa il cielo è tutto sgombro, limpido, fresco, propizio. Ma quella nuvolaglia, che copre il ribollimento di cannonate tuun tuun tuun tuun tuun sul Grappa a destra, non è fumo come speravo. Ecco si stacca dal Grappa, annerendosi, invadendo di nuovo il cielo con un programma di pioggia per questa notte. Ma c’è del vento nell’alto. Un vento patriottico che combatte le nuvole e forse le vincerà. Il cielo mutevole addensa le nuvole e poi le soffia via intenerendosi al tramonto sulla divina bellezza d’Italia in pericolo.

Giunge un motociclista grondante, infangatissimo. Riconosco un amico, tenente di collegamento. Viene dal Grappa. Mi racconta la mischia vittoriosa, accanitissima in una nebbia fitta. Dice che il comandante del 9º reparto d’assalto, maggiore Messe, ha fatto cose fantastiche.

— Una nebbia che forse non si è mai vista neanche a Londra. Brutta lotta, quasi nel buio. Giorno e notte... tatatatatata. Si sentivano le mitragliatrici da tutte le parti... Gli arditi gridavano: Messe! Messe! Messe! Di qua, signor maggiore! Fiamme nere, a me! Giù, giù, con le bombe! Poi, via! Al galoppo, nella nebbia... Mettete le maschere, le maschere! tutti, le maschere! No! no! Nooo! è nebbia. Ad un tratto la nebbia si squarcia. Presto qui, una mitragliatrice! Una mitrigliatriiiiice! E un ardito arriva portandola sulle spalle... Ecco ecco, signor maggiore! L’ardito ansimante si butta colla pancia nel fango, e sopra la sua schiena la macchina rabbiosa sobbalza sparando.

Tttatatatata. Gira, gira, a ventaglio. Gli austriaci cadevano, ma che noia quella nebbia, e che paura di colpire i nostri! Ad un tratto il tenente De Giovanni, un colosso, appare su un cocuzzolo a destra. La nebbia era diminuita e si vedeva le pallottole delle mitragliatrici austriache che facevano la barba al cocuzzolo... Aaaaaaaa! Il tenente De Giovanni cade fulminato. Quattro arditi si slanciano per portarlo giù. Tre sono uccisi. Il terzo vicino a me sputa un groomf! e cade. Tre li rimpiazzano. In quell’istante il reparto del maggiore Messe era come ingabbiato in un doppio fuoco di artiglieria. Fuoco di sbarramento sulle prime linee, fuoco di sbarramento dietro di noi. Accidenti! siamo ingabbiati. Tutti gridano: Messe! Messe! Messe! Il maggiore è dappertutto. Corre, si slancia, rianima, controlla ogni faccia nella nebbia fitta. Grida: qui, qui la mitragliatrice, non là! Non sparate lì, sono dei nostri! Sono dei nostri! Arruffio, confusione, velocità in tutti i sensi. Il reparto sembra diventato un corpo con mille braccia, mani, dita fra le matasse e i gomitoli di nebbia. Uomini ora appiattati, ora balzanti per riformar la linea, riconoscersi, strangolare i nuclei di nemici invadenti. Sopra di noi passavano dei veloci scenari di nebbia fittissima che svelavano nascondevano Grappa, Asolone, Col Moschin...

«Cretino!... non sparare! sono i nostri...!» «Lo so» risponde un tenente, «Signor maggiore, guardi sulla quota 3.000. È perduta»; poi grida «Aaaaiiii...» e cade con la coscia gonfiata come un pneumatico rosso da una palla esplosiva. Tatatatatata due arditi, la faccia nel fango, sussultano sotto due mitragliatrici ben puntate. Si sente, si capisce che gli austriaci sono lì che salgono. Ma non si vede a 20, a 10, a 3 metri. «Accidenti, urla Messe! Non sono Austriaci, sono i nostri! Cessate il fuoco!... I petardi! i petardi! qua i petardi! Tutti curvi col petardo nel pugno! Senza copiglia! Tenetelo alto! Non inciampate! Venite con me! Avanti! Ecco, quelle ombre sono assolutamente austriaci! Aspettate a tirare! A 30 metri! Aspettate! Gggiù! Patatamm traaac paaam paaaam.

«Messe non ha più petardi. Ora spara col moschetto. Un ardito vicino gli dà i caricatori notando i colpi precisi del maggiore: uno, due, tre quattro, cinque. Messe riceve, carica, spara, accoppa, puntando sul costone a 30 metri. Poi nebbia, nebbia, nebbia, geometria di forme nella nebbia. Non ci si vide più. Ma gli austriaci erano ributtati nella vallata».

Il tenente di collegamento ha narrato con un entusiasmo affannato mentre aspetta l’ordine di entrare da Caviglia. Si forma un crocchio di ufficiali. Tutti parlano di sua santità il Piave che dirige la battaglia. Il fiume è il polso del nostro destino. Il cannoneggiamento sul Grappa è accanitissimo. Ma la sicurezza regna intorno all’anima potente, fredda di Caviglia che si sente lì nella camera vicina. Il generale mi accoglie col suo sorriso bonario e passeggiando ascolta la mia richiesta poi dice con calma: «È naturale, le blindate in testa alla cavalleria, appena passato il Piave per l’inseguimento. Provvederò».

Segue un silenzio, dopo di che Caviglia la cui statura sembra altissima dominatrice come le cime gelate radiose e serene soggiunge:

— Tutti devono avere la mia sicurezza e il mio ottimismo. Il Piave non accenna a dimagrare. Mantiene da 24 ore la velocità di 2 metri e 50. Questo esclude passerelle e ponti... Ho consultato tutti i grafici del Piave, e mi sono detto: Da che mondo è mondo le piene del Piave in autunno non hanno mai durato più di 3 giorni. È mai possibile che proprio oggi, quando si gioca tutto l’avvenire dell’Italia, il Piave faccia lo scherzo di ingrossare oltre misura? Sento che ciò non è possibile. Ne sono sicuro. Gli austriaci d’altra parte offrono una resistenza formidabile sul Grappa. Vuol dire che non hanno capito il mio piano. Più resistono sul Grappa e meglio li prenderò tutti in trappola!

Fuori ritrovai il centro del cielo pulito benchè minacciato a destra dalla nuvolaglia.

Cielo di carta patinata lievemente azzurrina con sfumature e velature dorate. Orgogliosamente vi si slancia una squadriglia di aeroplani italiani. Sembra un forte, intenso e fortunoso sette di quadri che elastico viaggi verso l’asse di cuori rosso del Sole al tramonto. Si gioca volubilmente così nel cielo fra le mani disinvolte del vento la suprema partita dell’Italia. Spumeggiano d’oro tre nuvoloni ritti, perpendicolari, bottiglie di cosmico sciampagna già sturate che non potranno innaffiare che la vittoria nostra. Nelle mani folleggianti del vento italiano l’areoplanico sette di quadri vibra nero veloce preciso, geometrico.

Mangerà, deve mangiare il ricco asso di cuori. Sole al tramonto! Partita emozionante. Mille mille e mille facce al cielo. Altri areoplani Italiani fanno intorno ai giocatori maffie di valzer, moine e capriole, pattinano sul cielo levigatissimo, si preparano a beffeggiare, come usano, in tondo, la loro probabile vittima nemica.

Nel raggiungere a tutta velocità la mia squadriglia penso che l’audace volontà di vincere è una forza che si proietta fuori dai muscoli con slanci e potenza enormi. Ogni soldato oggi è carico di questa volontà, cosicchè si proietteranno questa notte e domani fuor da due o trecentomila corpi umani, più di trecentomila volontà capaci di plasmare, scopare, trasformare nuvole fiumi e masse nemiche. Queste volontà per raggiungere il loro slancio massimo non devono essere troppo fiduciose nè spavalde. Occorre una preparazione sommaria, poichè le lunghe preparazioni meticolose diventano in certo modo una poltrona profonda offerta alla Fortuna. Poltrona che la Fortuna brutalmente rifiuta.

Dopo pochi chilometri il cielo si è richiuso. Questa tragica realtà mi afferra alla gola. Penso alla calma meravigliosa di Caviglia e al suo piano che intuisco. Dopo aver gettato tutti i ponti, circa 70, lanciare 22 divisioni contro Vittorio Veneto, aprendosi poi a ventaglio a destra per far cadere tutta la difesa austriaca del Piave, e a sinistra per accerchiare il Grappa. Piano degno d’un uomo di genio, assolutamente originale poichè esclude imprevedutamente il vecchio piano tanto discusso e quasi irrealizzabile di sfondare il Grappa per poi traversare il Piave. Caviglia pensò: nè a sinistra, nè a destra; ma al centro dopo aver fatto una forte azione dimostrativa sul Grappa.

Il piano però esige la collaborazione del fiume, e purtroppo questo cielo nero è inesauribile. Sento la materia del mio cuore trasformarsi, metalizzarsi, in un ottimismo d’acciaio. Sopra vi oscilla la vecchia sensibilità lirica un po’ femminile troppo vibrante. La riconosco con dispetto nel commuovermi quasi alle lagrime al pensiero della straordinaria vittoria che potrebbe sfuggirci, mentre guardo un fox-terrier devotamente affannato dietro al cavallo del suo padrone capitano.

La mia squadriglia è ferma al bivio Povegliano-Nervesa. Al lume di una lanterna davanti ai soldati riuniti leggo l’ordine del giorno di Caviglia:

«Ai comandanti di corpo d’armata, agli ufficiali, alle truppe tutte dell’armata, sento il dovere di chiedere di mantenere il loro animo all’altezza della situazione.

«Tutto il popolo italiano guarda in questo momento a noi, cui sono affidate in quest’ora le sorti della Patria. La storia dell’Italia futura, forse per un secolo, dipenderà dalla fermezza e dal fervore di cui saranno capaci nelle prossime 24 ore gli animi nostri.

«L’ora delle supreme decisioni si approssima. Se noi avremo saputo mantenerci all’altezza di quest’ora, la fortuna e la gloria d’Italia saranno assicurati.

«È necessario che stanotte tutti i ponti siano novamente gettati. È necessario che il maggior numero possibile di unità passino sulla sponda sinistra del fiume. È necessario infine che le truppe che si trovano oltre Piave, attacchino violentemente, tendano con ogni ardore al raggiungimento degli obbiettivi prefissi.

«È l’Italia che l’ordina. Noi dobbiamo ubbidire.»

I soldati non applaudono. Rimangono seri, ma ansiosissimi. Che cosa si aspetta? Sappiamo che dovremo passare il Piave alle Grave di Papadopoli. Perchè dunque rimanere vicino a Nervesa? La pioggia è cessata. Il vento il divino vento favorevole sale con sbuffi impetuosi impacchettando le nuvole e cacciandole alla rinfusa verso il mare. Vento benedetto che noi salutiamo con baci e deliziosi tremiti nella gola!

Pronto e sagace, il sole lancia raggi dovunque, moltiplicando gli specchi rossi dei vetri, rimbalzando biondo sui volumi della vegetazione, preoccupatissimo di rischiarare tutto, pulire e ripulire ogni cosa. Non si deve forse tutti marciare al più presto, con ordine aggressivo? Sole affaccendato che vuole liberare le ruote dei cannoni dal fango, oliare le mitragliatrici e i fucili, trasformarsi in benzina nei carburatori, cuori bollenti aggiunti agli altri bollentissimi.

Più della metà dei ponti buttati questa notte resistono. Quelli delle Grave di Papadopoli cioè i nostri sono stati travolti. Ma questa sera saranno in piedi. Ce lo annunciano con occhi giocondi soddisfatti e fieri i pontieri che ritornano dal Piave. Pontieri colossi che i gabbani antipritici blu rendono quasi monumentali. Camminano oscillando, come marinai disabituati dalla terra ferma. Hanno sotto il braccio la pagnotta spaccata, masticano avidamente e gli occhi ridono con orgoglio ingenuo infantile. Tutti li circondano. Sembrano corridori dopo una gara difficile vinta. Passo pesante. Portano il peso dell’immane sforzo compiuto nel buio gelato crivellato dalle mitragliatrici, fra i lacci, le tenaglie della corrente lugubre che voleva scardinare, strappare, sbottigliare i pali, travolgere le botti.

— Le barche, dice uno, ballavano come scodelle nelle mani di un ubriaco. Il Piave era ubriaco, pazzo, questa notte. Ma ora è vinto; cede. Abbiamo lavorato bene, questa notte. Tutto passa davanti a Nervesa. Al ponte della Priula, quelle carogne resistono.

E i pontieri si allontanano trascinando i piedoni mostruosi.

Il cannoneggiamento è un rombo continuo. E noi che facciamo? Con questa tortura lacerante dolce, amara, nella gola, ci sentiamo simili ai mendicanti invernali ai vetri di una ricca trattoria quando all’ora del pranzo fervono tintinnano le gioconde stoviglie e filano i piatti fumanti. Fossimo sulla tavola anche noi! Anche come cibi esplosivi fra le mani dell’ultimo cameriere! O in cucina nella vampa dei fornelli! S’avanza una prima colonna di prigionieri austriaci. Poi tre feriti nostri. Uno di loro, ardito, napoletano, fatto prigioniero riuscì a liberarsi. Racconta in napoletano la mischia clownesca, grottesca, a cazzotti, calci, lazzi, burle.

— Sono passato sulla prima passerella. Poi fra le erbacce nel fango sono scivolato in un buco!... Bombe a mano da tutte le parti. Strisciavo. Ho perso il pugnale. In tre mi hanno preso alle spalle. Io gridavo: fetenti! fetenti! fetenti! Mentre mi portavano via. Attraverso la pioggia i proiettili dei nostri 75 fischiavano come i siluri nel golfo di Napoli: Ptoo! fiiiisc... Pto! Pto! Pto! fiiii. D’un colpo un mio compagno di Napoli ha tirato un petardo in mezzo a noi. Le carogne che mi tenevano sono morte, io ferito alla faccia. Non è grave. Mi sembrava di essere a Santa Lucia quando le femmine fanno le liti e ci sono li fuochi artificiali.

I nostri Draken-ballon si sono spostati. Si annoiavano nella camera della Patria. Ora splendono e parlano in alto come enormi pappagalli gialli nel sole sulla finestra aperta del Piave.

Piomba l’ordine di partire per le Grave di Papadopoli. In tre minuti tutto a posto, tutto in ordine. Sentiamo la gioia liquida circolare nelle vene.

Ma la lentezza sulle strade ingombre di soldati in marcia ci esaspera. Stare al volante colla cura dovuta al motore e alla strada e sentire in sè mille anime sconosciute svincolarsi, premere fra le coste del petto per slanciarsi in avanti! Cala la notte sotto un cielo limpido, ma gelato. Ad ogni chilometro, alt, ingombro. Scendiamo e mentre le mani nostre tese sul fuoco si slegano, sentiamo premere sulle nostre schiene un alito misterioso e rovente, l’alito fortunoso della Patria che ci spinge con milioni di volontà italiane al di là del fiume. Sono volontà Italiane che da tutti i punti della penisola si slanciano affollandosi ed ora cantano, urlano nelle boscaglie fluviali. Sono anch’esse ansiose di varcare le acque. L’alito possente della Patria tessuto di milioni di anime lontane venute dalla Sardegna, dalla Sicilia, dall’Egitto, dall’Argentina, dal Brasile rinvigorisce ora le mitragliatrici che sul greto si moltiplicano intrecciando i loro brillanti arpeggi ta ta ta ta ta ta. Rimbalzante fluidissima scorrevolezza di centomila pianoforti sotto dita di pianisti, forse quei pianisti italiani cinquantenni che a Rio Janeiro o a Buenos-Aires suonano, suonano in concerti patriottici con passione e genio, facendo sparare mille armonie come noi spariamo contro la riva nemica (pianoforte da sfondare!) di questo Piave che si dà delle arie di Fiume Americano.

Il comando della cavalleria ha deciso di non lasciarci in testa. Ce ne accorgiamo da molti ordini e contrordini. Si dice che i primi ponti sono deboli, non sopporteranno il peso delle blindate. Vado ad accertarmene col capitano Raby a piedi, curvi nell’intrico fangoso delle erbe. L’alba, pallida e fredda, si spacca qua e là in blocchi rosei d’aurora come colpita dal cannoneggiamento della 3ª armata che alla nostra destra incomincia a buttare i suoi ponti. Il fiume ha qui circa tre chilometri di larghezza. Noi dobbiamo seguire però un nastro tortuoso di strada per traversarlo. Circa 8 chilometri di ghiaia, guadi a fondo solido e ponti. Il Piave sembra qui un immenso estuario.

Tenendoci curvi poichè il fogliame delle piante è su di noi falciato dalle pallottole, interroghiamo un sergente del genio che nell’acqua regola gli Issaa-ooh! Issaa-ooh! dei pontieri intorno alla capra.

Tata tuum tata tuum di cannonate.

Scraabraaaang di bombarde.

Ta ta ta ta ta ta di mitragliatrici.

Iauu iau iau di schegge lontane e di pallottole.

Issaa-ooh! Issaa-ooh!

Passa un farfallone d’acciaio da mezzo chilo a venti centimetri dal mio naso.

Visitiamo, palpiamo il ponte che lega il primo guado colla prima isola boschiva e pantanosa. Sotto fruscia, stride incalza e galoppa l’acqua fulgente. I languidi ruscelli pacifici e melodici sono diventati corde metalliche violente per legare, strappare i piedi dei ponti.

Issaa-ooh! Issaa-ooh! Ultime ostilità del fiume che vuole colle trecce tumultuose delle sue acque trattenere i passi audaci dell’Amante che scavalca il suo letto.

Il sergente del genio intelligente, afferma che il ponte è solido. Una granata approva con scoppio brutale, schiamazzante.

Il ponte scricchiola, geeeme piegando le sue tavole sotto il peso della mia 74. Siamo tutti appiedati, mentre il mio volantista guida con cautela.

Ora grave. A destra a sinistra a cinquanta cento metri Biii... Graang! Biiiii Graang-graang! vvv. Ho avuto stanotte un presentimento di morte.

Nel buio con calma ho regalata la mia vita di grande poeta a questa divina parola: Italia, che merita oggi la vita di mille mille poeti altissimi. Ora ricordo la formola di equitazione: per saltare un ostacolo a cavallo bisogna gettare il cuore al di là dell’ostacolo. D’un colpo, lancio il mio cuore sulla altra riva.

Subito vedo in sogno la Fortuna inclinare sempre più il piano da Padova al Montello perchè le masse di forze italiane scorrano giù nel Piave e si rovescino sull’altra riva schiacciandola.

Raby da due giorni liberato dal suo guscio molle di placidità orientale si è rivelato un comandante energico, espertissimo, tenace. Dopo ogni ponte, il guado è un problema da risolvere.

Questi primi guadi del Piave sono facili e si corre poi, per dei tratti, con prudenza su un ponte, indi cento sforzi nell’acqua, poi di nuovo via correndo tutti intorno alla blindata giocondi come per un parto riuscito. Davanti a noi nelle isole tutte a ciuffi di piante fluviali si sparpaglia la fucileria. La retroguardia austriaca snidata come una abbondante selvaggina che non voglia abbandonare i suoi covi. Ecco la riva! L’altra riva del Piave tanto sognata, desiderata, invocata, abbracciata dalle nostre anime! Alla mia destra due trincee ci bersagliano. Voluit, voluit, di pallottole sul capo. Graang! Questa pallottola si è schiacciata sulla blindata. Primo collaudo. La blindatura Ansaldo tanto discussa resiste.

A destra passano con noi i bersaglieri ciclisti del colonnello De-Ambrosis. Sparano con la bicicletta appoggiata al fianco e cantano: Addio mia bella addio... Nostalgia dinamica e marziale di quella, canzone trascinata ma che trascina, svolazzante e smarrita, ma imperiosa. Strana miscela di sentimentalismo e di audacia virile. Zaino di melanconia che il soldato meridionale porta con disinvoltura spensierata in marcia verso il pericolo ignoto. Il ricordo della donna pungola le nuove audacie.

Cos’è questo vocio lamentoso che si trascina vicino alla trincea ora deserta?...

Braccia alzate! Donne e bambini! Sono italiani di Campodolcino. Arruffio di gesti e camiciole femminili intorno ad una colonna di prigionieri. Sporchi, in brandelli, col berretto a tre bottoni. Questo porta lo stemma imperiale. Gioia acuta di calcare la trincea vuotata.

Abbiamo passato il Piave. La prima blindata corre sulla strada di Campodolcino.

Fo fo fo fo fo dei nostri 260 che passano nell’aria.

A destra lontano, verso Vittorio Veneto infuria la battaglia. Giunge l’ordine di inseguire e travolgere la retroguardia che si sta trincerando a Bibano di Sotto. Alt, colazione sommaria. La terra già cotta dal sole è piena di cadaveri che puzzano.

— Austria official, dice un prigioniero; Austria comanda, io non volere tirare.

I suoi occhi implorano. Dividiamo un pollo con lui, e restiamo quasi senza, noi, poichè, bisogna farne parte a due macilenti borghesi italiani.

— Avevo un fratello nelle munizioni a Milano; l’altro sul Piave nell’artiglieria da campagna. Uno fabbricava i proiettili, l’altro me li lanciava ed io li ricevevo!

Sintesi della guerra sul Piave.

Presto, in macchina, e avanti! Cimadolcino è tutta bombardata, deserta. Un plotone di cavalleria che l’attraversa con noi unisce i suoi nitriti e lo scalpitare degli zoccoli ai rombi dei motori e allo stridore delle blindature. Polifonia che fa vibrare le case in rovina tutte smobiliate, squartate, slabbrate, disossate. Gli austriaci hanno portato via tutte le travi. Fortunatamente i muli di queste salmerie di bersaglieri sono carichi di legna. Strappiamo qua e là dei cartelli: Nach Fezzo, Nach Cimetta, Nach Codognè. Il nostro entusiasmo pieno di scatti, si irrita di non essere ancora in testa a tutti. Sulla strada procediamo tra bersaglieri ciclisti che corrono corrono rischiando d’essere arrotati ogni momento. Abbiamo alla destra un battaglione di scozzesi con le cucine fumanti, a sinistra una batteria da 75 italiana. Accanitamente vogliamo sprizzar fuori dalla calca. Arruffio, gesticolazione, bestemmie di conducenti. Largo! Largo! Largo! Piega a destra, cretino! C’è posto, lasciami passare! Non si può! Voglio passare, per Dio! Ti sbatto nel fosso!

Nitriti di cavalli, groppe che fumano sudatissime, ottoni brillanti delle bardature inglesi. Il sole fa divampare le facce che rosse si mescolano alle bandiere agitate dai borghesi. Due, tre bandiere, una folla di bandiere sventola su questa bassa terrazza. Le donne si piegano giù dai balconcini, visi convulsi in lagrime. Parlano, parlano, chiamano, consigliano. Fanno gesti convulsi verso quella linea di olmi in fondo a quel campo dove ecco pam, pam, pam scoppia la fucileria.

Il capitano Raby bestemmia nella vetturetta:

— Fuori, fuori di qui, per Dio! Non curarti dei parafanghi, spacca, e fuori!

Sobbalzi, urtoni. Un mulo cade. Un ciclista nel fosso. Sfondiamo una cucina scozzese. Ne schizzan fuori brodo e vapore sulla groppa di un mulo che calcia. Gli scozzesi ridono, ma noi siamo liberi. A grande velocità, le blindate, a 300 metri l’una dall’altra. Tutto a posto, eccettuato un parafango rotto. Il mio motore va bene. Flauteggia: Tuuuvvv, Tuuuvvv, Tuuuvvv.

Villaggi deserti. Abbandono. Desolazione. Gli Austriaci si sono squagliati. Sorpassiamo una pattuglia di cavalleria. Il tenente mi dice:

— La linea Austriaca è al di là di Bibano di Sotto, 2 chilometri davanti a Sacile.

A destra e a sinistra i campi hanno innumerevoli buchi; sembrano aver subito dal bombardamento nostro una preparazione ad una fitta piantagione d’alberi. I cadaveri qua e là dormono come strani giardinieri stanchi dall’eccessivo zappare. È quasi buio sotto il cielo rannuvolato quando giungiamo alle prime case di Bibano di Sotto. Rovine. Silenzio assoluto. Malgrado gli ordini severi io ho tenuto sempre lo sportello sinistro della blindata aperto, la gamba penzoloni fuori, appoggiata sul predellino. Ho in mano il revolver, ma lo stringo macchinalmente tanto l’atmosfera di questo Piave vittoriosamente varcato è piena di fortuna strafottente.

Perchè abbaia tanto la mia Zazà col muso fuori dal finestrino? È una cagnetta intelligente, intuitiva, talvolta profetica. Le bestie sono spesso in contatto colle forze più di noi. Ma io non ascolto Zazà. Ho fame e so che a Bibano ci fermeremo per aspettare l’autocarro dei viveri.

Ta ta ta ta ta ta. Scossa. Stupore. Siamo caduti in un agguato. Però, niente paura. Da due finestre della piazza vampano e sparano due mitragliatrici austriache. Non c’è tempo nè modo di rispondere efficacemente colle nostre mitragliatrici. Mentre il sergente Locatelli ne punta una in cupola, noi ci slanciamo fuori. Moschetti, pistole e tascapane pieno di petardi. «Lì! Lì! quella finestra a pian terreno!» urla Ghiandusso. Io la punto col moschetto e sparo. I miei amici fanno altrettanto. Cinque minuti di fucileria a 20 metri dalla finestra. Noi riparati dietro un enorme autocarro austriaco rovesciato. La finestra si spegne e tace. Ci precipitiamo dentro. Tre sloveni che alzano le braccia e 2 bosniaci feriti. Trasciniamo fuori il tutto e li consegnamo ai bersaglieri ciclisti che sopraggiungono. Alt. Riposo. Abbiamo un solo ferito. Autocarro dei viveri. Mangiamo.

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