XXI. LAVAMI! LAVAMI, O AMORE!

Entriamo in Maniago sotto un arco di fiamme. Tutte le facce ne sono riverberate.

Vivaaaaa Italiaaaaaa!

A Maniago passeremo la notte.

Chiaccherio, saluti, abbracci, fiori. Tutte le famiglie vogliono ospitarci. Pranzeremo in casa del Sindaco. Poi finiremo la serata in un’altra famiglia piena di ragazze vispe e loquaci d’una giocondità affettuosa avviticchiante.

Si mangia bene, dal Sindaco. Patriota intelligente, forte, solenne, sessantenne. Faccia italiana con baffoni grigi, occhi neri. La sua bella figliola agile moretta occhi furbi vivacissimi collaborò col padre sindaco, per difendere il popolo, nutrirlo, incoraggiarlo. Dirigeva la casa, turlupinando i comandi austriaci. Dopo pranzo si gioca a tombola. La figlia si chiama Assunta Siega Riz. Mi racconta colla melodiosa verbosità friulana le mille astuzie e gli sforzi muscolari per sotterrare, nascondere in campagna e nelle grotte ogni cosa preziosa. Ha salvato quasi tutto. Aiutava le famiglie amiche a murare le porte delle cantine e delle stalle e a rientrarvi ogni tanto per nutrire alla meglio asini e buoi. Acrobatismi pericolosi, prima colle gambe nude fino alla pancia, poi le spalle e finalmente la testa.

Assunta Riz racconta:

— Malgrado le requisizioni feroci, io ero stranamente contenta, in questi ultimi giorni. Vedevo gli ufficiali austriaci salire sul campanile e restarvi delle lunghe ore a spiare l’orizzonte. Quando il generale Boroevic partì fui sicura della vittoria. Ma l’anno passato dopo Caporetto, che orrore! I germanici imposero a tutti i bambini dai 6 ai 10 anni di andare ogni giorno a fare la ginnastica in una palestra! Bella idea, una ginnastica obbligatoria per bambini affamati! Ma c’è di più. Tutte le donne furono costrette a cantare in una messa solenne in onore della imperatrice Zita! Volevano imporre ai preti di cantare una messa perchè Dio aveva liberato questa terra dagli italiani! I preti rifiutarono e furono tutti internati. Alcuni spogliati e denudati dovettero pulire le scarpe agli ufficiali! I bosniaci erano gli esecutori di queste canagliate. Poi vennero gli austriaci. Banda di ladri e di speculatori militarizzati. E che ubriaconi, tutti! Ho visto io sei soldati annegati nel vino di una cantina inondata. Sventravano le botti a baionettate. Facevano carezze ai bambini per strappare il segreto dei nascondigli. Ma i nostri bambini fuggivano gridando come gatti. Che differenza fra la ritirata di Caporetto e quella degli Austriaci! Gli Italiani se ne sono andati buttando via tutto come gran signori, mentre gli Austriaci hanno rubato tutto, partendo, come ladri e pezzenti!

— Oh gli ufficiali si trattavano bene! I bosniaci, da veri bestioni, erano i più sacrificati e pativano la fame. Facevano una polenta coi bachi da seta. Un giorno divorarono tutte le candele di una chiesa!

— Io ho fatto il mio dovere. Ho nascosto tutto ed ho aiutato tutti a nascondere. Il nostro buon parroco aveva dato un’eccellente parola d’ordine: Obbedite, odiate, nascondète. Potevano ben venire con le calamite a frugare per scoprire il rame sepolto! Che ridere alla messa cantata in onore di Re Carlo! Gli ufficiali avevano uniformi bianche fatte di lenzuola rubate. L’altare era ornato di frasche verdi. Verde pure la croce tutta costruita di frasche. In giro, le truppe vestite di bianco. Nel centro, intorno all’altare, le nostre coperte da letto rosse. Noi ridevamo, durante la messa, ci pareva di essere in un’immensa bandiera tricolore. Ad un tratto un rumore nell’aria: tre areoplani italiani tricolori! Che spettacolo. Gli ufficiali austriaci hanno una grande paura degli aeroplani nostri. Gridavano fuggendo: «Come! come! tutto organizzato! Questo è tradimento!»

Mentre Assunta parla esaltandosi, le bottiglie sante dissepolte sparano e spumeggiano. Tutti bevono dimenticando gli austriaci. Un rettangolo sul muro meno polveroso ricorda un divano rubato. Io bevo poco. Ghiandusso oscilla beato. Devo quasi sostenerlo quando andiamo a finire la serata in casa della famiglia Martini.

Tutta illuminata in fondo a quell’orto buio. Vi bollono le danze con grida, canti e bicchieri rotti. I miei compagni mi hanno preceduto con gli ufficiali bersaglieri. Tutta la casa è invasa dalla nostra forza vittoriosa. La razza ha urgente bisogno di riprendere contatto con la razza. Aderire, aderire l’uno all’altra. Il giardino è pieno di bisbigli. Amplessi nel buio. Ogni amplesso è un punto chirurgico dato con frenesia per saldare le labbra dell’immensa ferita. Ah! ah! Bisogna che presto questo punto della carne della Patria si ricongiunga con quest’altro punto corrispondente della stessa carne. Io balzo su una tavola perchè l’eloquenza illumini acceleri perfezioni la grande voluttà.

— Quante belle donne in questa casa! quante belle Italiane! Siamo pazzi d’amore per voi! La nostra forza virile e i nostri baci sono tutti per voi! O bellezze italiane, labbra della ferita aperta che dobbiamo chiudere a forza di baci! La vecchia morale è morta! I preti hanno sempre torto poichè sono amici degli Austriaci! Il prete di Maniago è un buon italiano, lo so, egli vi perdonerà al confessionale. Ogni bacio che darete questa sera a un italiano vi procurerà un secolo di gioia, di più, in Paradiso! Amen.

Intorno a me dieci tappi di bottiglie di vino spumante trattenuti coi pollici saltano salutando il mio «Amen» con un incrocio di getti rossi biondi.

Innaffiano anche il soffitto docciando le capigliature delle ragazze che ridono pizzicate sprizzando fra le braccia grigio-verdi. Arterie e cuori che schizzano entusiasmo. Bottiglie vive, che gareggiano in scoppi di tappi scappanti. Il vino occhieggia con brilli strani nei bicchieri.

Finalmente ecco la notte delle notti, la notte che mantiene tutte le promesse di mille giorni neri e non può finire, e continuerà in mille altre notti di gioia spensierata! Tutti i cataplasmi sono strappati dal petto. Abbasso la morale e il pudore! Le donne mature sono più allegre delle giovani. I vecchi fanno il girotondo intorno a un fiasco vuoto. Sopraggiunge il farmacista, un mattacchione dal naso adunco, che canta con voce tenorile. Ha in mano una bottiglia.

— Non toccate, è veleno, tutto per me!

E beve a garganella. La nonna panciona e mammelluta gioviale e molle di ricordi amorosi presiede alla distribuzione della gioia. In cantina, sì, in cantina esige che il suo seggiolone sia trasportato.

A forza di braccia, si deve portare anche lei e introdurla in cantina per una breccia poichè la porta è ancora murata. La nonna ride con solennità. Le pare di essere un generale ferito che rimane sul campo di battaglia a comandare l’artiglieria delle bottiglie. Sessantenne e cogli occhi neri sempre un po’ brilli. Alla sua età passare un anno intero asciutto! Finalmente! Il barcone troppo a lungo in secco potrà navigare in un oceano di ebrietà.

Ora insediata nel suo seggiolone tiene le cosce larghe perchè la pancia non le mandi in bocca le mammelle. Queste non di meno formano una tavola orizzontale, e vien voglia di deporvi le bottiglie che ella aspetta con le mani aperte. Le palpa, le osserva. Questa è piena di fantasia, bottiglia generosa e senza perfidia. Quest’altra sbarazzina, ma affettuosa, è la bambina preferita. «Non lasciatele cascare, per carità». E le segue con sguardo materno quando spariscono portate a braccia su per la scala.

Sopra, nel cucinone, il nonno, a capotavola fra un esercito di bicchieri. Penso a un ammiraglio sulla tolda. È tutto rosso, e il vino già bevuto ride nei piccoli occhi tutti scintille come alle fessure di una botte. Ha bevuto, beve, vuol bere ancora, con l’ansia di chi non ha mai bevuto. La forza del vino sale, sale a dilatargli il petto come la sua prateria ripresa agli Austriaci. La forza del vino drappeggia di luce e popola rumorosamente nel suo cervello le lontane belle città italiane, piazze, fontane, caserme e trattorie che aveva ubriacato di mille pazzie quando era soldato, anche lui, a far la guerra. Poi con Garibaldi; e la camicia del condottiero gli sventola rossa nel sogno tra le vampe rosse del vino.

— Mi sento, dice il nonno quasi ebbro, mi sento la Primavera e la Gioventù nelle vene. Sento mille servitori pronti ad aprire, aprire tutte le sale nella mia testa, nel mio ventre e tanti giardini profumati che scrollano via l’inverno e mutano mille vesti verdi e azzurre. Strani questi giardini! Provano e riprovano delle vesti di lusso di mille colori. Certo per una Domenica in Paradiso! Ma la Domenica è venuta, e sono in Paradiso! Debbo ballare, anch’io debbo ballare, ballare! Ma non si può ballare con una pancia come la mia. Questo anno di digiuno, non l’ha quasi intaccata! Quando vennero gli Austriaci, io dissi ai miei figlioli: «Ora ci sarà la fame. Ma niente paura! La nonna ed io abbiamo addosso delle abbondanti riserve di lardo. Non morremo nè dimagreremo. In quanto a voi, provvederò io e vi sfamerò colla mia carne, facendo il conte Ugolino a rovescio!»

Ride il nonno annusando come un bracco il buon odore di fritto che cuoce nel camino accanto alla polenta che si muove gialla monumentale nel pentolone.

— Sembra la pancia della comare Maria. Ora partorirà un nuovo figlio alla Patria! Un figlio di polenta! Sarà un imboscato!

Intanto i soldati scuotono e pigiano la danza come l’uva. Ne sprizzi se Dio vuole altro vino!

Le ragazze hanno consegnato le belle poppe ai soldati che le palleggiano, fra le braccia, ballando. Ormai si abbandonano nella danza con ritmo oblioso d’onde felici che ritornano e battono languidamente contro roccioni amici.

Questi cominciano a subire il vino e si muovono con cautela per paura di ruzzolare. I meno brilli scompaiono nel corridoio. Andirivieni, miscele, bisticci, risate, risatine, risatone, pizzicati, trilli e capitomboli, sganasciamenti nel buio.

Ressa, ressa, poichè si gioca a rimpiattino. «Nascondi tu che nascondo io!» «Non pizzicarmi così, mi fai male!» «Dammi la bocca!» «Scopri questo che ti svelerò il meglio!» «Ti dico di no, di no, ma il sì mi brilla negli occhi, lo vedi. Qui, qui è più buio».

Un contadino, quarantenne, scherza, balla con Ghiandusso. Questo si libera ogni tanto dalla stretta e lo scaraventa a terra per celia. La moglie dell’uomo interviene. Ghiandusso abbraccia la moglie, poi le versa un bicchiere di vino nel seno.

— Ma sì, ma sì! dice il marito: ti permetto di baciarla, non sono geloso. La gelosia non esiste fra Italiani! Avete capito?... La gelosiiia non esiste fra italiani! Mia moglie è tua, anzi nostra! Piace a lei, piace a me! Baciala. Sono forse becco, io? Macchè! Eravamo tutti becchi! Ora siamo tutti amanti fortunati! Balliamo tutti, stretti, stretti, stretti!

Dietro ad ogni porta nella penombra, tumultuava l’amore. Così si ricongiungono con ardore bruciante sublime e divino le carni della Patria!

Avevo ballato anch’io con una bella ragazza gracile, il cui pallore e gli occhi neri, grandi un po’ febbrili sotto il peso della capigliatura castana, mi piacevano. La ritrovai nella baraonda verso l’una di notte. Mi stringe la mano dicendomi: «Vieni con me». La seguo nel corridoio su per una scaletta fino al terzo piano dentro la sua camera da letto. Ansante, ma con movimenti decisi, come seguendo una sua volontà irremovibile, chiude dietro di me la porta a chiave. Ci si vede poco.

Intuisco e fiuto il letto fra le luci palpitanti del lumicino ad olio di una Madonna rosea-blu.

— Mi chiamo Graziella, mi piaci, baciami. Baciami tanto, tanto, tanto! Ho sentito tanto parlare di te, sai! Da una mia amica che sta a Roma. Sei un grande poeta, un uomo celebre! Come farò io a piacerti?

Poi buttandomi le braccia al collo mi strinse forte e subito il suo pianto si ruppe con singhiozzi laceranti, dolorosi, atroci che non finivano più.

— Vieni! mi sussurrò, e mi guidò per la mano verso il letto, nel buio.

— Sono pura, sai, pura, come la mamma mi ha fatta. Ma una di quelle canaglie...

Non potè continuare tanto i singhiozzi la soffocavano:

— Ma una di quelle canaglie ha tentato una notte di prendermi. Era alloggiato in casa! S’era nascosto nel vano della finestra. Entrai in camera senza accorgermi di nulla e mi svestii. Quando fui in camicia quel porco mi venne addosso. Non è riuscito a prendermi, no! Ma mi ha sporcata, sporcata, sporcata!... Io gli ho addentato la guancia! Allora si è fermato. Sanguinava. Bestemmiò in tedesco e mi diede un pugno tremendo, qui. Guarda!

Graziella si scoprì il seno, singhiozzando.

Io non vidi bene, ma sentii sotto le dita una tumefazione sul bel seno eretto morbido e ben tornito.

— Vieni, amore! Sono tua! Lavami, lavami, con tutti i tuoi baci! Lavami tutta! Voglio che tu mi lavi tutta con la tua cara bocca italiana!

Si svestì tutta, mi prese fra le braccia senza ritrosie.

Non aveva nessuna gradazione nell’offerta della sua nudità. Una volontà cocciuta governava la sua passione d’amore purificatore.

— Sono tutta per te! Se ti piace... Ho deciso così, in quella notte infame. Giurai alla Madonna che mi sarei data al primo Italiano vincitore che mi fosse piaciuto.

Senza fine la baciai, la baciai, mentre Graziella implorava come in sogno con una voce monotona quasi meccanica piangendo felice.

— Lavami, lavami, lavami, amore, lavami!

La camera si gonfiò di delirio e di fantasia. Navigava in cielo, forse rapita dalla corrente della via Lattea. Notte illimitata, ebbra di sublime. Notte fuori dallo spazio e dal tempo.

Il corpo di Graziella era morbido, elegante, snello, e rovente. Vibrava graziosamente sotto le carezze, moltiplicando i suoi profumi di terra felice d’essere riconquistata. Era veramente il dono della Vittoria.

Non avevo amore per Graziella, ma una frenesia di spirito e di nervi travolgente, tenerissima.

Mi accinsi alle più meravigliose voluttà con tutte le delicatezze e insieme uno strano impeto brutale e anche un allucinante slancio artistico fatto di preziosità stilistiche e di cadenze musicali.

— Lavami, lavami, amore!

Fui un fabbro impazzito e un maniaco cesellatore. Ero fuori d’ogni legge sociale umana o divina come un gallo contento con la gallina ideale del pollaio mio.

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