XXII. FIUMI, CAMPANE, DONNE E MITRAGLIATRICI INNAMORATE

— Ricordati, Ghiandusso, che l’interno della 74 deve essere pulito, scintillante, in ordine come il letto di una sposa.

— Guardi, signor tenente, sembra proprio il letto d’una sposa... ma la sposa non c’è!

— La sposa ci sarà, presto... E la vedrai dentro coricata, nuda, più bella di tutte le donne del mondo!

Ghiandusso sorride senza comprendere la mia frase sibillina, poi con voce materna:

— Per ora ho coricato dentro la Zazà che ha tanto freddo colla sua pancia grossa, grossa. Guardi come dorme sotto le coperte.

Alle sette, partenza in un brusio di voci contradittorie. Si dice che gli Austriaci giunti la sera prima sul torrente Arzino hanno durante la notte precipitosamente fatto marcia indietro per trincerarsi sul Meduna. Sono dunque a pochi chilometri! Tanto meglio! Tanto meglio! Li mitraglieremo sul Meduna. I nostri motori gareggiano coi pedali sportivi dei bersaglieri ciclisti sulla strada bianca che attraversa la brughiera deserta. Il sole che sale dietro noi ci imbriglia coi suoi raggi rossi. Il capitano Raby, esperto comandante di blindate, ha dato ordine di mantenere le dovute distanze fra le blindate. In terreno scoperto bisogna evitare di offrire un grosso bersaglio ad un possibile agguato di artiglieria. Da conoscitore di forze, quale io sono, penso che spesso gravissimi pericoli s’imboscano nelle ore di più spensierata sicurezza. Faccio chiudere sportelli e feritoie malgrado il caldo crescente per abituare gli uomini a sopportarlo in un eventuale combattimento. Mi volto per controllare attentamente la disposizione degli uomini, delle munizioni, la scorrevolezza della cupola girante. Menghini, al volante, attira la mia attenzione attraverso l’occhio orizzontale della blindata sotto la palpebra metallica alzata.

— Guardi, signor tenente, in fondo alla strada bianca, a un chilometro, il Meduna. C’è una folla. Donne, donne, una quantità di donne e bambini. Gli austriaci se la sono svignata.

Vocio confuso che cresce, cresce, cresce. Laggiù una marea bianca, rosea, rossa di donne vocianti che si accalcano. A destra, a sinistra ne giungono altre. Sentiamo che a 20, 30 chilometri in giro i casolari si sono vuotati. Le grida diventano fragorose nello spiralico polverone aizzato dalle gonne che spazzano la strada e dalle braccia che agitano fogliami. Entusiasmo sanguigno, allegrissimo, esasperato che suona sul metallo della blindata, penetra come un vino gazoso dalle feritoie. Apro lo sportello e cogli uomini a terra, presi nella risacca impetuosa della folla, spingiamo la blindata nell’acqua diaccia che corre distratta.

Vivaaaaaaa! Vivaaaaaaa! Vivaaaaaaaa!

Il sole partecipa come un baldanzoso burbero benefico alla festa clamorosa. Con una folle raggera di frecce aguzze affilatissime il sole accende le mille vesti colorate e i visi di rosso sudore lucente delle friulane e il drappeggio azzurro delle gonne nel gorgogliare dell’acqua corrente. Le popolane si alzano le gonne e le agganciano alla cintura. Godono i polpacci agili nella gelateria dell’acqua che moltiplica i suoi ssssss gggggg got got glu glu glu glu flav got ssss gggg flic flacpluf pluf plaf imitando e riassumendo rumori, suoni di bottiglie, sorgenti, cascate, arpeggi, camini invernali e il bisbigliar degli innamorati sotto le frasche ventose. Il guado è meno praticabile dei precedenti. La mia 74 s’immerge, quasi naviga. Abbiamo fasciato il motore. Ma il sole propaga su di noi una così maestosa ascensione di raggi sulla nostra testa con un così trepidante ardore sulle spalle, che le forze sono centuplicate. Molte donne speravano di salvare le loro gonne di lusso e le hanno su, su arrotolate come sipari di teatrini burattinai sulle ginocchia e sulla pancia. Ammiro i muscoli tesi sotto la carne rosea delle forti cosce di quelle che tirano la corda. Altre sono proiettate in avanti con sforzo atletico tirando con noi i parafanghi. E le bambine fragili hanno l’acqua al petto. La corda danza ad ogni impeto del motore che rrrrrruggendo, rrrrrrrrruggendo vuole disincagliarsi. Zazà guaisce, abbaia nuotando come un bariletto nell’acqua gelata perfida e cattiva che tira a sinistra. I bersaglieri che guadano in fila a destra e a sinistra depongono le biciclette e corrono ad aiutarci. Gioia gogliardica nello sventolio delle penne di gallo sugli elmetti tintinnanti contro i fucili i tascapani, fra il chiaccherio affannoso e le risate dell’acqua più donna delle donne che beffeggia e spumeggia perle, gorgheggi, zampilli in bocca e fra i capelli sciolti sulle natiche fuggenti fra i pizzicotti bersagliereschi.

— Tutti insieme, un ultimo sforzo! urlo io comandando la manovra con l’acqua alla pancia.

— Issaaa-ooh! Issaaa-ooh! Menghini, imballa il motore! Imballa! Imballa, per Dio!

Tre bambine capitombolano nell’acqua. La più piccola, dodicenne, scivola via travolta; ma un bersagliere si slancia e con una zampata la ripiglia e la solleva pel culo! È fuori sul greto: piange, ride, tra le pedate delle donne e dei soldati che su, su tirano finalmente fuori la mia 74. Vivaaaa! Vivaaaa!

Le rudi friulane ignorano la stanchezza; sono oramai centinaia, centinaia intorno alle blindate nere che guadano. Il sole, immaginoso pittore, si diverte a raddoppiare il rosso, il verde, il viola, lo scarlatto, il giallo canarino di quelle donne agili, rozze, quasi selvagge figlie del Meduna, sorelle di quelle acque selvagge e capricciose; ma felici di tradirle per salvare i forti motori metallici, aggressivi che le hanno innamorate. Strepitano di rabbia maschia i motori col tempestoso martellare degli stantuffi e gli scoppi dei brrronchi e il catarro prrrorompente in vapore, irritatissimi di dovere a delle donne e alle loro fragili liquide braccia, la liberazione. Comprendono a mala pena, i motori, che mitraglieri e bersaglieri non bastano; occorrono donne astute per vincere le astuzie femminili della ghiaia, maledetta donna femmina femminile che minaccia ogni slancio maschio rigido e veloce.

Il sole ha genialmente composto il quadro. Sulla lunga fascia azzurra d’acqua che lo attraversa orizzontalmente sei blindate nere, ognuna con la sua ghirlanda convulsa di donne colorate. Tra blindata e blindata perpendicolarmente sei arabeschi lunghi di biciclette, penne di gallo e fucili arruffati simili a lunghi reticolati in moto. La simmetria è rotta, nell’alto del quadro a destra, dalla vetturetta del capitano Raby, strano canotto nell’acqua verde.

A sinistra nel basso del quadro l’ultima blindata sembra un sottomarino emerso col suo chiosco-torretta. Vicino a questo un autocarro sembra un veliero capovolto.

Il quadro è anche sonoro poichè ecco la sua polifonia tocca l’apice di tutti gli acuti in un Vivaaaaaaaaaaaaaa!

Poi silenzio. Pochi minuti, le friulane, sedute sulla riva conquistata, si riposano contemplando. Appena la gioia pazza è sedata, di nuovo in macchina verso un suono strano gemente, umano e non umano, profondo e aereo, inesplicabile, venuto di lontano di sotto terra o dal cielo, il suono mi fruga nel petto, cerca, cerca, trova e mi pugnala il cuore di una dolcezza straziante acutissima... Sole! sole!

Sole! Sole! Sole! che galoppi nell’incalcolabilmente vasto e desolato letto del Meduna, gridami, spiegami, quale nuova polpa di gioia hai preparato davanti a noi, dietro l’altissima muraglia fulgente del cielo tuo?

Il mio motore si slancia. Sapere, sapere, vedere, conoscere. Abbiamo terrore di te, nuova Gioia! Vorremmo fuggirti, eppure già ti beviamo con le nostre orecchie assetate, liquida delizia sonora!

— Oh! nulla, nulla, o almeno poca cosa! mormora il cuore. È una piccola campana italiana che piange e ci saluta... umile dono della bella Italia liberata ai suoi liberatori!

La vediamo. È una piccola campana da campaniletto di cappella boschiva. La dondola fra le mani con fatica una esile vecchia tutta bianca, vestita di nero. La piccola campana è tutta sporca di terra poichè fu dissotterrata, un’ora fa, da quelle stesse mani rugose. Sembra un vaso di fiori capovolto, ma ne fioriscono, fioriscono, tante piccole rose di suoni, piccole rose di tenerezza, invisibili ma penetranti e che si spandono: profumo di suono dell’azzurro inebriato. Ansimando, la mia macchina si ferma davanti alla vecchia, senza che Menghini al volante lo abbia voluto. Motore magnetizzato! A destra e a sinistra si svegliano timidamente piangendo altre campane, soavi, languide tremanti e sfinite dalla dolcezza. Accorrono, s’affrettano. Laggiù sotto quei castagni, la sento venire! La vedo! Questa è più grande ed è infilata in un ramo che due donne vestite d’azzurro portano, incespicando nelle zolle.

Din din daaan daaan din dan din dan. Intanto la vecchia dondola dondola la sua piccola campana. Ha un suono più limpido, più liquido, trasparente di cristallo e d’acqua.

Forse il metallo non fa che continuare il flebile tinnire delle lagrime che beve. Piange la vecchia dondolando la sua campana. Quasi cade, per stanchezza, trascinata giù dal peso ondeggiante e i capelli bianchi le coprono il viso pacificato. Non ci guarda. China sorveglia meravigliata i bei suoni melodiosi che le gocciano dal cuore. È lei, lei la prima, con la prima campana! Certo è fiera di sentire e vedere che tante tante compagne vengono da tutti i punti dell’orizzonte ruzzolando giù dalle colline e sgorgando dalle valli per suonare, e suonare, suonare senza fine e lagrimare, come le nuvole d’autunno che hanno troppo bevuto, come gli occhi che hanno troppo aspettato.

Din dan, din dan dan dan din din.

Tutte le campane sono ormai salvate. Questa più grande comincia con rintocchi lenti, quasi paurosi spandendo un tremolio sonoro; ma presto si fa animo. Dan! Certo quasi non crede alla realtà prodigiosa. È stata nascosta un anno sotto terra in fondo all’orto del prete con tre botti di buon vino spumante da quella furbacchiona della perpetua. Le pioggie hanno fatto trasudare le botti e la campana si è consolata, così, nelle buie notti opache, sotto terra. Ora è un po’ ebbra, le trema la voce.

È tutta abbagliata dal gran sole. Un’ora fa, un’ora fa con zappe e mani unghiute l’hanno dissepolta. Su, presto, ragazzi, forza! Tira su, tira, tira! È fuori, santa Madonna! Prendi la corda! Giovannino, monta sull’albero! A quel ramo grosso! Presto, fa presto, vengono gli italiani! Sono al fiume. No, no eccoli, eccoli, vengono in automobile, senti il rumore della macchina! Attacca, attacca forte!

Certo, si sentivano rombare i motori nostri e lo spavento di non essere in tempo affannava il ragazzino che con tutta la forza delle mani deboli stringeva i nodi. «Suona, suona, suona, per la Madonna!» gridavano sotto l’albero. E il ragazzino non riusciva, si disperava, quasi piangeva. Ma ad un tratto lanciandosi giù si appese colle mani al batacchio come un appiccato ed ora, su e giù, su e giù, buttando in alto le gambe; e le mani gli sanguinano lacerate, e finalmente suona, suona, suona.

Dan dan dan dan dan dan dan dan dan dan dan dan dan dan dan dan dan dan dan dan dan. Il parroco è sotto, pallido, con braccia cadute, le mani aperte la veste tutta infangata. Ci guarda con gli occhi fissi, inebetiti. Parroco sì, prete sì, ma Italiano. Un altro prete viene laggiù col passo che crolla. Ogni tanto si ferma a riprendere fiato. Pietro, il suo campanaro trascina una grossa campana che tintinna sui ciottoli.

Sono vecchissimi tutti e due. Le donne vorrebbero aiutarlo, ma si rifiuta il campanaro e tra la folla che si apre vuol trascinarla lui, portarla lui fin sotto le ruote della blindata. Nell’ultimo sforzo alza la testa, mi guarda trasognato, poi cade bocconi e il cuore gli si spezza in singhiozzi atroci.

Dan dan dan dan dan dan dan.

Allora il vecchio prete si fa largo e alzando la mano che trema dice:

— Signor tenente, l’altra, la bella, la grande campana, non l’abbiamo potuta portare... Non è sotterrata, ma è così a fior di terra, davanti alla nostra chiesa. Su quella collina... vede? Non può vedere, ma la vedrà... Un anno fa il colonnello austriaco, quella canaglia, che Dio non gli perdoni, è venuto a prendermela coi soldati. Prima ho supplicato, poi ho detto a quelle anime dannate che non potevo, non potevo dargli la mia campana. Allora i soldati hanno sfondato la porta della chiesa e sono saliti sul campanile. Subito io chiamo tutti i contadini e le contadine, e tutti in ginocchio, e io gridavo; ho poca voce, signor tenente ma gridavo: «Se Dio c’è ancora sull’Italia, Dio non può permettere che la campana sia strappata! Non sarà, non sarà, non sarà strappata!» Urlavo, urlavo: «Non sarà, non sarà strappata!» Che brutto momento, signor tenente! I soldati ridevano e sghignazzavano dall’alto del campanile. Li vedo ancora che gridano in tedesco ai contadini di scansarsi. Tutti piangevano. Hanno rotto il muro, quelle canaglie, per staccarla. Poi giù, l’hanno buttata.... Che urlo e che fragore! La grande mia campana è caduta giù, ma era tanto pesante e c’era stata tanta pioggia, ed è entrata, entrata, dentro dentro nella terra. Non si vede quasi più. Ma ora viene il bello, signor tenente; e rido ora come allora non piangevo più. Gli austriaci coi buoi con le corde, con le leve, coi cavalli, cogli asini – ci avrebbero messo sotto anche tutti i porci delle famiglie loro che son porci – hanno tirato, tirato la mia campana per un giorno e una notte! Ma la mia campana non si è mossa più. Questa è l’altra, la più piccola. Gennaro falla sonare. Su, forza, ti aiuto io.

Intanto un bambino s’avanza verso di noi tirando colle due corde sulle spalle e intorno alle braccia un asinello e una vacca magrissimi. Vissero un anno murate vive, quelle due bestie, in una specie di nicchia, nutrite da quel bambino che penetrava di tanto in tanto per un buco. Non stanno troppo male. Guardano attonite la campagna e soffiano. Mentre un contadino attacca al loro collo due campanacci pesanti. Vorrei implorare pietà per l’asinello che certo non reggerà allo sforzo. Ma chi mai può sentire la stanchezza, ora? E le due povere bestie vengono avanti suonando suonando:

Dan – dan – dan – dan – dan – dan.

La polifonia delle campane che si moltiplicano prodigiosamente cresce, si gonfia fondendo insieme tutte le stranezze e tutti i languori nostalgici di quei suoni patetici.

Non sono più campane poichè sepolte, strappate dai loro campanili e vaganti nella campagna. Riscossa tragica della gioia generale. Esprimono col loro suono ogni brivido, ogni singhiozzo, ogni tormento, ogni angoscia tipica d’infiniti corpi umani contorti da spasimi diversi d’attesa, dolore, tortura disperazione speranza felicità.

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