XXIV. UN PARTO IN BLINDATA

In volata coi bersaglieri ciclisti che corrono a destra e a sinistra delle blindate sentiamo tutti che s’avvicina per noi l’ora di un urto violentissimo col nemico. Sentiamo che sull’Arzino e sul Tagliamento gli Austriaci ci sbarreranno la strada di Stazione per la Carnia, tentando così di impedire la cattura d’un’armata di circa 50.000 uomini e relativo carreggio cavalli e bestiame in marcia da Gemona verso il corridoio di Chiusaforte e Tarvis.

La partita è magnifica. Una frenetica passione sportiva ci invade. Il record da vincere è allettante. Siamo pronti a qualsiasi combattimento, ma preoccupati sopratutto di velocità. Evitare ad ogni costo qualsiasi fermata. I bersaglieri ciclisti vogliono quanto noi giungere ad ogni costo prima che i ponti siano fatti saltare. Non ci curiamo più delle spalancate acclamazioni di popolo accalcato nei villaggi.

— Vivaaaaaaa! Dan dan dan.

Abbiamo altro da fare che intenerirci. Il colonnello De Ambrosis che comanda l’intera colonna è in testa con la sua motocicletta, e dietro con noi i bersaglieri ciclisti tuffano in avanti sul manubrio le loro facce arroventate che brillano di sudore fra i globi rotolanti del polverone.

Per la strada che su e giù serpeggia fra colline boscose, roccioni e montagne formiamo uno strano treno impazzito in fiamme, che disprezzò i binari e i tunnel per sfrenato amore d’ogni bella curva italiana.

Siamo anche divenuti una fantastica macchina dell’anno 3000 composta d’un serpeggiante tubo mostruoso, forato da mille bocche fumanti e corrente sopra la sua infinita orologeria di ruote.

— Il Tagliamento! Il Tagliamento! Il Tagliamento!

Potente nome italiano ultra magnetico, tante volte bevuto in sogno dopo Caporetto. Ne vedo scintillare i nastri argentei nell’occhio orizzontale della blindata. Danzano quei nastri, diventano lettere d’argento svolazzanti, le lettere stesse di questa parola forte e sonora: Tagliamento.

Ad uno svolto rallentante cento voci di donna:

— Il ponte è rotto! il ponte è rotto! Gli Austriaci! Viva l’Italiaaa!

Tre secondi dopo Dzing dzaang dzing, la mia blindata suona sotto le prime pallottole. Mi volto per verificare la chiusura delle feritoie. I miei mitraglieri puntano con due mitragliatrici in cupola. Do l’ordine a Menghini di mettere il motore in seconda e di avanzare lentamente.

A destra e a sinistra i ciclisti sono tutti calati giù nei fossi, e riparandosi dietro le biciclette e i paracarri rispondono con una fucileria violenta alle mitragliatrici austriache. Siamo sulla curva della strada, fra le case di Flagonia spaziate sulla riva dell’Arzino. Il ponte è saltato. Ne vedo i due segmenti crollati giù nell’acqua fresca, argentea, azzurra, placida, che scorre col suo mormorio pacifico.

gggggg ssssss gggggg.

Breve pausa di silenzio. Feroci grandinano tempestano le mitragliatrici austriache. Due, quattro, sei. Sono almeno sei. Ci bersagliano dall’altra riva, che è montagnosa e ci domina.

ta-ta-ta-tatatatata tatatatata

giaaaaa giaaa giaaaa di echi

pic pac pam pam paac

giaaaa vuluit vrit vrit.

Il colonnello De Ambrosis ritto accanto alla sua motocicletta; bell’uomo forte, muscoloso, testa rude, con una serra multicolore di medaglie sul petto, alza il braccio sventolando la mano.

I suoi bersaglieri hanno capito. Agilmente si squagliano giù dalla strada per le scarpate cosicchè avanziamo soli noi sulla riva dell’Arzino. Autoblindate tutte chiuse ognuna con le due mitragliatrici che sputano fuoco rabbioso fuor dalla cupola fasciata di bianco, rosso, e verde.

Siamo sei piccoli forti neri d’acciaio, con vibranti, rombanti bronchi metallici e catarro inesauribile. La mia 74 è giunta davanti al ponte crollato. Vedo a cento metri sulla destra e sulla sinistra del ponte ricomparire i bersaglieri ciclisti che guadano in ordine sparso l’Arzino. Ognuno corre colla sua bicicletta a mano, per dieci, venti metri, poi si appiatta dietro un masso, nell’acqua e fa fuoco. Stupidamente le mitragliatrici austriache non si curano di loro, accanendosi tutte contro di noi, con ruvidissimi sventagliamenti e feroci spazzolate di proiettili sulle nostre blindature che tintinnano. Miagolii delle giunture. Nitriti dei parafanghi colpiti.

Infernale strimpellamento di note chiare, argentine. Questa, nota, però, sorda, si spacca. Ho la sensazione di essere in un enorme tamburo sudanese martellato da un magdi che chiami a raccolta cento tribù per una guerra sacra.

Ghiandusso mi porge gli occhiali d’acciaio paraschegge. Ma io li do a Menghini. Preferisco comandare cogli occhi nudi fissi nel grande occhio orizzontale della blindata. Vedo e controllo tutto. La strada intorno schizza polvere sotto la grandinata di ferro che prende di mira la mia 74.

Mi sembra di essere l’impiantito di una platea durante un veglione. Ho come una pressione di acqua sul capo. Sono forse in fondo al mare, palombaro preso a codate da squali di bronzo? Però, dentro, tutto procede con ordine perfetto. La mia mitragliatrice di cupola spara rubinettando i suoi bossoli vuoti contro il mio gomito destro. I nastri si seguono filando nelle mani sollevate di Ghiandusso. Ad un tratto, una mitragliatrice s’inceppa. Ripiglia. Poi, secondo inceppamento. Le mie due mitragliatrici tacciono. Approfitto della sosta per salire in cupola. Caccio la testa nella botola-osservatorio.

Dietro le case di Flagonia una folla di popolo segue coraggiosamente allo scoperto le sorti della lotta. Più lontano, sul bianco della strada, un galoppo di cavalli nel polverone dorato. È la nostra batteria a cavallo che giunge.

Danza di corpi grigio-verdi su groppe tumultuose, criniere al vento, scintillii e grondare di luce sulle ruote-raggiere. Con rapida manovra si ferma. Il primo cannone ha già puntato la sua volata lucente contro gli austriaci. Tutti gli uomini a terra dietro l’affusto.

Sulle pariglie che ripartono il polverone s’innalza spiraleggiando, sino al sole che certamente comanda in persona la batteria. La sua tonda faccia di metallo in fusione tutta divorata dalla sua stessa bocca urla:

— Fooc!

Squarcia di vampa rossa-blu fra le case.

Spraang spraaang di granate sulle creste verdi. Un secondo pezzo è puntato. Le mie due mitragliatrici riprendono il loro ritmo di laminatoio. Tatatatatatatatatata.

— Fermate il fuoco!

Mi volto e fermo i miei mitraglieri, mentre nell’occhio orizzontale della blindata vedo uno spettacolo inatteso: Bianche sbocciano 2, 3, 4, 5, 6 bandiere nel verde dei boschi alti occupati dagli Austriaci. Il sole completa il tricolore. Mentre il nostro fuoco a malincuore rallenta e si spegne vedo fra i paracarri della strada sull’altra riva un tenente ungherese che s’avanza seguito da un trombettiere. Questo si ferma e voltato verso di noi, suona male tre lunghe note fesse. Dietro la tromba che scintilla un bandierone grottesco, lenzuolo bianco un po’ sporco attaccato a un lungo ramo, è portato da un caporal maggiore mingherlino in uniforme verde, che regge male il peso.

Noi ridiamo in blindata. Breve silenzio morbidamente spazzato dal fruscio delle acque. Ghiandusso grida:

— Signor tenente, la Zazà partorisce!

Emozione travolgente. Vocio e tumulto all’interno. Feritoie e sportello, tutto è aperto. Ed ecco fra le coperte, che Ghiandusso solleva maternamente, la mia piccola Zazà coricata sul dorso tutta tremante, cogli occhietti neri pieni di implorazioni, colla lingua fuori, palpita affannosamente. Tra le gambe aperte della povera bestia un grappoletto nero viscido si agita. Bosca che è entrato nella blindata vicino a me, dichiara con autorità:

— Lasciami fare: io me ne intendo.

Si rimbocca le maniche e lentamente, con maestria, afferra bene il grappolo vivo tirando fuori così a poco, a poco una piccola forma lurida, nera, molle, scivolosa di cagnolino che sembra fatto di liquerizia.

— Già morto! dice Bosca.

— È naturale! sentenzia Ghiandusso. Un padre austriaco non può mettere al mondo che dei cadaveri!

Poi accarezzando la testa dolorante della Zazà che trema a zampe aperte, come se volesse partorire ancora:

— Imparerai, puttanella, a far l’amore col nemico!

Fuori nella vampa del sole meridiano urla, schiamazza gesticola tutto il popolo di Flagonia. Tre donne mi si avventano contro:

— Signor tenente, non creda a quelle canaglie!

Intanto il tenente ungherese col trombettiere, il caporal maggiore e relativo bandierone di tela sporca, si sono arrampicati su per i rottami del ponte ed hanno raggiunto la nostra riva.

Il colonnello De Ambrosis e il capitano Raby bendano il tenente parlamentare e lo fanno salire nella nostra vetturetta. Il capitano Raby che prende il volante mi dice:

— È un trucco! Pretendono che l’armistizio sia già firmato. Io non ci credo! Vogliono guadagnar tempo e sfuggirci dalle mani. D’altra parte, capirai, De Ambrosis vuole rispettare le norme internazionali. Vado col parlamentare al Comando.

Mentre Raby fila in vetturetta, un borghese di Flagonia si precipita ai miei piedi:

— Le do mille franchi, signor tenente, mille franchi, se mi lascia ammazzare quel porco!

Io lo calmo con un gesto. Soldati, mitraglieri e bersaglieri si accalcano.

Sull’altra riva s’avanza un corteo pomposo, formato da un maggiore degli ussari ungheresi, tre trombettieri e tre ussari tutti a cavallo. Le tre trombe marzialmente alzate a bere il sole, stonano 6 note sbilenche derise dagli sghignazzamenti meridionali degli echi e dalle furbe risatine gazose dell’acqua dell’Arzino. Scoppia intorno a me una fucileria di pernacchi napoletani.

Giunto in faccia a noi, sull’altra riva, il maggiore scende da cavallo, e inizia una serie di buffi equilibrismi giù per il segmento crollato del ponte, poi su, in bilico, lungo il parapetto dell’altro segmento. Appare sull’orlo della muratura. Si sforza di scavare col piede una base piana, poi rimane curvo protendendo la faccia magra, nervosa, verdastra, astuta, e appoggiandosi colle due mani sul bastone. Un vuoto di 20 metri lo separa da noi.

Un bersagliere napoletano grida:

— Bisogna buttarlo cape ’e sotto e piedi in cielo!

Il maggiore con cattiva pronuncia francese dice:

— Je suis herr major Paxis de Pakos... L’armistice a été déjà signé! J’ai reçu l’ordre par telephone.

Menghini che ha un’irrefrenabile allegria infantile trasforma le parole herr major in armaiol, e attacca il ritornello.

— È venuto l’armaiol, è venuto l’armaiol! Paxis de Pakos! Ah! Ah! Questo è infatti la pace delle pacche!

Lo faccio tacere e rispondo all’ungherese:

— Non crediamo ai vostri trucchi... Comprenez-vous l’Italien? L’armistice n’a pas encore été signé.

— Je vous donne ma parole.

— Vous n’avez jamais eu de parole! Ces drapeaux blancs sont un traquenard pour sauver le corps d’armée de Gemona. Mais nous vous prendrons tous comme dans une souricière.

Sull’altra riva appare un automobile. Ne scende un ufficiale di stato maggiore austriaco con pentolino celeste, che si accinge alle ormai aspettatissime e divertenti discese e salite in equilibrio sui segmenti crollati del ponte. Questo secondo ufficiale è molto vecchio e un po’ frollo. Incespica, ruzzola, si rialza, afferra le mosche per non cadere. Tutta la nostra riva crepita di risate e pernacchi.

Il vecchio ufficiale ha il viso congestionato, ansa, s’aggrappa, bestemmia in tedesco, perde il pentolino che ruzzola celeste nell’acqua blu. L’ilarità raddoppia nelle gallerie e anche in piccionaia sui tetti delle case di Flagonia, dove donne e bambini applaudono e fischiano. Ogni atmosfera di guerra è scomparsa: siamo veramente in un circo equestre.

Il maggiore Paxis de Pakos guarda anche lui i buffi esercizi del suo collega e quando questo si è rimesso sul capo il pentolino celeste grondante, frena a mala pena una risata.

Tutti i soldati urlano: «Austria caput, Austria caput! Austria caput!»

Il maggiore ungherese ne è convinto quanto noi, e il suo viso assume un’aria umile e melliflua nell’indicarmi con la mano una nostra motocicletta:

— Zer gutt... Bonne, cette machine!

— Tout ce que fait l’Italie, rispondo io con tutti i polmoni, est excellent! Nous autres Italiens nous faisons la guerre et les machines mieux que les autres! Aves-vous compris?

La nostra irritazione sale, con la notte gelata, verso le prime stelle che ironiche deridono la leggendaria buona fede credenzona italiana. Bestemmiando, bersaglieri e mitraglieri accendono i fuochi sulle due rive, a destra e a sinistra degli ungheresi che accendono anch’essi dei fuocherelli timidi. Il freddo notturno aumenta. Un bersagliere, tendendo il pugno, grida:

— Se, come è certo, si tratta di un semplice trucco, le sgozzo io quelle carogne!

Ma il colonnello De Ambrosis ha dato ordini severissimi: Non saranno toccati ma fatti prigionieri, appena saremo convinti della loro malafede. Ormai la vittoria è certa, completa, assoluta. Concederemo loro al massimo un’abbondante dose di calci nel sedere.

Nel cucinone di un casolare mi corico nel fieno fra Volpe e Lattes. Al centro un grande fuoco, con lingue smisurate e roteanti criniere di scintille. Lo circondano le corpulenze nere di bersaglieri e mitraglieri accoccolati, seduti o in piedi. Alcuni pietrificati dal sonno. Tortuosi sforzi di gambe gonfie di stanchezza che cercano di allungarsi.

Un bersagliere dorme con la testa fra le braccia incrociate sulla spalliera della seggiola. Non si sveglia benchè il suo polpaccio-gambale fumi abbrustolito dalle fiamme e i suoi scarponi siano cotti.

Facce di terracotta sull’ardore della vampa. Vetrificazione di occhi ebbri di fatica che si tuffano nell’al di là divino della pace prossima imminente. Facce rovesciate all’indietro come di nuotatori che facciano il morto nella corrente felice, sicura della vittoria.

Bosca entra:

— Bisogna assolutamente vegliare, Marinetti! Raccontaci una tua avventura originale, ma veramente originale!

— Preferisco raccontarvi un’avventura del mio amico Fiordalisi. Un bel tipo, Fiordalisi! Sempre allegro. Sottotenente effettivo, venuto della bassa forza. Ha ricevuto al primo passaggio dell’Isonzo a Plava nel 1915 una palla che gli ha attraversato il collo e spaccato la mascella. Ha sul labbro inferiore una grossa, tonda protuberanza che gli permette, dice lui, di baciar meglio le donne. In realtà le bacia con la sua ferita. Sensazione interessante per una donna patriota e sensuale. Quella bizzarra protuberanza gli serve a trasformare la sua bocca in una vera orchestra. Imita a meraviglia animali, insetti, fucileria, bombardamento. Un vero numero da caffè concerto e un ottimo declamatore di parole in libertà! Suo padre, colonnello dei carabinieri, si distinse nella lotta contro i briganti e specialmente contro Musolino. Forte razza avventurosa; ma il figlio supera il padre. Dai venti ai ventiquattro anni ha girato tutto il mondo con suo fratello, facendo mille mestieri; dal decoratore in cemento al dilettante questurino. Rimase mezzo morto per tre giorni a Odessa dopo una terribile bastonatura. È un attaccabrighe simpaticissimo. Anche un magnifico narratore. Peccato che non sia qui: ve la racconterebbe stupendamente la sua buffa avventura in Russia! Dunque Fiordalisi era l’amante fortunato di una bella signora russa che lo riceveva ogni notte nella sua casa di campagna a parecchi chilometri dalla città. Una strana casa di campagna, enorme, con innumerevoli camere e corridoi pieni di mobili d’ogni specie e d’ogni stile senza ragione estetica, nè utilità apparente. Date le continue assenze del marito panciuto e ubriacone, Fiordalisi ci passava anche le giornate bighellonando e curiosando di camera in camera, perdendosi talvolta nel labirinto dei corridoi senza spiegarsi perchè i numerosi amici che venivano a trovare la signora si accalcassero sempre nella camera da letto, unica camera abitata e dotata di illuminazione. Una notte, poco prima dell’alba vocio e trambusto nel cortile:

«— Mon mari!... Mon mari! grida la signora, cache-toi! vite!

«Fiordalisi nudo non trova nella camera che una tenda troppo corta e si nasconde dietro di essa. Il marito entra sbuffando, spingendo avanti con passi rapidi il suo gran ventre, come una prua, apre un baule come per scegliere delle armi, discute violentemente colla moglie, la respinge con un pugno e si mette a frugare nella camera. Poi si ferma, sembra convinto, si sdraia in una poltrona e accende un sigaro. Fiordalisi sospeso sulla punta dei piedi per nascondersi meglio sotto la tenda troppo corta, era anche disposto a rimanere così tutta la notte. Disgraziatamente la donna sapendo l’amante in quella dura condizione e vedendo il marito sprofondato in poltrona, comincia a seccare quest’ultimo per indurlo a mettersi a letto. Il marito rifiuta, discute, poi d’un tratto insospettito ricomincia a frugare. Fiordalisi scoperto si slancia nel corridoio. Terribile inseguimento tragicomico e pericoloso per le stanze buie. Il marito era armato di una vecchia scimitarra che completava operettisticamente lo strano palamidone imbottito che gli serviva di giacca e cappotto. Ad ogni svolta Fiordalisi caccia contro la pancia dell’inseguitore un mobile preso a caso con relativi ninnoli, cristalli, vasi e vasetti crollanti. Corsa di ostacoli con frastuono infernale. Dietro al marito ansava la moglie scarmigliata, in camicia, con pianti, singhiozzi e braccia in convulsione. Fiordalisi, però, ricorda che quelle manifestazioni, pur nell’ansia della fuga gli apparivano strane, poco sincere, certo affettate. Ma la scimitarra minaccia ed egli fugge, fugge con salti acrobatici.

«— Avevo, dice Fiordalisi, una stanza di vantaggio.

«Stamattina, inseguendo gli austriaci, ho pensato che essi hanno una stanza di vantaggio e mi è venuta in mente l’avventura di Fiordalisi. Bisogna domani costringerli a saltare dalla finestra. Fece così Fiordalisi quando si vide perduto e cadde per fortuna su un pergolato. Era nudo, si scorticò tutto il corpo e rimase quasi infilzato. Ma dopo un attimo, alzò la testa e vide con sbalordimento alla finestra il marito, che guardandolo con faccia rasserenata e gioviale sentenziava:

«— Ces amoureux sont de vrais sauvages! Pas civilisés du tout! De véritable cannibales. Si je continue a me souler chaque soir, ils finiront par me manger toute ma femme! Ah! ah!...

«Fiordalisi si lasciò scivolar giù dal pergolato. Trovò in una stalla un palamidone del genere di quello del marito, imbottito e sudicio come quello, e se la svignò. Questa è una storia simbolica, amici. Accidenti ai ritardi! Appena il capitano tornerà, bisogna subito saltare addosso agli austriaci prima che se la svignino come Fiordalisi!»

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