XXV. UN ESERCITO IN TRAPPOLA

Il capitano Raby è tornato irritatissimo. Alla Divisione non si parla affatto di armistizio; ordine di continuare l’inseguimento senza tregua. Col tenente Bosca e il capitano, al lume delle torce nell’acqua gelatissima, cerchiamo un guado praticabile. Il letto dell’Arzino è pieno di bombe a mano, migliaia e migliaia buttate via dai reparti austriaci fuggenti. Prima di spingere le blindate nell’acqua bisogna fare una scarpata nella riva opposta che è scoscesa. Tutti all’opera con zappe e badili. Notte accanita, ma faticosissima al lume incerto delle torce, rallegrata soltanto da una gara esilarante di bestemmie formidabili contro la slealtà austriaca e la dabbenaggine italiana poichè di giorno si lavora meglio e si fa presto. Ai primissimi pallori del cielo siamo tutti tesi sulle corde. Sentiamo che laggiù un giorno eletto stira le lunghe braccia di luce, un giorno che incoronerà tutti gli eroismi. La corrente è forte, ma i motori moltiplicano i poderosi colpi di reni e le ruote non si incagliano. Tutto procede con precisione miracolosa. Nell’uscire dall’acqua sento piangere Zazà nella blindata, mi volto temendo che la povera bestiola si slanci fuori, inciampo e cado sul naso. La mia mano ha afferrato una strana forma morbida e villosa che stupisce il mio tatto. La stringo e rimettendomi in piedi la osservo.

Il sole si spacca all’orizzonte come un uovo di prestigiatore giapponese e subito la brezza con dita agilissime ne fa scorrere fuori cento nastri di seta rosei – rossi – verdi – viola – argentei – bianchissimi che salgono verso lo zenit impadiglionando il paesaggio. La magia di quest’aurora mi preoccupa. Temo una allucinazione dei miei occhi che fissano attentamente la strana erba molliccia che ho fra le mani. Ha un colore quasi dorato. Non è un vegetale. È una cosa umana, quasi viva. Orrore! Ho realmente dei capelli fra le mani. Una intera capigliatura di donna, strappata, certamente strappata! Questo è il cuoio capelluto, un po’ di cuoio capelluto, insanguinato!

— Amici! Amici! Guardate l’infamia commessa da quei bruti! Certo dei Croati! Nel fango della riva vi deve essere anche la testa della povera donna italiana che ha pagato così gli sputi e i morsi coi quali si sarà rifiutata alle voglie di uno di quei porci! Soldati! mitraglieri! e voi bersaglieri ciclisti! Sia bandita per oggi ancora ogni bontà umanitaria! Ogni capello strappato di questa donna italiana sia ferocemente pagato! pagato! Avanti! in macchina, contro le carogne!

Cara! cara! cara! Questa dolce parola italiana mi sale naturalmente alle labbra nel bere il respiro amoroso della campagna riposseduta. Ebbrezza di godere sempre meglio il corpo dell’Italia, molleggiando sulle tarantelle gli strambotti i mottetti i crescendo e le cadenze ampie della mia blindata sempre più musicale. Godo la grande musica della velocità col suo intreccio armonioso di ritmi insolenti, dolci, caparbi cocciuti infantili casti e lussuriosi mentre assaporo con fame crescente la buona marmellata che estraggo dal barattolo colla punta del mio pugnale.

Ad ogni svolto della strada ci assale un vocio di popolo festante. Questo però è più violento dei precedenti. Inneggia all’Italia strepitando, ma vi scorgo molte braccia tese col pugno chiuso verso quelle pattuglie austriache che laggiù sotto gli alberi bersagliano la mia blindatura d’una raffica tintinnante di pallottole. Entriamo nella vera rivolta della Carnia che già povera fu tutta derubata, spogliata, dissanguata dagli austriaci in ritirata. Mille sentimenti e sensazioni si incrociano contemporaneamente nella mia coscienza.

Sono motivi spirituali e materiali che sorpassano nelle loro combinazioni ogni polifonia vagneriana, raggiungono un’eccezionale simultaneità futurista.

Sento simultaneamente:

1. — Gli arpeggi delle pallottole sulla blindatura sonante.

2. — La gioia di assaporare una buona marmellata, pescandola col pugnale nel barattolo.

3. — I singhiozzi repressi che mi strappa questa radiosa Italia calpestata.

4. — La gioia della vittoria che dal mio cuore rimbalza negli occhi pieni di lagrime dei popolani che ci salutano al passaggio.

5. — I tonfi d’amore fraterno che il loro vocio angosciato fa nel mio sangue.

6. — L’odio-vendetta della mia mano sinistra che impugna il revolver.

7. — La strada che i miei occhi d’automobilista studiano minutamente.

8. — Tutti i rumori del motore che martella preciso, felice.

9. — Il volante nelle mani di Menghini.

10. — Il gelo delle mie gambe inzuppate dall’ultimo guado.

11. — La febbre assolutamente sportiva di giungere prima degli altri italiani e prima che gli austriaci se la svignino. Record!

A Trasadis riceviamo, Bosca ed io, l’ordine di lanciarci soli alla massima velocità verso Tolmezzo prima che il ponte sul Tagliamento sia fatto saltare. La piazza di Alesso è tutta ingombra di bersaglieri ciclisti. Sono uomini e biciclette tutti sdraiati a terra affranti, sfiniti dalla corsa sovramuscolare. Vorrei elogiare cantare i battiti burrascosi di quei cuori giovanili, l’ansare di quei polmoni, il respiro di quelle bocche bruciate e nutrite di polvere e il sudore grondante di quelle facce smaniose. Ci guardano con invidia, quasi con ira. Il colonnello De Ambrosis con lo sguardo malinconico, e la voce dura ci grida:

— Una sezione di blindate, soltanto, a tutta velocità!

Vedo molti bersaglieri ciclisti, mordersi a sangue le dita. Speravano di vincere la gara. Altri avranno la preda, magnifica. Alcuni si alzano. Un tenente bersagliere parla concitatamente a De Ambrosis. I suoi occhi implorano, e mentre con elastico colpo di reni la mia blindata riparte, vedo il tenente bersagliere slanciarsi fra le biciclette e urlare:

— Primo plotone; con me, via!

Tremenda festa di muscoli esasperati dalla gioia per l’ultimo sforzo degli sforzi al di là di ogni forza umana. Durante i primi minuti i bersaglieri ciclisti a destra e a sinistra tengono testa alla mia velocità. Ma la strada si precipita giù e la vediamo a 100 metri inerpicarsi polverosa nel sole. I ciclisti sono diventati proiettili. Debbono con lo slancio di una valanga acquistare nelle discese l’impeto per aggredire le salite. Piombano infatti giù quasi rischizzando poi scopati su da quella riserva di velocità. Tutti su... su... su... ci siamo! E le facce roventi dei bersaglieri si placano bevendo a larghi sorsi il vento inebriante della nuova discesa.

Divina strada che scende con molle arabesco, si tuffa nel verde, inoculandosi!

Siamo il sangue tonante rivoluzionario e sportivo d’Italia, che scorre scorre giù nelle intricatissime arterie della montagna Carnica!

— Somplago! Somplago! grida Menghini. Conosco quel paese!

Menghini è raggiante. Le sue mani al volante sono contratte dall’emozione.

— Fa attenzione, Menghini! C’è benzina? Per carità, non possiamo più permetterci delle fermate. Via, via!

Entriamo in Somplago come una pugnalata di velocità. Il paesello è come spento, chiuso inchiavardato dal terrore, e cacciato sotto delle coltri di pericolo e di morte. Presto, presto, correre, correre virare, scansare. Quel carretto abbandonato! Quel pietrone! Quel cumulo di ghiaia! Gli ostacoli sono innumerevoli. Agilità anguillesca della mia blindata 74 che sfiora tutto senza agganciare. Io prego, supplico, imploro il motore perchè collabori senza posa. Basterebbe un po’ di grasso e un po’ di polvere di più! Ma il motore è fedele, pronto, obbediente e la sua quarta velocità è veramente alata, aerea, come se il vento prestasse alle ruote infiniti trampolini imbottiti di nuvole. Le 4 gomme sono sane, con gonfiezza utile, ma il loro ardore equatoriale s’è liberato qua e là della tela che a brandelli rumoreggia lugubremente contro i parafanghi. Rumore minaccioso poichè i brandelli delle gomme di dietro sbattono e sbandierano convulsivamente. La mia 74 sembra una donna che corra nella sua vestaglia svolazzante.

Due uomini gesticolanti sulla strada a 100 metri, non si scansano. Rallentiamo.

Sono due tenenti alpini, due di quei numerosi italiani sfuggiti alla cattura nella rotta di Caporetto e che vissero nelle caverne di queste montagne come belve e come briganti in guerriglia.

— Presto! mi gridano. Il ponte è in piedi ma lo faranno saltare fra pochi minuti! È già minato! A Tolmezzo ci sono due battaglioni austriaci che prendono il caffè.

— Lo berremo noi! risponde Menghini. Qui sono in casa mia, conosco anche i ciottoli.

Come un vincitore di circuiti, magistralmente Menghini prende le svolte pericolose senza rallentare. Le aggredisce con delle girate di volante audacissime, che si immensificano nel mio sogno come quelle dei volantisti celesti nel guidare i pianeti alle svolte immense e sfolgoranti della via Lattea. Non ha forse l’ampiezza maestosa della Via Lattea questo letto del Tagliamento che svolge davanti a noi i suoi meandri d’argento vivo, e le ramificazioni cerebrali dei suoi filoni azzurri-verdi? Correre, correre, correre! Gioia di correre come ragazzi su questo alto, spettacoloso balcone che la strada prolunga strapiombando a 50 m. d’altezza sul letto piatto immenso e le sue lunghe acque verdi coricate e i solchi caldi delle acque fuggite.

Occhieggiano le acque sonnolente e camminano come in sogno placidamente, mentre l’ansia esaspera, accende morde le mie ruote assetate di polvere, morde morde di rabbia bruciante la gomma arroventata, stringe strozza la collera dei gas irti dal desiderio. La strada tortuosa dinoccolata, fa 2 o 3 moine coi suoi ventagli di polvere accecante e ci svela finalmente il ponte di Tolmezzo. Menghini urla, urla:

— Il ponte è in piedi! Il ponte è in piedi! Il ponte è in piedi!

Sembra quasi impazzito. Le sue mani scuotono rabbiosamente il volante come per sradicarlo. L’afferro per il braccio, rudemente:

— Menghini! Menghini! Calmati! Non perdere la testa. Il momento è grave. Il ponte è minato. Bisogna traversarlo nel minor tempo possibile. Ti senti sicuro del motore?

— Sì, signor tenente.

Siamo a 100 metri dal ponte che slancia elegantemente le sue arcate attraverso il fiume. I miei occhi distinguono perfettamente dei grovigli di fili lungo il parapetto e delle botti legate sui capitelli dei piloni. Ma la grazia italiana di quegli archi, che non possono tradire noi italiani, mi riempie di ottimismo. Con un atto di fede potente entriamo sul ponte. Menghini dà tutta la benzina. Apro completamente l’occhio orizzontale di prua alzando la palpebra metallica. A destra, giù, nel letto del fiume, fra le erbacce, dei cappottoni grigi che fuggono.

Il meriggio ci soffia in faccia un vento infuocato e insieme un urlio delirante. Sono i nostri soldati di Carnia scesi giù dal loro nascondiglio montano. Lunghe barbacce, vestiti a brandelli, ceffi di briganti. Quasi tutti armati. Mi fermo in mezzo a loro, a 50 metri al di là del ponte.

— Viva l’Italia! Signor tenente, ci sono molti austriaci sotto quelle tettoie! Ma i due reggimenti e il comando debbono essere in Amaro a quest’ora. Se fa presto li raggiungerà sulla strada.

Intanto il mio sergente fa funzionare una mitragliatrice di cupola contro le tettoie in fondo al prato a destra della strada. Gli austriaci rispondono con qualche fucilata poi si vedono fuggire verso il greto del fiume.

— Signor tenente, veniamo con lei ad Amaro!

— No, amici! Alcuni vadano alla caccia di quelle canaglie. Se si rivoltano io li mitraglio da qui. Voialtri, una ventina bastano, restate alla guardia del ponte.

Tutta Tolmezzo si svegliava. Gridio confuso, infiniti richiami, porte sbattute. I balconi traboccano di donne e bambini. Sembra un popolo che si dissotterra. Prati e praterie trasudano popolo.

Gli spavaldi e briganteschi soldati di Carnia improvvisano una violenta fucileria al cielo per festeggiarmi. Le donne accarezzano, abbracciano la mia 74. Sono accecate dalla gioia.

— Viva il nostro liberatore! Viva il liberatore di Tolmezzo! Viva l’Italia! Veniamo con lei ad Amaro! Gli Austriaci sono partiti 2 ore fa! Hanno detto che si sarebbero trincerati ad Amaro!...

A pochi metri scoppia un tumulto inesplicabile intorno a tre donne vestite di bianco.

Crollano ai miei piedi abbracciandomi le ginocchia.

— Signor tenente, ci salvi, ci salvi! Lei lo può dire, non siamo slave, non siamo austriache, siamo triestine! Quante sofferenze! Tutto un anno di torture!

Non ho tempo da perdere. Salto in macchina e mi apro la strada con la mia blindata nella folla vorticosa.

— Largo, largo, ci lascino passare!

Una vecchia è caduta davanti a noi e Menghini deve con scatto pronto virare per non arrotarla. Poi via per la strada d’Amaro sotto le alte, voluminose forze concentrate del Monte Festa. A un chilometro piombiamo su una colonna di carreggio.

— Giù Ghiandusso con me! Prendi due bombe e revolver. Tu, Locatelli, pronto alla mitragliatrice!

Poi di corsa con Ghiandusso verso il sergente ungherese che segue l’ultimo carro.

— Tutti giù! Arrendetevi! Volta i cavalli e indietro!

Il sergente, esita un attimo poi cede. Tutti gli uomini del carreggio sono disarmati.

— Indietro! grido. Via! Troverete a Tolmezzo la colonna di prigionieri.

Faccio fiutare al sergente il mio revolver e la mia bomba a mano, poi salto in blindata. Ho il corpo quasi tutto fuori dallo sportello aperto, il revolver in pugno. La strada sale e scende. Le prime case di Amaro. Sorpresa: una mitragliatrice spara da un bosco alto sulla destra! Contro chi spara, quella mitragliatrice austriaca? Non è austriaca. Vedo correr giù gli ormai famigliari nostri nomadi di Carnia. Urlano:

— Amaro è piena di austriaci, sono più di quattromila! Veniamo con voi! Abbiamo una mitragliatrice sulla montagna. Ora la portano giù!

Sulla prima piazzetta la mia blindata si ferma presa da una folla irruente. Non si muove più, come una nave stretta dai ghiacci. L’immagine mi è suggerita dalle enormi masse di crisantemi che le donne portano fra le braccia. Bocche squarciate dalla ressa delle parole. Bocche che balbettano incretinite. Mani che graffiano macchinalmente le vesti, mani alzate di vecchi che mi benedicono. Torrente di folla gioiosa che si gonfia fra le casette fragili. Sembrano beccheggiare le casette tanto pesano a prua e a poppa i balconi sovraccarichi di edera umana.

Verso il Sole, punto matematico del problema di guerra risolto, salgono le spirali delle respirazioni sibilanti e della polvere dorata. Salgono i coni dell’entusiasmo lanciati su steli invisibili dai nostri cuori fontanieri. Cozzano insieme le sfere volanti delle voci e i triangoli dei gridi fra le geometrie ubriache dei tetti che si sfasciano dalla gioia.

Un uomo cinquantenne dal viso rossastro, baffuto mi abbraccia per forza spiaccicandomi sulla bocca un bacio che non riesco a scansare. Dice con voce rotta:

— Ero alla finestra... quando ad un tratto ho visto arrivare la sua macchina sulla strada. Sono caduto in ginocchio, ho alzato le mani al cielo e ho gridato: L’Italia è qui! L’Italia è qui, Dio cane!

Cammino a fianco della blindata che avanza lentamente verso la piazza principale. Ho il revolver nella mano sinistra; e la mano destra nel tascapane pieno di bombe.

— Grazie, grazie, ma fate largo, largo!

Le donne non ascoltano e rovesciano fasci e fasci di crisantemi sulle ruote, sul motore.

— Basta! basta! Questi sono fiori di morte. Oggi è giorno di vita. Scansatevi, allontanatevi!

Confusione indescrivibile, rimescolio di pentola bollente. A pugni apro un varco alla mia blindata che si ferma nella piazza centrale.

— Là, a quel primo piano hanno preparato la mensa degli ufficiali, mi dice un borghese. Vi si affaccia un maggiore ungherese, strepitando giù ordini incomprensibili.

— Locatelli, punta quella finestra, fuoco!

Ta ta ta ta ta gring grang di vetri rotti crollanti.

— Vieni con me, Ghiandusso! Guardami le spalle! E tu, Locatelli, fa fuoco contro quelle finestre.

Mi slancio verso la porta dalla quale escono in tumulto molti ufficiali.

— Giù le armi, arrendetevi!

Il primo, un tenente, è agile, muscoloso, ma pallidissimo. Gli strappo la baionetta-pugnale dalla guaina che porta al fianco. Al secondo che si avanza minaccioso scarico un tremendo pugno nello stomaco. Lo prendo per il colletto colla mano sinistra, mentre la mia destra strappa la baionetta-pugnale che nel gesto dal basso in alto sfiora la sua bocca che trema. Potrebbero sgozzarci. Siamo 14 uomini con 6 mitragliatrici in mezzo a 4 mila nemici con circa 50 mitragliatrici. Ma le nostre Autoblindate terrorizzano. Portiamo sul viso la schiacciante spavalderia della vittoria e i nostri occhi sono degli invincibili proiettori di forze.

Il mio compagno tenente Bosca con la sua blindata va in fondo al paese. Rimango solo fra il tumulto degli ufficiali che non vogliono lasciarsi disarmare. Il colonnello ungherese discute con un maggiore austriaco. Balzo fra di loro. Tolgo la baionetta-pugnale al maggiore e il revolver al colonnello. Rimangono impietriti.

— Via le donne, per Dio!... Menghini, Locatelli, Ghiandusso, cosa fate? Basta coi fiori e con le donne!... Salis, gira intorno alla blindata, sorveglia le gomme, e scarta le donne!... Locatelli! Gira la torretta, punta le due mitragliatrici di cupola verso l’ingresso del paese! Ghiandusso, va su a quel primo piano, apri tutte le porte, fruga bene e caccia giù tutti gli ufficiali che troverai!

Poi mi rivolgo ai soldati carnici.

— Su, disarmate quegli uomini!... Le armi a destra! Gli uomini a sinistra!... Se quelle carogne si muovono, sparate!

Il colonnello ungherese disarmato, si presenta a me, con solennità. Atletico, sessantenne, enormi baffi uncinanti.

— Prego, signor tenente... dove è il vostro colonnello?

— Qui sono io l’unico comandante italiano. Non fatemi perdere del tempo. Siete sconfitti. Arrendetevi senza tante chiacchere. Siamo seguiti da grandi forze che saranno qui fra pochi minuti. Altre blindate, cavalleria e bersaglieri ciclisti.

— Prego, prego. Io credo che ora è firmato armistizio.

— Non credo alle vostre parole. L’armistizio non è firmato. Ho l’ordine di farvi tutti prigionieri.

Interviene il maggiore, grassoccio, gesti melliflui, fronte bassa, viso porcino.

— Je vous prie, monsieur le lieutenent.

— Ne m’embetez pas! Vous êtes des voleurs, des canailles, des cochons! Si je vous abandonnais à la population de Amaro, vous seriez tous égorgés! Vous leurs avez tout volé! Quand on n’a pas d’argent, on ne fait pas la guerre! Vous avez compris? Quand on n’a pas d’argent, on ne fait pas la guerre!

Una donna mi tira per la giubba urlandomi freneticamente sulla mano che bacia:

— Coppèli, Coppèli! Signor Tenente, mi lasci uccidere quella canaglia del colonnello! stupratore! Mia figlia, mia figlia!

Io scarto la donna e col dito nel naso al colonnello:

—Vous êtes un lâche, un bandit, vous aussi, monsieur le major! Vous ne savez que mentir et voler! Vos faux parlementaires nous ont couté 30 bersaglieri! Vite, finissez! Tout le monde doit être désarmé, dans une demi-heure.

Ma sento che nell’allontanarsi col maggiore il colonnello pronuncia la parola «téléphone».

— Signor tenente, mi dice un borghese, ora il colonnello va su nella camera della gendarmeria a telefonare a Stazione per la Carnia. Là a quel primo piano.

— Fatutto, prendi il moschetto, baionetta innestata. Sali e taglia il telefono!

Fatutto sale per la scala di legno. Ma in alto vi sono degli ufficiali che discutono impedendogli di passare. In quattro balzi raggiungo Fatutto spingendo tutti dentro a pugni.

Il colonnello col microfono all’orecchio mi volta la schiena seduto. Lo strappo indietro prendendolo alle spalle. Rompo il filo e consegno l’apparecchio al borghese che mi aveva seguito.

— Te lo regalo, via! E voialtri, tutti, giù, fuori!

In fondo alla camera vi sono due ungheresi sdraiati su due brande.

— Anche voi, veri o finti malati, vi farete curare all’Ospedale di Tolmezzo!

Quando ridiscendo giù, spingendo davanti a me gli ufficiali austriaci, la situazione in piazza è peggiorata. Arruffio di gesti e troppe voci tedesche altisonanti. Ghiandusso che avevo sguinzagliato nei vicoli mi dice:

— Signor tenente, in fondo al vicolo, in un gran cortile, più di mille uomini prendono il rancio. Non vogliono lasciarsi disarmare.

— Vedremo. Menghini, vieni avanti colla macchina. Locatelli, punta in fondo a quella via. Supplemento di fuoco. Tira in alto.

Ta ta ta ta ta ta ta.

— Basta! Basta! Voialtri continuate a disarmare, presto! Armi a destra, uomini a sinistra! Dell’ordine, per Dio, dell’orrrdine! Ghiandusso, prendi il tascapane coi petardi, e vieni.

In fondo alla viuzza sporgendoci su un muricciolo basso, vedo a venti metri sotto, in un immenso cortile un migliaio di bosniaci. Confusione intorno alle marmitte. Grida di ufficiali, ordini incomprensibili. Alcuni caricano i fucili. Io grido con voce tonante:

— Arrendetevi!

Silenzio. Centinaia di facce attonite che mi guardano. Pochi alzano le braccia. Ghiandusso dietro di me scaraventa una bomba nel mezzo del cortile.

Sgraa – graaang.

Una ventina di feriti, nessun morto, tutte le braccia si sono alzate con un lungo ruggito di belva.

— Aprite la porta, e fuori tutti!

I soldati carnici accorrono per questo nuovo disarmo. Ma un colpo di revolver vicinissimo mi fa voltare.

Ghiandusso ha sparato nella spalla del colonnello che non voleva mollare le briglie dei suoi due magnifici cavalli. Meravigliosa razza di quei due animali da guerra che scalpitano orgogliosamente cercando di strappare le briglie dalle mani di Ghiandusso.

Davanti alle scuole, Bosca mi dice:

— Non possiamo fermarci. Bisogna giungere al più presto a Stazione per la Carnia.

Giungono a tutta velocità le due blindate di Volpe e Sacco. Da un prato basso salgono vociando uomini disarmati.

— Praga! Praga! Boemia libera! Austria caput! Viva l’Italia!

In segno di devozione si strappano dal berretto i due bottoni di metallo e lo stemma imperiale.

Fuori di Amaro la strada corre dominando i prati e le boscaglie che costeggiano il torrente Fella. Siamo 4 blindate lanciate a tutta velocità. Ci raggiunge il capitano Raby che nella sua vetturetta scoperta e senza blindatura si mette alla testa della squadriglia. Appare spavaldamente intrepido e strafottente accanto al suo volantista. Tiene fra le mani, sulle ginocchia una gabbia di colombi viaggiatori.

Davanti a noi, a un chilometro, il ponte di Stazione per la Carnia. È certamente minato ma ce ne infischiamo. Dalle boscaglie dell’altra riva partono dei colpi di fucileria, sparsi, poi più fitti. Una, due mitragliatrici ci bersagliano. Entriamo sul ponte distanziandoci. Davanti alle case di Stazione per la Carnia sbuffano due locomotive. Si scorgono due treni interminabili, sovraccarichi. Tutto il bottino carnico di una armata di ladri. Una gioia acuta ci trafigge le carni, le lacera, quasi vorrebbe sventolare i brandelli della nostra carne patetica. Alt sul ponte. Puntiamo le nostre mitragliatrici giù contro le boscaglie che nascondono le mitragliatrici austriache.

Ta ta ta ta ta giaaaa ta ta ta ta ta giaaaa.

Sono bosniaci cocciuti non ancora convinti dell’irrimediabile sconfitta. Spariamo avanzando lentamente. Ad un tratto le due locomotive si mettono in moto.

Ta ta ta ta ta giaaaaa

giaaa giaaaa giaaaaa giaaaaaa

Ridono gli echi della valle. Ridono, ridono al vedere i piccoli macchinisti neri precipitarsi giù dalle due locomotive e nascondersi sotto le ruote.

Quando sbocchiamo fuori dal ponte fra le case di Stazione per la Carnia, il lato destro delle nostre blindate suona sotto una rude raffica di pallottole strimpellanti. È una mitragliatrice austriaca vicinissima, nascosta fra le erbacce. Le nostre rispondono ferocemente tempestando il greto.

Ta ta ta ta ta ta ta ta ta ta ta ta ta ta ta

Giaaaa giaaaaa giaaaaaa

Ridono, ridono, giocano, strillano e beffeggiano gli echi della valle in coro. Ridono di gioia sotto il sole, cerchio radioso che le nuvole bambine fanno correre a colpi di raggi nelle liete praterie azzurre del cielo.

Ta ta ta ta ta ta ta ta ta ta ta ta ta ta ta ta

Giaaa giaaaaa giaaaaaaaa

Ridono gli echi della valle nel vederci tutti scendere dalla blindata e correre come ragazzi prendendo a calci, a pugni, a schiaffi i bosniaci, bestioni che non vogliono mollare le loro mitragliatrici. Si arrendono come cani ringhiosi o meglio come professori passatisti idioti che cedono a malincuore i vecchi dizionari della gloria austriaca tramontata sotto i nostri calci futuristi.

Davanti a me sulla strada la vetturetta di Raby si ferma. Il capitano, dritto in piedi:

— Arrendetevi!

Si sente un vasto e profondo scalpiccio. La mia blindata corre per venti metri e posso contemplare la testa del grande Corpo d’Armata che s’avanza lentamente verso di noi.

Precedono a piedi, funerei, i generali di brigata, i colonnelli e i maggiori. Unico spavaldo un colonnello grassoccio, mani sui fianchi, gomiti in fuori, testa alta. Ondeggia sopra, avviluppante, l’immenso puzzo nauseoso acido e dolciastro degli eserciti austriaci. Puzzo di fogna, stiva, iodio, sudiciume, orina fermentata, latrine, becchi, e serraglio. Raby in piedi grida:

— Siete tutti prigionieri!

Ma gli ufficiali austriaci e ungheresi discutono fra di loro animatamente. Corriamo col revolver in pugno.

—Monsieur le capitaine, dice un generale alto, secco, magro, dal viso pallidissimo solcato da due lente lagrime. Nous avons le droit de passer et de continuer la route vers Chiusaforte. L’Armistice est signé.

— L’armistice n’est pas signé! risponde Raby con voce dura. Rendez-vous avec toutes vos troupes! Vos deux trains ne partiront pas!

— Pardon, monsieur le capitaine, il faut que je demande des ordres au commandant de notre corps d’armée.

— Quelle chance! grida Raby. Nous ferons prisonnier aussi le Commandant de Corps d’Armée!

Intanto la colonna giallo-verdastra puzzolente delle truppe austriache appoggiava sulla sinistra della strada per lasciar passare una automobile piena di ufficiali. Fra questi, il generale comandante del Corpo d’Armata, muscoloso e panciuto. La faccia tonda naturalmente olivastra era terrea, con una febbrilità di palpebre e d’occhi un po’ smarriti che rivelavano il crollo di un’anima militare.

— Ho l’ordine, signor generale, dice il capitano Raby, di fermare qui il vostro corpo d’armata. Siete tutti prigionieri. Quando avrò dato i miei ordini voi verrete con me in questa automobile al comando della prima Divisione di Cavalleria.

Venivano intanto dalla strada di Chiusaforte, in bande fitte, i prigionieri italiani che si erano liberati quando l’annunzio del crollo del Grappa aveva segnato il primo sgretolarsi dell’impero. Uno di questi prigionieri più affranto degli altri oscilla tragicamente a tre passi da me poi si abbatte sul naso, svenuto dalla stanchezza e dalla fame. Menghini si slancia e inginocchiato scuote quel povero corpo svenuto urlando:

— Guardate! Guardate come hanno conciato i nostri fratelli! Ecco! Ecco cosa hanno fatto della carne nostra!

Si alza furente; poi come preso dal delirio, tendendo i pugni ai prigionieri austriaci si scaglia e percuote nella faccia un maggiore austriaco. Questo non comprende, bestemmia, vuole difendersi, ma Menghini lo atterra mordendogli le braccia. Il groviglio rotea, strilla, contro la blindata dove la mia Zazà abbaia impaurita. Sopraggiungono i primi bersaglieri ciclisti a tutta velocità agitando gli elmetti piumati.

Scompiglio e marea fragorosa. Gli austriaci si sparpagliano. Zuffe, corpi che rotolano. Cacofonia di cento lingue diverse: italiana, tedesca, slovena, boema, russa, ungherese, ecc. Mi slancio col revolver in pugno fra quell’abbaiare di cani e riesco a fermare i nostri mitraglieri e bersaglieri inferociti.

Un motociclista infila come un proiettile il ponte e si ferma in mezzo a noi gridando:

— La Viribus Unitis è saltata!

Scoppio di urrà frenetici. Il mio cuore si rifiuta di accogliere questa gioia massacrante. Non è preparato a questo galoppo furente di notizie giganti. Faticosamente, dolorosamente, il mio cuore ingoia godendo ma soffrendo come una gola lacerata. Sento gonfiarsi nel cielo un altro blocco di Felicità sovrumana. Blocco rotolante che precipita giù sui declivi delle nuvole per colpirmi in pieno petto. Ha un rumore battente come di mitragliatrice, ma allegro, allegro. Non è il ta ta ta ta micidiale, ma il top top top top delle grandi ispirate velocità. È una seconda motocicletta. La guida un sergente bersagliere, che rallenta, agitando col braccio sinistro il suo fez rosso, gli occhi schizzati fuori dall’entusiasmo:

— I nostri sono entrati a Trieste e a Trento!

Un impeto selvaggio mi scuote. Mi slancio, lo afferro pel braccio, e lo tengo fermo. Si ribella, quasi cade. Cado quasi con lui e la sua motocicletta.

— Se menti, ti brucio le cervella! gli urlo. Dimmi! Spiegami! Giurami! Che è vera, sicura, la notizia!

— Lo giuro, me lo ha ripetuto tre volte il generale in persona!

— Giura!

— Giuro.

— Su tua madre!

— Su mia madre.

— Aaaah! aaaaah!

Mi comprimo colle due mani il cuore che si gonfia, si gonfia dilatando, spaccando, le sue pareti che sono ora quelle enormi montagne, mentre la mia bocca spalancata beve, con trionfale voluttà lo smisurato fetore dei prigionieri austriaci, tutta l’infinita anima fetente dell’impero nemico sconfitto.

Ho uno strano viso feroce, violento, aggressivo ma i miei occhi sono pieni di lagrime di gioia. Le povere contadine sfinite di fame stanchezza che s’avanzano piegate sotto la gerla lungo il treno pieno del loro bestiame rubato, mi commuovono fino al singhiozzo e insieme arricchiscono le mie mani di artigli vendicativi. Vorrei baciare sul viso quelle povere vecchie italiane e poi stemperarmi sul pane le lagrime del generale austriaco vinto. Primitività stramba del mio temperamento vergine, selvaggio, schietto, elastico, pieno di barbarie crudele e di profonda umanità civilizzata. Temperamento che s’avventa, colpisce ma subito comprende perdona tutto, con alta bontà indulgente e serena.

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