XXVI. PAGIOLIN, COLOMBO VIAGGIATORE

Il disarmo incominciò. A sinistra si accatastavano i fucili, a destra le mitragliatrici. Nel centro i prigionieri austriaci abbrutiti, dondolanti nei loro cappottoni giallo-sporchi procedevano ordinandosi fra la spavalda e muscolosa giocondità dei bersaglieri ciclisti.

I prigionieri istintivamente ricercavano la loro antica disciplina, aspettando i comandi dei loro ufficiali che vinti conservavano ancora tutta la loro autorità tanto era ferrea la compagine del potente esercito che avevamo sfasciato.

Subito gli ufficiali austriaci trasmisero coi loro urli aspri di sciacalli l’ordine d’incanalarsi lungo le nostre automitragliatrici blindate e di infilare il ponte sul Fella per Amaro-Tolmezzo. Ma sopraggiungevano continuamente incontro a loro bersaglieri ciclisti a tutta velocità. Si vedevano girare laggiù sulla strada curva correndo verso di noi, e altri, altri ancora, lanciati come frecce alate di penne di gallo. La colonna dovette fermarsi. Un minuto di confusione: poi tre bersaglieri, abbandonando le biciclette, saltarono in sella su dei cavalli catturati, potenti bestie tutte ad archi di muscoli scattanti, e domandoli fra le forti ginocchia presero la testa e il comando della prima colonna marciante. Il primo, un siciliano dal viso rossastro polveroso di scugnizzo con occhiacci neri sotto il fez rosso moschetto ad armacollo. Sul suo grande cavallo bestemmiava: Accidenti! Cavallo irlandese o ungherese io non so! Ma i miei muscoli sono siciliani!

Anche i nostri soldati nomadi di Carnia comandavano colonne di prigionieri. Erano laceri e sporchi, ma tutti montavano senza sella cavalli stupendi.

Uno aveva una specie di turbante azzurro in testa e un grosso zaino da turista sulla schiena. Sembrava un generale turco. Sul fianco della strada le nostre blindate dominavano con le loro 18 mitragliatrici puntate tutta la divisione austriaca che si avanzava. Sss sss lento monotono stropiccìo di piedi stanchi. Zin zin tric gring zin di fucili che cadevano sulla catasta. «Fetente, vattenne, cammina! A cauci te faccio camminà, porcaccione!»

Cinquanta metri più giù davanti al Municipio nelle due automobili del comandante del Corpo d’Armata austriaco e del suo Stato Maggiore, gli ufficiali prigionieri seduti immobili guardavano con occhi che certo non vedevano. Intorno, i miei mitraglieri con moschetto e baionetta innestata montavano la guardia con facce ingenue di bambini intorno ad una enorme torta natalizia.

— Vuole che le faccia la barba? mi domanda un prigioniero in italiano, bruno, magrissimo e baffuto.

— Sì, ma a tutta velocità!

— Sarà servito. Sono napoletano, e primo parrucchiere. Sono anarchico, ma amo l’Italia.

— Non tagliarmi la faccia, perchè sono più rivoluzionario di te!

In un attimo, miracolosamente, la cassetta che egli portava sulle spalle partorì sapone, pennello, salviette e boccetta da profumo. Seduto su una mitragliatrice austriaca, constatai l’arte delicatissima di quella mano italiana.

— Che «salone» originale! disse il barbiere; è decorato a destra e a sinistra con montagne azzurre e ha un plafone che sembra il cielo di Napoli!

Quando ebbe finito, lo salutai con queste parole:

— Ora che da barbieri futuristi abbiamo rasoiato via la testa all’impero austro-ungarico, ti potrai permettere il lusso di fare la barba anarchicamente agli italiani.

— Contropelo?

— Sì, contropelo. Non dimenticare però di sciacquar loro il viso con l’acqua melodiosa del golfo di Napoli!

Il capitano Raby, che distribuisce ordini a destra e a sinistra, mi chiama.

— Marinetti! Marinetti! Siamo noi! Siamo noi che abbiamo catturato l’intero Corpo d’Armata! È una gloria nostra! È la gloria dell’ottava squadriglia! Vieni, vieni, ora mando il colombigramma al Comando Supremo!».

Seguiamo per alcuni metri il binario lungo il treno. Cataste di cucine da campo, mitragliatrici, fucili, stracci, paglia, sterco, carogne di cavalli. Nel fetore qua e là come cani randagi, delle montanare con gerla, sacchi e lanterne. Sono venute qui a frotte per riprendere la loro roba. Sono paurose. Ma si fanno audaci. Il loro numero aumenta. I vagoni saccheggiati, sventrati, bollono confusamente perdendo le budella.

Entro con Raby in un vicoletto. Fra due casupole troviamo la vetturetta. Sul sedile, una gabbia di legno bianco contiene i quattro colombi viaggiatori, che tubano.

Il sole tiepido di questo pomeriggio alleggerito da una brezza indolente e soddisfatta inebria i quattro colombi. Due, candidi. Uno col collo sfumato azzurro-viola. Il quarto brizzolato. Ma tutti avevano il caratteristico soprabecco bianco imbottito dei colombi viaggiatori.

Vuruvuru curru guruu guruu guruu.

Certo godevano i sottilissimi profumi muschiati e il gorgoglio di quel ruscello, ma non si illudevano. Sapevano certo di essere lontani dalla bella colombaia di Abano con le sue ampie scodelle piene di miglio e granoturco e i cestini per le covate, elegantemente sospesi e bene spaziati.

Questa è una terra diversa, rude e selvaggia e rimbombante di fragori più forti che le tempeste del cielo. Alzarono tutti e quattro il becco guardandoci con gli occhietti umani cerchiati di rosa.

— Raby, sono pronti! Guarda, hanno tutti capito! Vogliono tutti essere scelti. Quello lì si chiama Bianchetto. Quello Lulù. Ecco Pagiolin! Scegli Pagiolin! È il più forte, il più intelligente.

Pagiolin si lasciò prendere, felice, con un vuruuuuu vuruuuuu vuruuuuu melodiosissimo, di mano bagnata che freghi un giunco. Tre battevano la testa contro il legno della gabbia con furia invidiosa. Ma Pagiolin era veramente degno della nostra scelta.

Coricato nella mano aperta di Raby, bianco, snello, vivacissimo, ringraziava coi dolci occhietti umani cerchiati di rosa e offriva con languore femminile quasi impudico le zampette rossicce semivestite di soffici calzoncini di piume.

Un dischetto d’alluminio col numero 11 matricola e il numero 22 colombaia brillava sulla zampetta sinistra. Lo presi nelle due mani anch’io, e una tenerezza acuta, dolce, amara, mi portava quasi le lacrime agli occhi nel sentire battere con ritmo rapido quel piccolissimo cuore di bell’uccello veneto già ebbro di portare per le vie del cielo la grande parola Vittoria.

Raby scrisse su un foglietto:

«Truppe celeri, Stazione per la Carnia, 8ª squadriglia autoblindate hanno occupato stazione. Fermato e catturato due treni, truppe e comando 34ª divisione austriaca. — Immenso bottino e comandante Corpo d’Armata austriaco prigioniero.

Capitano Raby».

Il capitano introdusse il piccolo foglio in un tubetto di mezzo centimetro di diametro, lo chiuse introdusse il tubetto in un altro munito di due branchette di alluminio. Pagiolin si lascia torcere le due branchette che ecco stringono la sua zampetta destra.

— Guarda... mi dice Raby, i muscoli forti delle ali. Con qualsiasi vento, 60 chilometri all’ora! Il dischetto bilancia bene il peso del tubetto!

Facciamo largo intorno a Raby che con forza slancia in alto il colombo.

— Viva Pagioliiiin! Addio Pagioliiiin!

Ma Pagiolin non s’innalza molto. Dà qualche colpo d’ala e si posa sopra un tetto. Bianco, saltella sulle tegole rosse girando la testa. Momento d’ansia, doloroso.

— Cosa fai, Pagiolin? Cosa fai? Cosa fai?

Accorrono i soldati con applausi, saluti consigli... Pagiolin leva il becco al cielo. Dieci secondi gli sono bastati a fiutare le correnti aeree. Con uno slancio improvviso si proietta in alto obliquamente. Sale, sale, sale, piccolissimo arruffio bianco, fiocco di neve nell’azzurro. Ora si libra a picco sul torrente Fella. Punta su Amaro, scompare.

Ma un altro invisibile colombo viaggiatore che batteva le ali nella gabbia del mio torace l’ha seguito con eguale velocità. Ora vola con lui fra due grandi cirri bianchi accecanti. Pagiolin non ama le nuvole. Hanno un insidioso monotono odore d’acqua schiava. Tutte quelle gocce condensate lo bagnano pericolosamente. Teme di appesantire le proprie ali, e non ha sete. Le nuvole gli ricordano quella brutta macchina moto-aratrice che gli appesta spesso la colombaia di Abano coi suoi sbuffi di vapore acqueo...

Senza contare i maledetti scherzi che fanno i raggi del sole nelle matasse delle nuvole! Sembrano forbicioni d’oro, brutti come quelli del giardiniere che tagliano i bei rami d’acacia fiorita sulla colombaia! Ogni volta che il giardiniere s’avvicinava con quel brutto ordigno la bella Vluruuum s’immalinconiva non tubava più. Pagiolin pensa a Vluruuum... Tra due ore! due ore e mezzo al massimo, quanti baci piccoli, piccoli, minuti, minuti e quanti smorfiosi strofinamenti di collo per togliersi l’un l’altro amorosamente gl’insettucci! E quante ciarle! Trionfo! Pagiolin potrà raccontare! Tutti gli amici della colombaia a becco aperto dimenticheranno le voluminooose, voluttuooose, vorticooose gare del loooro tubare. Anche i conigli, quei vili imboscati col loro culo a molla di lepri degenerate, abbasseranno le foglie candide dei loro orecchi tremando e ammirando.

Ma Pagiolin accelerando i suoi colpi d’ala si tuffa nell’ultimo globo d’argento filigranato del cirro. Non finisce mai, per Dio!... Gioia! Gioia! Finalmente può patinare col petto sull’azzurro levigato, invitante. Più nulla intorno. Può respirare e godere. Pagiolin punta il suo volo contro il Sole, favoloso colombo di fuoco, dal becco aperto nell’arruffio splendido delle sue smisurate penne d’oro. Gli rammenta Krukrù, colombo dell’equatore che aveva pure le penne a spirali, ma bianche. Morì un anno fa in colombaia il povero amico! Pagiolin gli voleva bene e l’inverno molte volte aveva lisciato e riscaldato col becco le povere penne freddolose. Nella luce sembravano d’argento.

Il Sole è però un colombo enorme le cui penne spiraliche d’oro potrebbero covare una montagna! Come risplendono, lunghe, lunghe! Bisogna salire, salire, salire ancora! Voglio vederle bene, vicino, vicino, sempre più vicino! Per sentire il loro rumore! Devono fare un delizioso rumore d’acqua nell’accarezzare quel nuvolone a destra. Oh! che brutto nuvolone! Sembra il fantoccio di stoppa di Peppino il figlio del giardiniere!

Volerò ancor più su. Ma cosa hanno mai le mie ali? Rabbia! Ho troppo caldo sotto le ali. Sono tutto bagnato. Su, su con forza! Ecco! Ecco il suono che volevo udire! È il sole che tuba. Che piacere sentirlo! Le sue lunghe penne spandono ora una dolcissima voluttà mescolata di rumori serici e liquidi che grondano l’uno sull’altro e si intrecciano con mille spasimi acuti.

— Oh! me ne intendo, me ne intendo, grida Pagiolin; io che sono il miglior cantore della colombaia. Col mio canto ho innamorato di me la bella Vluruuum. Che ridere! Bianchetto e Lulù non sanno cantare come me... Lo ha detto la moglie del colonnello, quella bella signora vestita di colori rumori fruscianti. È vestita anche lei di penne, ma morbide, morbide che il giardiniere chiama seta, velluto, pelliccia... Nel muoversi intorno alla colombaia la signora batteva le mani con gioia dicendo: «Pagiolin, Pagiolin, tu sei il primo cantore!» e mi regalò un miglio speciale! La sua veste di seta e velluto cantava come me e come il Sole. Il Sole però tuba più forte di noi!

Nell’entusiasmo Pagiolin raddoppiò il battito già celere delle sue ali, entrando nella polifonia solare. Strimpellavano con gesti immensamente circolari i Venti sui mille raggi del Sole come su corde tese incendiate dal lirismo.

Certo la vittoria aveva commosso il Sole! Il Sole, grande occhio attento di arpeggiatore seguiva sulle lunghe sue corde tese i galoppanti accordi i maliziosi pizzicati e le molli frange di vibrazioni sbocciate nel cielo. Il Sole si moltiplicava nell’ampio cielo orchestrale. Volubilmente si innalzavano delle nuvole, tortili come canne d’organo e mantici profondi nei quali il Sole comprimeva a forza di pedale i Venti globulosi. Questi diventavano soffii melodici e salivano salivano ad inaffiar di fantasia le infinite orecchie attente, invisibili, delle invisibili stelle. Il calore dei suoni era tale che le nuvolose canne d’organo s’incendiavano al passaggio d’ogni nota fondendosi qua e là per eccessiva ebrietà. Sopraggiunsero volando sciami di nuvolette rosse, snelle piene di trilli, rimbalzelli, giuochi, scherzi, schianti di cristalli coralli trallalera tralla la, come aeree serenate di chitarre, mandolini e spumanti bottiglie trallalera tralla là.

Milioni di bottiglie del più spumante Asti sonoro schizzavano, decapitate ma allegrissime sulla tavola imbandita del cielo, fra le ondate orchestrali dei raggi, lunghi archetti d’oro che spremevano giù nelle profonde cavate il terrificante cuore dolcissimo di Dio.

— Dio! Dio! Dio! Dio! gridava Pagiolin. Dio è luce! Dio è musica! Dio è profumo! Sono a mille metri a picco su quella vasta ferita terrestre. Cosa è mai? Cosa è mai? Certo le folgori hanno squarciato così la terra! I fulmini nemici del Sole! Ma il Sole oggi stravince. Sono l’amico del Sole! Ma più in alto del Sole c’è Dio, ed io voglio navigare nel suo respiro sublime!

Con allegria pazza due volte, tre volte, quattro volte Pagiolin capriolò abbandonando le ali come un nuotatore nell’onda e nella schiuma del canto. Poi giù a capo fitto nel suono più denso. Le sue ali sfioravano le lunghe corde d’oro tese dai raggi solari. Ruzzolò giù. Era troppo ebbro e il sudore gli scorreva sugli attacchi delle ali.

— Come mai ho dimenticato la mia santa missione? Mezz’ora perduta! Impenitente bambino che sono! Ma il tubetto è ben saldo e anche il dischetto. Giù! Giù! Bisogna scendere, scendere. Che fresco! Che fresco!

Per alcuni minuti Pagiolin seguì una impetuosa corrente gelatissima, che con ritmo uguale lo trascinava. Ora rideva della sua paura di poc’anzi. Ad ali aperte filava con crescente velocità cercando a destra e a sinistra col becco la decifrabile varietà degli odori.

— Questo è odor di menta selvaggia. Questo è il timo asprigno. Oh! che buon odore di resina. Saporito, questo viluppo di moscerini agonizzanti! Mangiamo. Bisogna pur rinfrancarsi lo stomaco, in viaggio.

Ad un tratto la corrente gelata modificò il suo ritmo equilibrato! Ora tumultua, schizza, cicloneggia, spalanca dei buchi come botole traditrici. Pagiolin riprende a volare con tutta la forza delle sue ali. Sente una pressione contraria. Vento duro a scatti che lo soffoca. Deve più volte chiudere il becco. «Accidenti! Ho perduto quel branco volante di moscerini saporitissimi!».

La corrente contraria che s’insinua nell’immensa corrente gelata che egli segue lo assale con tanti odori salati, diversi per forma e intensità. Ovuli giranti di odori amarissimi. Un odore oblungo e trasparente di iodio. Un gomitolo irto di ammoniaca. Un blocco massiccio di bromo. E miliardi di aghi di sale luccicante e buoni da ingoiare. La salubre spruzzaglia delle onde del mare, laggiù, alla foce del Tagliamento.

Pagiolin non esita più. A destra, a destra, con raddoppiata frenesia di ali, vince rimbalzato, rimbalzante, vince travolto e resistente, la grande corrente gelata. Questa decresce sugli orli, cede, cede. Pagiolin è fuori. Schizzando via si slancia in una atmosfera quieta come una morbida amaca smisurata. L’aria è dolce come il respiro di Vluuruuum quando gli dorme vicino, col suo vuuruuuum, vuuruuum... Pagiolin vuole riguadagnare il tempo perduto. Egli sa che l’aria stagna queta e senza bizzarrie di correnti sopra i boschi, poichè i fogliami pompano i capricci dell’aria. Sente a destra l’odore acido bruciaticcio delle brughiere e piega a sinistra abbassandosi. Non vuole stancarsi a lottare con quelle insensate cavallerie di venti che devastano le brughiere.

A sinistra giù giù, ecco dove bisogna volare! Su quei fogliami dove l’aria è immobile e più giù ancora su quegli orti dove l’aria è un letto di piume. Quel fresco odore di insalata e i filamenti di profumo di quel giardino pieno di rose, e quel rimescolio d’odori cotti che con rumore di stoviglie grasse sale da quel villaggio. Non è sgradevole quella acredine di fieno, anzi eccitante! Pagiolin la beve, a becco aperto, nel rasentare a precipitosa velocità i ciuffi d’erba che ornano un nero campanile. Fuori dalla gonna sventolante della prima campana calcia un tumulto di bronzo acciabattante, che spaventa Pagiolin. Spavento misto di curiosità. Ecco un altro campanile. Via, via, via, con folle entusiasmo Pagiolin lo aggredisce quasi si schiaccia sopra. Affascinante batacchio. Gamba perduta di danzatrice pazza. Battito diventato proiettile fuor dal cuore sonante.

Pagiolin è troppo ebbro. S’irrita, smania di non poter riprendere la sua calma precisa di volatore lampo.

— Mi hanno chiamato colombo-lampo! Sei un treno lampo, diceva la moglie del colonnello. Presto li rivedrò, i treni, e li sorpasserò!.

Un’altra corrente pure gelata taglia purtroppo la strada a Pagiolin. Ma, furbo, sente che è meno alta della prima e su, su, Pagiolin la scavalca con disinvoltura per ripiombare due minuti dopo nella quiete solenne dell’atmosfera. In realtà è una quiete compressa tra pericolose agitazioni. Pagiolin ricorda, prevede, intuisce che altre correnti gelatissime lo aspettano. Non vuole perder tempo in continue scalate: decide di salire a duemila metri per poi dare la sua massima velocità senza scosse, deviazioni, nè saliscendi. Si sente bene. I muscoli delle sue ali hanno un ritmo forte, uguale, scattante e i suoi nervi ripercuotono fino all’orlo estremo delle penne la sua precisa volontà timoniera. Nel salire Pagiolin che non conosce indecisioni nota distrattamente che l’atmosfera si condensa invece di alleggerirsi. Una lieve nebbia senza importanza, pensa, sarà presto attraversata. Sale, sale per un quarto d’ora. La sua velocità è grande e il suo umore sereno, ma l’oscurarsi dell’aria lo incomincia a preoccupare. Dove mai è andato il sole? Ah! vedo, là a sinistra! Come è scialbo! Sembra quel focherello di legna verde che i soldati accendevano d’inverno a tre metri dalla colombaia, a forza di polmoni, soffiando lagrimando e bestemmiando.

— Accidenti! grida Pagiolin, il Sole si è spento! Lo prevedevo. A furia di coprirmelo con tutta questa nebbiaccia l’hanno soffocato! Nebbiaccia infame!... Macchè nebbia! Sono in un nuvolone di pioggia!

Pagiolin scivola giù dieci metri poi risale nel grigio e nel nero. Accelera i colpi d’ala. Ad un tratto sente sotto di sè un gorgo che lo pompa, e da destra a sinistra, sente cento mille mille mille zanne di pioggia e un mitragliamento di grandine. Pagiolin non perde la calma. Fiuta, e decide di salire ancora. Una battaglia ferocissima di vento lo fa traballare. Uno, due, tre capriole vertiginose, poi Pagiolin si tuffa nel vento più potente che ha vinto gli altri venti, imponendo il suo ritmo di smisurato serpente fluido fra cento serpentelli rischizzati via e sgominati.

Non è il caso di lottare. Pagiolin si abbandona colle ali chiuse come un proiettile, in questo vento che irrigidisce la sua corrente. Profondissima volata di un cannone senza pareti che spara continuamente.

Fu così che Pagiolin proiettile vivo fu lanciato in mezz’ora nel cielo di Venezia. Grigio, ombra carbonosa e spaccamenti sulfurei di cielo, e lunghissime colonne isteriche di fuoco che salgono, scendono solcano e subitamente crollano sull’invisibile calma del mare. Ad ogni minuto, Pagiolin che ha tenuto fino ad ora le ali chiuse, tenta gli spessori del vento con una cauta mossa dell’ala destra. A poco a poco, gli spessori rallentano la stretta. Si slabbrano davanti dei piccoli varchi di azzurro. Pagiolin vorrebbe raggiungere il sereno, ma teme di smarrirsi sul mare. È tardi! È tardi!

A mille metri, in alto, davanti a sè, Pagiolin vede una macchia nera che gli viene incontro rapidamente. Ingigantisce, ingigantisce. Non è un nuvolone, non è uno spessore d’aria. Sembra quella strana costruzione di originalissima colombaia di tela su palafitte piena di uomini nudi che egli aveva ammirato in un’alba famosa sulla costa di Pola dove aveva viaggiato nascosto e talvolta al balcone della tasca d’una spia italiana! Ma come diavolo ora volava quella strana colombaia di tela? Pagiolin la osserva a cento metri su di sè. Non è una colombaia di tela! È una di quelle gigantesche aquile di ferro e tela tante volte contemplate ad Abano quando si slanciavano in alto, portando uomini imbottiti di penne che poi lasciavano cadere degli sterchi neri scoppianti.

Pagiolin ha molto meditato, e finalmente compreso la bontà di quelle aquile benigne che non uccidevano i colombi, ma uccidevano per amor di libertà aerea, quelle brutte gabbie d’uomini che sono le città.

Ora egli sente che quest’aquila di ferro e tela che vola lassù ha forse bisogno di lui. Strani questi uccelli, pensa Pagiolin, hanno ali larghe dieci metri, ma non hanno il fiuto decifratore di odori contradditorii. Non possono distinguere l’odore che rivela la curva di una costa a duemila metri di distanza, dall’odore che indica lo spessore di un vento e tante altre cose che egli sa. La loro ampiezza d’ali esaspera la superbia dei venti che se le abbrancano, le squartano. Sono aquile bonaccione e i venti sono pessimi. Non possono quelle aquile di ferro e tela diventare come lui docili proiettili, schizzar fuori dalle mani dei venti se per caso distratti rallentano la stretta.

Pagiolin accelerando convulsivamente il battito delle sue ali si slancia e sfiora con ghirlande di volo la grande aquila nera, che ora barcolla, mostruosamente fra gli spintoni e le zampate dei venti. Ha le due ali lacerate tutte a brandelli fumosi, come la baracca incendiata che bruciò tutta la notte vicino alla colombaia di Abano. L’aquila di ferro e tela arranca e si sforza di equilibrarsi con disperati colpi di reni. Sembra perduta. Gli uomini che porta sul dorso sono affaccendati nell’accarezzare il suo cuore di gas esplosivi. Cuore frenetico che a furia di battere ora s’infiamma di viola e blu. Cuore virulento che ha forato la carne e le ossa della schiena e schizza fuori, vampe e fruste di scintille.

Come soccorrerla? Fra poco certamente il cuore appiccherà il fuoco alle ali.

Pagiolin vola a destra, a sinistra, sotto, sopra pazzamente sfiorando gli uomini che lavorano, intrico nero di braccia sul dorso sobbalzante. «Mi vedranno! Finiranno col vedermi! Se la bufera non sbraitasse tanto forte, gemerei, griderei nelle orecchie di quegli uomini. Non mi sentono, ma mi vedranno! Gioia! gioia! gioia!!! Mi vedono, sento che mi vedono! Ora mi seguiranno. Io so il varco. Di quì, di quì, venite!». Pagiolin si precipita contento di sentire dietro di sè la grande aquila ferita col suo cuore in fiamme: «Viene, viene dietro di me! Ecco il varco, giù giù! Con me, a capofitto!» Fuori dalle tenaglie del vento e dal nebbione! Fumo grigio-perla, azzurro, azzurro, azzurro. A sinistra, l’immensa pelle fremente del mare in allegria dorata sotto le lunghissime dita del sole tramontante che gioviale si diverte a farle un innumerevole solletico.

A destra, la generosità sparpagliata d’acque verdi azzurre che il Piave regala al mare. Giù, scendiamo. Pagiolin si volta di distanza in distanza per constatare che la grande aquila ormai equilibrata ha ripreso il battito regolare del suo cuore con le sue due ali eroiche, torce spente con lunghissime scie di fumo.

Come un cane fedele guida un cieco, Pagiolin ha guidato l’aquila di ferro e tela accecata dalla bufera. Ora volano insieme a trecento metri sopra i lavori febbrili d’un ponte ferroviario sul Piave. Pagiolin vede le grandi gabbie di ferro che partoriranno i pilastri. S’accendono le lunghe lame azzurro-violette dei proiettori che tagliano geometricamente la notte. Sembrano raggi solari nelle vetrate di una cattedrale rovesciata.

Pagiolin sa le insidie delle luci e crede soltanto agli odori. Vede le forme agili dei lavoratori bollire in oro caldo sui due bracci di ferro tesi del ponte rotto. Ma preferisce studiare gli odori di sterco e di legno bruciato che salgono da quel vasto braciere formato da mille fuochi, ognuno orlato di facce e mani di terracotta. Accampamento di prigionieri. L’aria s’imbruna rapidamente. Presto, presto, poichè la notte sarà molto gelata. Un altro accampamento, più fitto, di fuochi. Ogni metro un fuoco fra le rovine caricaturali delle case sventrate. Pagiolin ha capito. Piega a sinistra moltiplicando la sua attenzione perchè ogni battito delle sue ali sia efficace. È gonfio di gioia. Porta l’annunzio della vittoria totale dell’Italia e insieme l’onore d’aver salvato una grande aquila di ferro e tela.

Quei fuochi, quei piccoli fuochi, diversi da ogni altro fuoco! Pagiolin li riconosce. Sono le lanterne cieche dei carabinieri che vegliano al controllo di Abano. Secondo controllo. Altre lanterne cieche con piccoli annaffiatoi di luce gialla. Finalmente il Comando Supremo. L’immensa casa è illuminatissima. Trecento occhi di bragia. L’officina centrale della guerra lavora. Sembra a Pagiolin la colombaia incendiata che aveva abbandonata un anno prima a Udine, quando c’era tanta confusione di Comandi, e non c’era mezzo di fare un volo utile. Ora tutto procede bene. Una folata di odori fedeli affettuosi lo investe. Il suo odore, l’odore di Vluuruuum! Divina miscela di odori zuccherini, freschi-caldi, quasi una polvere di pelurie odorose e di sterchi cotti dal sole e volatilizzati. Una emozione spasmodica spreme il cuore di Pagiolin mentre spalanca il becco per bere a larghi sorsi i moscerini saporiti che salgono dalle gore predilette. Guarda, guarda e vede un’ombra nera muscolosa in una finestra accesa. La quadratura di spalle rudi e maschie del capo di tutti gli uomini che il giardiniere chiama: Badoglio. Pagiolin lo ammira chino su una grande carta rossa, blu, rosa, illuminata. Sopra quella carta misteriosa vi sono delle forme simili a quelle che fanno gli sterchi di Pagiolin cadendo sull’impiantito della colombaia, quando appollaiato in alto gode il tepido rosmarinato pomeriggio, liberandosi il ventre dal peso soverchio.

Al di là del palazzo del Comando, Pagiolin per gioia e per dovere, fece strepitare le sue ali. Tutti dovevano vederlo, applaudirlo. È lui! È lui che porta l’annunzio celeste! È lui il colombo fortunato fra tutti i colombi! Ha osato, lottato, conosciuto, vinto tutto. Sa tutto. Potrà raccontare tutto! E si precipita giù nel profumo dei profumi adorati della sua colombaia.

Grande frullo frullo frullo d’ali. Rimescolio, balzi e traslochi di pennuti. Si sveglia la bella Vluuruuum e si slancia al cancelletto. Tra i fili metallici, i due beccucci innamorati si incontrano, si sfiorano, sfiorano, sfiorano, sfiorano. Pagiolin è un maschio fiero, quasi un veterano del cielo. Pochi baci gli bastano, e tendendo il becco tuba, tuba, tuba, tuba, con eloquenza morbida, gorgogliante, vellutata, rumorosa, ruvida, voluttuoosa, vorticoosa e insieme rorida di lagrimette eroiche felici.

— O mia Vluuruuuum faremo all’amore stanotte. Prima ti debbo raccontare. In quanto a voialtri, ali rammollite, imboscati senza fiato nè fiuto né frullo, finite il vostro strepito! Voglio il silenzio. Un silenzio assoluto. Ho visto, ho visto grandi cose. Ho visto i grandi italiani come gattacci imprigionare in una trappola di montagne mille le mille e mille e mille e cento volte mille brutti topacci austriaci che avevano rubato tutto il formaggio...

Ma la stanchezza lo vinse. Quando, dieci minuti dopo, una mano venne ad accarezzarlo e tirandolo fuori dalla colombaia lo rivoltò, lo rovesciò per liberare la sua zampetta destra dal tubetto pieno di vittoria, Pagiolin sonnecchiava.

Non fece all’amore quella notte, era troppo stanco; e la sua fedele Vluuruuuum si accontentò di vegliare il suo sonno quieto, ma di quando in quando scosso da un sogno convulso e angoscioso. Pagiolin sognava la tragedia della grande aquila di ferro e tela salvata dalla ferocia dei venti.

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