XXVII. UN’ISOLA PROFUMATA NEL FIUME PUZZOLENTE.

Il quattro novembre al tramonto, sulla strada di Chiusaforte, nella mia blindata ferma prua che divideva il nerastro filosofico puzzolente fiume di prigionieri austriaci.

Vinto il nemico tanto giustamente odiato, mi sento vuoto vuoto e disoccupato e m’addormento sul volante, straricco di vittoria, fra un’immensa straccioneria di eserciti disfatti. Beato. Con lagrime dolcissime fra le ciglia. La mia fame sognò un’elegantissima tovaglia, infinita serica fuga di morbidi perlacei riflessi che fluttuavano. Ed era, uscito fuor dalla passione del tramonto e dai suoi laminatoi, il mare siciliano metallo lucidissimo che cullava elasticamente undici vulcani-isole dal fumo distratto. Sognavo.

Presto dentro più presto più dentro un’acuta parola girante: Vittorrrria, mi trapanò il cranio e via pel cielo volando scavalcò il mare e rimbombò nei capaci polmoni ovoidali dello Stromboli Stromboli Stromboli. Sognavo.

Una gioia bollente fece saltare il tappo di lava del secondo vulcano. Schizzò altissimo il suo getto di fuoco spumante. Il terzo vulcano sputò obliquamente sul mare cento luminarie di bragia a ventaglio, mille regate di diavoli, e ripescò tutte le sirene morte, galvanizzandole. Eccole, guizzano, occhieggiano, baciano, uccidono. Altalena di buio luce... buio... luce... Chi è che urrrla? Perchè piaaaaangi così?

Vulcani alcoolizzati o gigantesche bottiglie di delirio?

Il quarto vulcano sturato schizzò risate d’oro, smorfie di porpora e spiralici lunghissimi ironici smeraldi. Il quinto vulcano pareva una rosea spremuta di belle donne nude e di immense arance cigliate che guardavano. Sognavo.

Tutti quei vulcani – isole – bottiglie – cuori spararono il loro fuoco d’allegria furente con ampio frastuono di tappi e rintocchi contro il sole pallido sordo astemio morente che annega.

L’undecimo vulcano lanciò allora la sua colonna di fiamma a ventidue chilometri di altezza. Quando quando... quando vi giunse, piegò il suo pennacchio vermiglio e questo fece il giro della terra e lo seguivo in sogno mentre velava e svelava quelle tonde natiche veloci tatuate di continenti e mari.

Mi sveglio di soprassalto.

— Chi mi graffia il viso? Chi, chi?

Ghiandusso che montava la guardia in torno alla mia blindata si avvicina:

— Signor tenente, nessuno, nessuno. Lei ha fatto un brutto sogno.

— Anzi un sogno bellissimo! Ma ad un tratto mi sono sentito graffiare il viso. Ho dormito molto?

— Due ore, signor tenente, sono già passati diecimila prigionieri austriaci, tre brigate... La Zazà ha morsicato la gamba di un colonnello ungherese. Ora dorme dietro di lei. L’ho messa dentro perchè mordeva le gambe ai prigionieri. È diventata un po’ cattiva dopo il parto. Sa, signor tenente, come discutono fra di loro il cane tedesco e il cane italiano? Il cane italiano domanda: «Cosa hai in bocca?». Il cane tedesco: «Flaaaasc». Per pronunciare questa parola spalanca la bocca e lascia cadere la carne. Il cane italiano si precipita e abbranca la carne. Allora il cane tedesco: «Cosa hai in bocca?». Il cane italiano risponde coi denti stretti sulla carne che non molla: «Carrrrrrne!»

— Non è così, Ghiandusso, credo che il cane italiano tenga i denti stretti per respirare il meno possibile il puzzo terribile del cane tedesco.

Fuori: un tramonto di nuvole vermiglie lacerate come pezzi enormi e brandelli di carne macellata. A destra e a sinistra della mia blindata, che teneva il centro della strada, il fiume monotono, grigio, giallo-sporco e verde verminoso dei prigionieri spandeva un puzzo mordente esasperante fatto di mille puzzi diversi ugualmente nauseanti e insopportabili.

Visi scialbi, gualciti, spremuti con piccoli occhi celesti smarriti. Facce gonfie come nutrite di fango con gote cascanti. Facce plasmate di bile. Baffi gialli che schizzano fuori dai visi scheletrici. Bestiame umano masticato dall’uragano. Occhi vitrei che fissano senza vedere. Lerciume ondeggiante di cappottoni curvi come verniciati di sterco e piscio. Sembra veramente un fantastico fiume di putredine, spessa quasi solida, oppresso da un affastellamento di stracci luridi, e misteriosamente spinto da un’invisibile corrente che lo conduce verso lo spiraglio-gorgo di una cloaca capace.

Vi sarà poi in Italia una cloaca adatta a ricevere quel triste fiume? Il sole rosso lancia dalle brecce delle nuvole brandelli di carne su quel bollore di schiene.

Per un istante mi sforzo di distinguere con nari eroiche gli odori. Cavolo fradicio, piaga putrefatta, alga morta, piedi sporchi, vello di montone, piscio di gatto, cancrena polmonare, muffa, sterco, orina, vecchie bende insanguinate, ghetto, stiva, caserma.

Ma rissano fra di loro quei puzzi. Ora gli sterpi, i rovi e le baionette degli odori ammoniacali infilzano, lacerano, e squartano dei vasti flaccidi tondi puzzi zuccherini, simili a pance di carogne galleggianti. Sopra di loro grandinano lunghi odori proiettili che colpiscono direttamente lo stomaco e lo rovesciano. Poi domina una languida risacca di odori dolciastri che colmano ogni poro della pelle di nausea funerea e di morte. Ricordo involontariamente il puzzo tipico di cadavere-sterco-fango delle trincee della Vertoiba. Ma questo che ora mi invade è un ben più terribile puzzo impregnato di morte, ma vivo, attivo, insinuantissimo. Vuole dominare, inondare di sè la profonda valle del Fella e soffocare le fresche respirazioni verdi, sane del Tagliamento.

Povere valli prostituite! Tutte le innumerevoli bocche vegetali use a fiatare nel tramonto profumi di timo e menta selvaggia sono imbavagliate! Tutti i pini coi loro incensieri di resina naufragano asfissiati nella marea di torridi puzzi avviticchianti feroci, granulosi che agganciandosi e spumando salgono, salgono ad insozzare le cime! Queste esasperate dall’orrore sembrano centuplicare la loro splendida bellezza di smisurati corpi, vivi, nudi, rosati dal sole. Non ammettono, rifiutano il tragico fiume d’immondizie umane che assale i loro fianchi. Emergono cime nevose, tornite, gonfie di salute e desiderio come belle poppe di donna con in alto il bottone di rosa montana del capezzolo offerto ad un vento maschio selvaggio tutto muscoli in velocità.

Ma questo non viene ancora.

Agli innumerevoli puzzi catalogati si aggiunge quello irto d’aghi dei pidocchi. La pelle del cielo bianca si contrae schifiltosamente con un primo prurito di stelle.

Potrò io difendermi nella mia blindata immersa come un’isola nel fiume di corpi e odori saturi di morte?

Scivolando dentro per le feritoie, penetrano gli abiti. Il grigio-verde della mia giubba ne è già inzuppato. Salgono nelle mie nari ad avvelenarmi il sangue e ad offuscarmi il cervello: le belle parole della vittoria si smembrano in un’atmosfera cerebrale d’incubo. I miei pensieri hanno il viscido colore giallo sporco-nerastro di quei cappottoni curvi che passano, passano senza fine. Ventimila prigionieri sono già passati. Ne passeranno altri trentamila. Penso che lo smisurato cadavere dell’Austria spiaghi fuori dalla sua pancia sfondata un gigantesco e terrifico budellame che per la valle della Carnia inonderà la divina penisola nostra.

Il mio cervello allucinato non riconosce più il bel sole italiano della vittoria, volante corridore nella ruota d’oro che formano le sue gambe accese moltiplicate dalla velocità!

Vedo laggiù sul Tagliamento un sole straniero e odioso: brutta faccia tonda alcolizzata e smargiassa che nei dentoni d’oro falso prominenti, e i labbroni tabaccosi, si sforza di riassumere tutta l’insolenza l’infatuazione, la megalomania, l’impudenza sanguinaria e il guittismo balordo dell’impero austro-ungarico defunto.

Quel sole ha posato le sue mani molli, effeminate, piene di anelli rubati, su quell’isoletta del Tagliamento. Strana isoletta camuffata. Con le lussureggianti ondulazioni della sua capigliatura di vigne arricciate, pettinate, impomatate disposte con troppa cura in piani successivi, come una parrucca dai mille brilli grigi-azzurri-argentei, e piccoli infiniti rubacuori. Quella isoletta riassume tutta la grazia vana e passatista di Vienna.

Il mio spirito, affondando nelle allucinazioni fra le due colate di corpi e puzzi avvelenanti, teme la pazzia. Dove sono i Venti italiani e le loro furenti scope salutari? Un dolce fiato inodoro mi risponde. Sento che un Vento italiano si è insinuato nella valle. Ecco addenta il piedestallo di nuvole color sterco insanguinato del sole! Si slancia lassù, in quella pineta. Gli scatti e le cadenze flessuose del suo corpo che si scrolla nella sua giacca attillata di nuvolette rosa rivelano la sua nobile gioventù. Ora s’affretta a rimescolare quei fogliami. Li scuote brutalmente per liberarli dai puzzi vischiosi e con un gesto vasto fa sbattere, sbattere tutte le finestre di Stazione per la Carnia. Poi parla, parla, ingiuria, fischia, sputa. Ritto in piedi, impreca contro il cielo e chiama alla riscossa tutti i Veneti fratelli. Meraviglioso Vento-oratore!

— Dove siete, infingardi? Venite! Venite!

Agitando il suo corpo che si frangia di rabbia e i suoi capelli tentacolari, il Vento parla con voce tonante alle lontane tribune delle prime stelle e si sgola per insolentire la pigrizia paurosa. Il Vento scande scande scande ogni sillaba con violenti colpi di pugno sui tetti delle case come su un pulpito. Ad un tratto si slancia contro il sole e lo rovescia giù dal suo trono di nuvole. A calci a pedate, correndo e remando nel cielo il Vento scopa, azzanna, impacchetta, ammucchia, scaccia, insacca, calpesta le matasse di odori in rissa che rischizzano, s’arrampicano, si rintanano nelle vallate e nei burroni. Intanto con un vasto muggito che cresce, cresce, cresce e scoppia accorrono giù dai monti e dalle fonde valli altri Venti alla riscossa.

Questo sospira sospira sospira e fischia nella stretta di due roccioni per passare ad ogni costo. È troppo voluminoso: porta addosso una girandola di enormi polmoni gonfi d’ira compressa. Si accanisce e fiiiiischia. Sospira sospira sospira poi con uno schiaaanto d’alberi e fogliame precipita inondando di sè a ventaglio tutta la vallata. Sotto, il tetro fiume di prigionieri increspa paurosamente la sua superficie di cappotti e berretti fuligginosi. Io rialzo la testa dal volante e fiato fiato finalmente. I Venti giungono in ritardo, ma la loro fretta è vertiginosa. Pulire, pulire, pulire tutto, scuotere, sconvolgere, disinfettare. Ma non basta. Occorre inebriare al più presto la vallata di mille profumi perchè la mia blindata 74 diventi un’isola profumata sul fiume lurido dei prigionieri.

Un Vento gagliardo è lassù in cima alla montagna che chiama chiama con spiraliche sciarpe di mani altri Venti che lontano gonfiano a gara le loro pance, otri, e zampogna melodiose di tutti i profumi di rose, viole, acace, ginestre, gardenie, caprifoglio italiani, rapiti ai giardini pensili sul mare di Liguria.

Altri insaccano i voluttuosi profumi di tiglio dei sobborghi di Milano. Dovunque ferve il lavoro. Via, non perdere tempo, gonfia quell’otre di tutti gli odori salati, salubri, verde-azzurri di questo piccolo golfo di Zoagli! Tu, riempi fino all’orlo, tieni ben chiuso, porta in alto e su a tutta velocità corri a profumare la Carnia appestata!

Tre Venti smaniano, intanto, nello stretto di Messina. Sono forti e le loro invisibili propaggini muscolose sono capaci in pochi minuti di rianimare di fresco aereo velluto l’intera Sicilia carbonizzata dall’ardore d’agosto.

Ora in fondo a questo corridoio marino, i tre Venti affondano le dita nel mare e tutte grondanti le fanno scorrere, scorrere, sui giardini di Messina e su quelli odorosissimi di Siracusa perchè siano impregnate del profumo lieve danzante punzecchiante dolcissimo dei limoni, degli aranci e dei mandarini. Quei tre Venti siciliani passano nelle alte vigne fronzolute di Capri inebriandosi di fantasia rossa, poi sul promontorio polposo di Posillipo per aggiungere negli otri, pance e zampogne loro, delle erranti svenevoli mandolinate. Via a galoppo, su, su, a 70 Km. all’ora, saltando a piè pari la schiena dell’Appennino, aromatizzandosi i piedi pattinatori sulle pinete resinose, s’avventano sopra il Veneto e piombano nella valle della Fella. Ma l’Italia è vasta e tutti i vegetali d’ogni provincia vicina e lontana debbono dare il loro contributo.

Nell’oasi di Tripoli sonnolenta si alza con fatica un Simun assopito. Forte Vento africano non servo, ma innamorato dell’Italia. È stanco di due lunghi viaggi nel deserto, ma una tromba bersaglieresca l’ha svegliato questa mattina. Sa, il Simun, che negli orti ombrosi e nei prati di orzo erba medica e lattuga, che egli ha sempre rispettato, dormono dei profumi biondi, pepati e zuccherini che l’Europa non ha. Sa il Simun che le ombrie sui pozzi orlati d’asinelli, hanno dei tiepidi profumi vanigliati che l’Europa non ha.

Si scuote, e d’un balzo in piedi, vibrante burbero benefico invita piante erbe tronchi e fogliami, a spremersi d’ogni essenza. Tutta l’oasi è in tumulto. I cammelli rallentano il loro ruminare e il loro gorgogliare catarroso di grondaia, sussultano, tremano. Il cammelliere dritto alzando le braccia implora pace dal Vento che giocondamente gonfia il suo barracano come una vela, e in testa il burnus come il fiocco sul bompresso.

Ma il Simun non è contento di questi casti profumi rapiti alla capigliatura dell’oasi. Non è forse l’imperatore assoluto dell’Africa? Con un salto di montagna terremotata, rosso irto accecante scavalca la grande Sirte e in Cirenaica lungamente strofina il suo corpo ossuto e scricchiolante d’ascaro immenso in altre oasi più fitte più umide più fertili. Il Nilo l’attira con la sua vasta coltura di profumi oliati e fermentati in verdi ombre sotto soffitti spessi di banani, e pieni di gaggie. Percorre tutto il Nilo riempiendo di profumi i tre mila otri che suonano fragorosamente sulle sue spalle scattanti. Entra nel lugubre caldo foltore d’oro torrido intrecciatissimo e compresso della sua Abissinia amata. Sono mesi e mesi che non piove, e la mirra balsamica suda fuor dalla corteccia un umore inebriante e languidissimo. Questo, questo ci vuole, pensa il Simun, perchè la prima notte dei vincitori Italiani in Carnia sia simile alle notti di Allah! Subito vuota alcuni otri di profumi mediocri e con fiati lunghi accarezzando per un’ora trecento mila arbusti di mirra balsamica accumula e costringe in mille trecce strette le ondulanti capigliature del profumo assolvente.

Il Simun non è sazio ancora. Scavalca il mar Rosso e raggiunge un altipiano d’Asia dove brucano in pace cento mandre di cervi muschiati. Con boati di gioia sradicante il Simun li assale. Crollo schianto e sfasciamento di quei boschi di corna. Il Simun li caccia alla rinfusa in una valle, poi sopra, come in un tino coi vasti piedi chilometrici, li vendemmia.

Dagli addomi schiacciati schizza lo strano burro rosso-bruno. Ride, ride, il Simun, nella carneficina poichè sa la potenza quasi indistruttibile di questo profumo divino. Un granello solo basterà a inebriare 2 milioni di metri cubi d’atmosfera notturna!

Stracarico di profumi asiatici e africani, il Simun ritorna. In alto, in alto vola sopra il mare perchè i potenti spruzzatori salati dalle onde non deformino le essenze purissime che egli porta rinchiuse nei suoi polmoni, otri pance e zampogne. La sua velocità supera quella d’ogni altro Vento, tanto l’orgoglio d’essere il primo profumatore dell’Italia vittoriosa lo esalta.

Nella mia blindata lo sento venire. Tutti i Venti italiani che hanno sparso già con armoniosa delicatezza centomila profumi italiani sui declivi e sui boschi e nei burroni e nelle viuzze dei villaggi e in ogni casa come un vaso, sanno che un prodigioso Vento sconosciuto sta per giungere con nuove ricchezze delizianti. Si aggirano i Venti italiani perfezionando la disposizione dei profumi, e quelli tondi come ovi, e quelli in forma di amaca e quelli che gemono di dolcezza come divani innamorati, e quelli che saltano come ginnasti su trapezi volanti, e le bisce i mazzi le capigliature i drappeggi di profumo.

Due venti si sono inerpicati e sospesi alle costellazioni, e spalmano così di essenze l’intera volta stellare perchè il palazzo della notte sia tutto profumato e nel centro sia profumatissima la mia blindata: camera nuziale. I Venti italiani sono perplessi poichè il gran mago dei profumi tarda. Lui, lui solo potrà idealizzare con essenze speciali le acque del Fella che languide e melodiose si preparano a diventare il bagno della divina bella notturna. L’aria trema febbrile, sinuosa spasimante con lunghi bisbigli. I Venti sono ammutoliti immobili. Aspettano.

Undici minuti d’attesa angosciosa... Poi un fragor di cannonate che schiantino schiantino cento città di bronzo cristallo e colonne di giada.

Valanga giù dal cielo quasi a picco il Simun e riempie la valle della Fella d’un traballio innumerevole d’otri squassati – duri – molli – rigidi – negri – luminosi soffici dentati come crani di poeti cozzanti nelle ampie saccocce volanti di Dio.

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