Ben Haissa

Ninna nanna fantolino,
soffia il vento, è notte scura,
ninna nanna, non far chiasso,
scende il lupo alla pianura...

Era una voce di donna, una voce sottile, un po' triste, un po' stanca, che cantava, con lieve accento esotico, la nenia accanto ad una culla, nella stanza attigua alla mia. E quella voce, che mi faceva pensare ad una giovane madre, tutta sola, assorta forse nel ricordo del marito, lontano o morto, (chi sa?), mi aveva risvegliato, da circa un quarto d'ora, nella cameretta squallida di quell'albergo di provincia in cui ero disceso per trovarmi, la mattina dopo, nella villetta del mio amico d'infanzia Falieri, che festeggiava in quel cantuccio tranquillo le nozze d'argento del suo insegnamento di psichiatria in una delle maggiori università italiane.

Confesso che, per un viaggiatore che arriva stanco e che deve affrontare, al mattino, un altro paio d'ore di vettura, per una strada polverosa, in pieno mese di giugno, non è punto piacevole la prospettiva di passare una notte insonne, per colpa di una vicina che ama le nenie e adora il suo bambino, ma non rispetta affatto il sonno del prossimo. Cosicché, dopo aver tentato invano di riaddormentarmi, pensai di chiamare il cameriere dell'albergo e di incaricarlo di pregare la mia vicina perché smettesse un po' la sua canzone. Ma poi mi venne in mente che la camera accanto potesse appartenere a un'altra casa, e decisi di sincerarmene, affacciandomi alla finestra. Senonché, proprio mentre mi levavo a sedere sul letto, cercando a tentoni di infilare le pantofole, la ninna nanna cessò e venne, invece, dalla via, un canto rauco di ubbriaco che andava avvicinandosi, con quel caratteristico ondulare che hanno le voci degli ubbriachi, e che segue, nelle sue inflessioni, il barcollare della persona.

— Buono! – pensai – Ecco che comincia quest'altro, ora! È proprio la notte in cui tutti si son messi d'accordo per non farmi dormire. Ma l'ubbriaco te lo acconcio io, adesso...

Egli doveva essersi fermato precisamente sotto la mia finestra, perché la voce mi arrivava con tanta forza che avrei giurato di avere l'uomo proprio nella camera. Mi decisi, allora, e, ghermito il bicchier d'acqua che avevo sul comodino, mi precipitai alla finestra, la spalancai, e giù, tutto d'un colpo...

Credevo di sentire un urlo, una scarica di improperii, un grugnito minaccioso, qualche cosa, insomma: invece, silenzio completo! Cacciai il capo e guardai tutt'intorno; cosa strana: la via era assolutamente deserta.

Solo, proprio sotto la mia finestra, luccicava, nell'ombra, un gigantesco punto interrogativo, disegnato sulla strada dall'acqua che avevo lanciato contro l'importuno... che non c'era.

Sulle prime, rimasi sconcertato; poi, pensai che 1'ubbriaco aveva dovuto proprio in quel momento rincasare: v'erano, infatti, due o tre porticine, sulla via, e anche il muro dell'orto che si stendeva di fronte al mio albergo aveva il suo uscio. In quel momento, mi accorsi, anche, che la finestra accanto alla mia, come avevo supposto, apparteneva all'edifizio attiguo e che, dalla insegna attaccata ad una sbarra infissa sulla porta d'entrata, doveva essere un altro albergo.

— Torniamo a letto – dissi fra me, richiudendo le imposte.

Ma l'ultimo filo di luce s'era appena spento, nella camera, che la voce femminile ricominciò:

Ninna nanna fantolino...

— Oh, questa volta poi no! – gridai, indispettito, deciso a tirare dei pugni nella parete fino ad obbligare la mia degna vicina a smetterla.

E mi mossi, nel buio, incespicando nelle seggiole, quando, d'improvviso, una domanda mi fermò:

— Chi è? – chiese la voce, rapidamente, con una intonazione strana, che mi parve di spavento.

— M'avrà sentito – pensai. – Tanto meglio; comprenderà, e finirà col tacere. Ma la voce ripigliò:

— Chi è?

E questa volta sentii, nella domanda, un'angoscia strana, un senso di terrore, come per un presentimento di sciagura, che suggestionò anche me, obbligandomi a tacere.

Nel silenzio pauroso che seguì, il pianto del bimbo che si svegliava suonò come una nota lugubre.

— Chi è? – ripetette la voce, per la terza volta.

Per un momento, il canto dell'ubbriaco si fece sentire, lontano, poi tacque, e vi fu una pausa, lunga, opprimente, tragica.

E d'improvviso un rumore bizzarro, sinistro, mi colpì: era lo scricchiolìo di una porta che cedeva allo scalpello di qualcuno.

La voce femminile mormorò, con un brivido di terrore:

— Gesù Maria!

E subito dopo sentii il rumore di un corpo che si abbatteva sopra una seggiola e di un battente che picchiava contro la parete.

— Che sia il marito di lei che rientra in casa, avvinazzato? – chiesi a me stesso, per assicurarmi.

Ma lo strido che si levò, nella notte, soffocato subito dopo, mi disse che colui che era penetrato nella camera accanto non era, non poteva essere il marito.

E me ne diede la terribile conferma una grossa voce maschile, che suonò, rudemente:

—Taci, se non vuoi che t'ammazzi!

* * *

Che cosa avveniva, lì dentro? Quale dramma si svolgeva, in quella pacifica stanzetta d'un piccolo albergo, situato in una delle vie più solitarie del paese? Un'aggressione? Un assassinio, forse?

Ansante, col sudore che mi gocciava lungo le tempie, io tacevo, aggrappato con le mani ad una seggiola, nel buio.

Nessuna voce veniva, più, ed io pensai che, in quel momento, la povera donna fosse svenuta.

Ma subito dopo trasalii al grido del bimbo; quel grido aveva qualche cosa di sinistro, direi quasi di cosciente: pareva che la creaturina, ancora ignara di ogni cosa della vita, vedesse qualche cosa di spaventoso, di terribile.

Che fare, mio Dio? Come intervenire? Come evitare quello che, fino a quel momento, forse, non era ancora avvenuto?

Istintivamente, mi ricordai che avevo nella valigia una rivoltella. Un colpo tirato, magari in aria, avrebbe potuto spaventare l'aggressore, chiamare qualcuno in soccorso, salvare, forse, quella gente che io non vedevo, ma di cui indovinavo il terrore angoscioso, lì, a un sol passo, di là da una fragile parete che divideva le nostre camerette.

La rivoltella? Sì; ma trovarla, nell'ombra! Allontanatomi dalla finestra, avevo smarrito la nozione di ciò che mi circondava. Ero vicino al letto? Ero lontano? E la valigia dov'era rimasta?

Ricordai che, accanto al letto, doveva trovarsi la chiavetta della luce elettrica, e feci un passo innanzi, allungando le braccia per raccapezzarmi.

Ma mi ero appena mosso, che mi sorprese il seguente dialogo, concitato, affannoso:

— Le chiavi... Dove sono le chiavi? – domandava la voce maschile, quasi soffiando le parole sul viso della donna.

— Non so... Non so... Per pietà, lasciatemi...

Sentii un rumore di seggiole smosse e poi un grido:

— No, no, il bambino no!...

Ancora una volta il gemito infantile suonò, nella notte, ma più sommesso e più lungo, come un rantolo. E subito dopo sentii il rumore di due corpi che lottavano.

Mi avventai allora nell'ombra, come un pazzo, toccai qualche cosa, la spalliera del letto, e, accanto, una seggiola, e sulla seggiola una valigia... L'avevo, finalmente!

Con le mani che tremavano come per febbre, trassi fuori la rivoltella, l'impugnai, intuii la direzione della finestra e corsi per spalancarla.

Prima ancora che toccassi le imposte, un altro gemito mi colpì, poi una pausa, e, infine (al ricordo, mi si agghiaccia ancora il sangue nelle vene) una risata strana, gutturale, selvaggia, una risata infernale, come quella di un pazzo, suonò, a lungo, nella camera dove un duplice delitto si era compiuto.

Senza riflettere oltre, spalancai la finestra e allungai il braccio per tirare in aria.

Ma il braccio rimase inerte, innanzi a un'apparizione spaventosa, assurda, inverosimile.

Alla finestra accanto, con una sigaretta tra le labbra, un viso di moro, un orribile volto nero, in cui spiccava stranamente il bianco degli occhi, mi guardava, sorpreso.

Poi, su quel volto lampeggiò un riso irrefrenabile, convulso, che mostrò trentadue denti bianchissimi in una bocca spalancata.

E, prima ancora che mi fossi riavuto, la testa disparve, e la finestra si richiuse.

La mia arma era stata inutile!

* * *

Fui preso, allora, lo confesso, da un accesso di viltà: avrei potuto gridare, strepitare, far accorrere gente, ma mi parve che le mie facoltà volitive fossero state d'un tratto spezzate, che io non potessi, che io non sapessi far altro che gettarmi sul letto, con le mani sugli orecchi, per non sentire più nulla, né rumori, né gemiti, né gridi, né, sopra tutto, quella orribile, mostruosa risata, che pareva un ghigno diabolico...

Quanto tempo durò quella crisi che mi paralizzò? Io non potrei dirlo. Certo, albeggiava appena quando io, vestito in fretta, raccoglievo i miei bagagli e infilavo le scale, per cercare del padrone dell'albergo e raccontargli tutto, prima di andar via, prima di lasciare quel maledetto paese che mi aveva fatto passare una notte ancor più maledetta.

— Come, parte di già? – mi domandò il brav'uomo, che trovai occupato a sorvegliare la pulizia delle scale, che un gobbettino armato di strofinaccio faceva alla meglio, carponi.

Quando gli narrai tutto, di un fiato, impallidì prima, poi sorrise e scrollò il capo:

— Un assassinio? Ma che dice sul serio? Qui, in paese? E poi, scusi, qui accanto, alla Corona d'oro, non c'è nessuna donna con un bambino...

— Ma se vi dico...

— Si sarà ingannato, ecco tutto... Per quanto io sappia, l'albergo è vuoto: non è la stagione in cui si fanno quattrini, e se io posso ringraziare Iddio, il mio vicino...

— Perdio, vorrete negarmi anche che io abbia visto un moro, alla finestra?

— Il moro l'ho visto anch'io – interruppe il gobbetto, levando il visino smunto. – È partito poco fa, in vettura, dalla Corona d'oro, con una grossa valigia...

— Solo?

— Solissimo!...

Ci guardammo tutti e tre.

— Bisogna interrogare l'albergatore, qui accanto... – dissi io – per saper qualche cosa. Quanto a me, credo che sia miglior partito seguire il moro.

— Ha presa la via della stazione – fece il gobbetto.

— Tanto meglio. Faremo, forse, il viaggio insieme.

E, battendo la mano sulla rivoltella, che avevo alla cintola, aggiunsi, a mezza voce:

— Di giorno, a faccia a faccia, è tutt'altra cosa!...

* * *

Ma alla stazione seppi dal guardasala che non era giunto nessun moro. Un venditore di frutta, che era a pochi passi, mi disse, però, che una vettura con un uomo nero era passata per la via di Villalba. Era proprio la via che menava al villaggio in cui dovevo recarmi anch'io, per le famose nozze d'argento di Falieri. Cosicché ebbi appena il tempo di buttar giù un dispaccio per il sindaco del paese, avvisandolo che si recasse alla Corona d'oro per affari urgenti e, noleggiata una vettura, gridai al cocchiere:

—A Villalba, e di buon trotto!

La via si biforcava, dopo circa un'ora di cammino: un braccio saliva al monte, perdendosi tra alcuni gruppi di case, ed era poco praticabile per una vettura; l'altro scendeva al villaggio dove era il villino Falieri.

Per qualche tempo, sul terreno polveroso, potetti seguire con l'occhio le orme delle ruote che aveva dovuto lasciarvi la vettura precedente, poi cominciava un tratto di via tutto cosparso di ciottoli ed ogni traccia svanì.

A una contadinella, che incontrai ad una svolta, chiesi se avesse visto passare un veicolo, poco prima; mi rispose che sì, e mi disse, anche, che se il mio cavallo avesse sforzato il trotto avrei potuto raggiungerlo.

E l'inseguimento ricominciò, per la via sassosa, sotto il sole di giugno che, a quell'ora mattinale, cominciava a farsi scottante.

E tutt'a un tratto ecco, dal fondo della via, sorgere un ostacolo improvviso, sbucato da una traversa: un carro di fieno tirato a fatica da un paio di buoi, che si mise di traverso sulla mia strada.

Mi levai in piedi nella vettura, urlai, minacciai il carrettiere col pugno, scongiurai il mio cocchiere di cacciarsi nel piccolo spazio che restava tra un muro di cinta e il carro, ma fu tutto inutile.

Prima che l'ostacolo avesse potuto girare e lasciarmi libero il cammino ci sarebbe voluto ancora del tempo, e il moro, intanto, si salvava, sfuggendo alla mia caccia.

La fatalità si metteva contro di me. Imprecai, scuotendo le braccia disperatamente, contro il destino che protegge i delinquenti e poi, vinto, abbattuto, ricaddi a sedere nella vettura, deciso a lasciar andare le cose per la loro china, passivamente, poiché tutti i miei sforzi cozzavano contro una barriera che si ergeva di fronte ad ogni passo mio...

* * *

Michelangelo Falieri, lo scienziato illustre, mi venne incontro, con le mani tese, affettuosamente, come la vettura si arrestò innanzi alla porta del villino.

Veniva, dal piano superiore, un acciottolìo di piatti, un cozzare di forchette, un vociare gaio.

— Siamo a colazione – mormorò, abbracciandomi. – Pochi amici, e qualche signora, con mia moglie... Ti abbiamo aspettato sinora... Perdonerai...

— La colpa è stata di un maledetto carro, che mi ha bloccata la via... Poi, la vettura ha avuto un guasto, affondando in un solco che quel carro aveva lasciato, in una svolta... Insomma, un disastro... E poi – soggiunsi – ti dirò che, se fossi giunto in tempo, sarei stato un cattivo commensale.

— Perché? – mi chiese, accompagnandomi per le scale.

— Sono ancora tutto sconvolto per una tragica avventura... Figurati che stanotte...

Ma la frase mi morì sulle labbra: mi era giunto, in quel momento, dalla sala da pranzo, una risata bizzarra, gutturale: la risata di quella stessa notte...

— Che c'è? – domandò Falieri, vedendomi impallidire.

Fissai il mio amico come un trasognato e poi chiesi, precipitosamente:

— Dimmi... C'è... un moro, da te?...

— Un moro? – Sorrise, ed aggiunse, con un certo orgoglio: – Certo, è Ben Haissa... Te lo presenterò.

— Lui? – gridai spaventato. – Ma è un assass...

Non ebbi il tempo di continuare, che già gli amici ci venivano incontro, sulla soglia della sala da pranzo. A tavola, tra due signore, affabile, sorridente, garbatissimo, era lui, Ben Haissa, lui, il moro della notte scorsa, e i denti bianchissimi lampeggiavano ferocemente, nel sorriso...

— Amico mio – mi disse Falieri, ad alta voce – Ti presento uno dei fenomeni più interessanti, il documento vivente di certi strani privilegi che la natura concede, talora, agli uomini. È un sudanese che ho conosciuto a Monaco, dove è stato l'ammirazione degli scienziati e l'idolo della folla. Egli, che è ora di passaggio, è venuto da me, rispondendo gentilmente al mio invito, per farci assistere ad una delle sue creazioni...

E, spingendomi verso la tavola, riprese, additandolo col gesto:

Monsieur Ben Haissa, il più meraviglioso ventriloquo che Iddio abbia messo al mondo.

Non mi ero ancora riavuto dalla scossa, che aveva in un momento scompigliato tutte le mie idee sul delitto della notte, che il padrone di casa aggiungeva, rivolgendosi a tutti:

Monsieur Ben Haissa avrà la bontà di farvi sentire, adesso, la più bella delle sue opere, una cosa terribile che vi farà tutti fremere di orrore e che è stato il gran successo di Monaco: L’assassinio alla fattoria... Figuratevi che egli sarà, insieme, una madre, un bambino, un ubbriaco e un ladro...

— Perdio! – proruppi allora, tirando un pugno sulla tavola – Ma allora...

Tutti mi guardarono stupiti, credendo di avere di fronte un pazzo. Ma il moro, che mi fissò, dovette riconoscermi, perché, curvatosi verso di me, mi chiese, con la sua bizzarra voce gutturale:

— Stanotte?...

— Sì... Alla camera accanto...

— Mi tenevo in esercizio... E dire che l'albergatore mi aveva giurato che l'albergo vicino era vuoto!... – concluse lui, accendendo una sigaretta e mostrando, in un sorriso, i suoi denti terribili.

Cinque minuti dopo, chiestone il permesso, ero in giardino, a passeggiare, mentre dalla finestra della camera in cui Ben Haissa si celava, veniva la nenia

Ninna nanna fantolino...

Non avevo voluto trattenermi con gli altri, in salotto, e se ne comprenderà la ragione: francamente, di uno spettacolo che atterrisce, se n'ha già abbastanza una volta sola, specialmente quando, quella volta, lo si è preso troppo sul serio!...

Giugno 1906.

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