Il Natale di Hans Boller

Quando, fra un secolo, i miei nipoti leggeranno queste pagine, che parlano di giorni assai tristi, mentre nella vecchia Francia il sangue scorreva a fiotti e i gigli erano strappati dalla terra di Enrico IV a colpi di picca, tutte queste cose saranno già passate da lungo tempo e tutte le pozze di sangue si saranno asciugate. Ed essi si domanderanno, al racconto di ciò che mi è accaduto nella notte del Natale del 1793 e di ciò che i miei occhi hanno visto: Ma come è possibile che Hans Boller, il vecchio Hans che visse anni così felici alla Corte di Maria Antonietta, della quale ebbe l'onore di fare il ritratto più volte, miniato sugli avorî, abbia veramente assistito alle scene che egli ci narra e ci descrive così vivamente?

Pure, tutto questo è accaduto; nessuna allucinazione ha turbato i miei sensi, ed è stato proprio la notte dal 24 al 25 dicembre dell'anno del Terrore che la cosa indimenticabile è avvenuta.

Ma procediamo con ordine.

* * *

Le cose a Parigi andavano a rotta di collo fin dall'ottantanove: i bei giorni di Versailles e del Trianon, i giorni della giovinezza fiorente della Regina di Francia erano finiti. Ella stessa, ricordo, una sera di maggio, sulle terrazze del parco di Versailles, mentre il Delfino, a pochi passi, si divertiva a cacciare le lucciole nei viali, mi aveva detto, con la sua voce un po' triste, che pareva sempre lievemente velata:

— Hans, amico mio: io credo che a Parigi avremo giorni molto amari...

Io non avevo saputo che cosa rispondere, e la frase era morta nell'ombra della sera, mentre le lucciole mettevano dei mobili punti luminosi fra gli alberi, e, in lontananza, si sentiva la canzone melanconica delle fontane di Versailles...

Quanti avvenimenti, da quella sera; quale fatale e tragica catena di eventi dolorosi!...

* * *

Avevo lasciato Parigi nei primi giorni dell'ottantanove per un viaggio in Brettagna, dove ero ospite del conte Du Marsy de Yvonnac, quando una sera giunse al castello un messaggio con le armi reali.

Il giovane visconte Dagoberto, il primogenito del conte, fu quegli che lo aperse e che mi comunicò la novella: Sua Maestà la Regina affrettava col desiderio il mio ritorno alla Corte per presentarmi ad una sua nuova e giovane damigella d'onore, Lucia de Champdelys, della quale ella voleva farmi eseguire un ritratto in miniatura per un medaglione.

Bisogna dire, anche, che il visconte Dagoberto arrossì di gioia, comunicandomi il messaggio della Regina, perché, come seppi più tardi, Lucia de Champdelys era una sua lontana cugina, molto vicina, però, al suo cuore, e fra loro due s'era già scambiata una promessa che sarebbe stata consacrata con tutte le forme ufficiali a Parigi, alla Corte della nostra Sovrana.

La stagione era eccezionalmente rigida, ed i miei quarantacinque anni mi pesavano abbastanza perché io amassi arrischiare un viaggio in quelle condizioni. Fu il visconte Dagoberto, quindi, che si addossò, con gran piacere, l'incarico di partire per Parigi e di annunziare il mio arrivo per la primavera, deponendo, così, i miei saluti rispettosi ai piedi della Regina e dando il suo saluto affettuoso alla bella Lucia.

A vent'anni l'inverno non è abbastanza gelido e le vie non sono abbastanza lunghe, e quando c'è qualche cosa o qualcuna nel cuore, gli sproni pungono con impazienza i fianchi dei cavalli e le berline passano tra gli alberi e lungo le strade sassose, rapide come una visione fantastica...

* * *

Ma non fu nella primavera, che potei mantenere la promessa, né più tardi, né mai.

Da prima, un accidente di caccia, che per poco non mi spezzò una gamba, per una caduta da cavallo; poi le notizie di Parigi, – che mi facevano comprendere come per un compatriotta di Maria Antonietta ivi non spirasse troppo buon'aria, finché per le vie di Versailles l'usciere Maillard capitanasse la marcia delle sue pescivendole arrabbiate o per il sobborgo Sant'Antonio il birraio Santerre cavalcasse alla testa dei suoi portatori di picche – mi trattennero laggiù, in Brettagna, come un esiliato.

Una sola volta, mentre ero ancora convalescente, mi giunse un messaggio di Dagoberto, che mi scriveva da Parigi: – Ella vi aspetta –; poi, il gran soffio della rivoluzione passò sulle cose e sugli uomini, e sconvolse la Francia, sommergendo una dinastia sotto i suoi flutti tempestosi, distruggendo tutto un passato.

...Anche la Brettagna, ora, divampava: la reazione realista, che aveva levato in alto, fra le dune e le brughiere, quello stendardo bianco, seminato di gigli, che i marsigliesi di Barbaroux avevano abbattuto dal frontone delle Tuilleries, aveva portato anche in quelle terre la guerra e la morte.

I repubblicani, mandati alla caccia dei ribelli, bruciavano paesi e castelli e fucilavano nobili e contadini.

Pareva che un fato inesorabile m'incalzasse, spingendomi a fuggire da tutti i punti in cui, povero uccello migrante, ero costretto a rifugiarmi.

E fu così che, mentre il castello di Yvonnac cadeva nelle mani dei repubblicani, io, scortato da qualche contadino fuggiasco, andavo a riparare, col po' di denaro che avevo, in un cantuccio di spiaggia a parecchi chilometri di distanza, fra i massi solinghi delle selvagge lande marine di Brettagna e poche casette di pescatori.

Null'altro del mio passato era, ormai, con me e intorno a me: tutto pareva fosse morto, e glorie, e ricordanze, e sogni di ambizione: tutto, tranne l'arte, il bel raggio di luce che aveva tanto a lungo brillato nell'anima mia, e che ora pareva mi dicesse, dai piccoli pennelli, dai colori, dai dischetti d'avorio, dal modesto corredo che avevo salvato con me, con la voce muta, ma suggestiva, delle cose: – No, Hans Boller, vecchio mio; tu non sei morto...

* * *

...Tanto tempo era passato dai bei giorni del Trianon; tanto tempo, così lontano che pareva lo avessi vissuto in un'altra vita, della quale appena un vago ricordo fosse restato nell'anima mia!

La solitudine della spiaggia brettone, ormai, aveva inselvatichito il mio spirito: il rinomato miniaturista della Corte di Francia era diventato un misantropo che viveva in una casetta fra gli scogli, in faccia alla schiumosa rabbia del mare...

Tuttavia, ogni tanto, qualche cosa di quel passato mi si riaffacciava al pensiero, come la visione rapida di un paesaggio dimenticato, nel breve istante che un lampo rischiari l'orizzonte: e mi ritornava alla mente l'ultima lettera di Dagoberto, e la frase laconica, triste come un rimprovero: – Ella vi aspetta...

Quanto a lungo, mi aveva aspettato la giovane damigella d'onore! E che cosa era avvenuto di lei, più tardi? Dove si trovava, adesso? Era fuggiasca? Era a Parigi? Viveva ancora?

Nessuno poteva rispondere a queste mie domande: e, nel gran silenzio, il mare faceva sentire la sua canzone, così lugubre, nelle notti di Brettagna, mentre il vento fischiava sulle dune e s'ingolfava fra i massi, scompigliandone le ispide criniere di giunchi marini...

...Più triste ancora, più lugubre, più dolorosa mi risuonava dentro l'anima la singhiozzante canzone del mare in quella notte di Natale. Passavano per il cielo, incalzati dal vento, stormi di nuvole in fuga, come giganteschi uccelli della notte, con le ali spezzate, e si seguivano senza posa, spegnendo le poche stelle che tremolavano in alto, in alto.

Per le dune, in lontananza, brillavano dei fuochi; lingue di fiamme sanguigne che il vento piegava, ogni tanto, dissolvendole in una pioggia di faville che s'involavano nell'ombra: erano i fuochi del Natale brettone.

E tutta la dolcezza della grande festa cristiana, la dolcezza del focolare intorno al quale si riunisce tutta la famiglia, la dolcezza della mensa domestica, così piena di pace e di gaiezza, nel canto lontano delle campane che inneggiano a Gesù nascente, mi riapparve, allora, ridestando il ricordo di altre feste del Natale, così diverse da quel Natale nel quale, solo, in un canto di spiaggia abbandonata, m'indugiavo sotto l'arco dell'uscio, guardando, con l'occhio di chi sogna, le fiamme palpitanti nella notte...

* * *

Da quanto tempo fantasticavo così? Io non potrei dirlo. Ricordo solo che un lieve rumore mi scosse, ed ebbi la sensazione che qualcuno fosse in camera mia.

Mi volsi indietro, convinto di essermi ingannato...

No; non ero stato vittima di un giuoco dei sensi... Una creatura umana era lì, alle mie spalle, accanto al tavolo, e una candela la illuminava tutta... Una donna...

Ella taceva, guardandomi: e, nel viso pallido, d'un caldo pallore di bruna, gli occhi nerissimi, profondi, parevano la sola cosa viva. Un cappello di paglia, di colore oscuro, le incorniciava la graziosa testa giovanile, lasciando scorgere qualche ricciolo ribelle, e un abito semplicissimo, scuro anch'esso, le ricopriva la sottile figura. Pareva, dagli abiti un po' sciupati, dall'aria di stanchezza che era soffusa per tutta la sua personcina, che fosse venuta da un lungo viaggio...

Un lungo viaggio? Sola? Nella tempestosa notte di dicembre? E come era in casa mia? E da quanto tempo? E donde era entrata, se io mi ero trattenuto appunto sulla soglia?

Tutte queste domande mi si affollarono insieme alla mente: ma non ebbi il tempo di formularne nessuna, perché ella mi sorrise, d'un sorriso lieve, un po' triste, e mi parlò.

— Io son venuta da voi, – ella mi disse, sommessamente, con una voce strana, una voce che pareva giungesse da molto lontano, – perché so che siete il più valente miniaturista di Francia... Io desidero che voi mi facciate il ritratto...

— Ma signorina, – balbettai, stupito, – anzi tutto è gran tempo che i miei poveri pennelli dormono... E poi... non capisco perché siate venuta di notte... e in questa notte...

Ella mi fissò un istante, e nei neri occhi profondi passò qualche cosa di molto doloroso. Poi riprese, con un tremito nella voce:

— È per questa notte... Per questa notte soltanto che io invoco l'opera vostra... Io non potrò ritornare mai più...

— Un ritratto di notte?... Ma non sapete che le tinte, di notte, sono false? – insistetti.

— Ma non per voi, non per Hans Boller, che conosce il valore di ogni tinta e di ogni luce.

E, poi che io tacevo, meravigliato di quella premura che, tuttavia, mi andava soggiogando, ella giunse le mani – le belle mani bianchissime e sottili – e disse, con un singhiozzo:

— È una grazia che imploro da voi... Cominciatelo stanotte; potreste finirlo all'alba... Io resterò fino a quel momento... Potreste anche completarlo dopo, quando io sarò andata via... Tanto, colui che verrà a prenderlo, sarà qui fra molti mesi...

E concluse:

—Vi ricompenserò come potrò... Quantunque, – soggiunse, vedendo che mi ero turbato alla sua frase, – io sappia che voi non esitereste soltanto se vi chiedessi questa grazia in nome di Maria Antonietta di Francia, che da due mesi e nove giorni dorme sotto la fredda terra, assassinata dai sudditi suoi!...

A quella notizia, che mi giungeva inattesa, impallidii e diedi in un grido soffocato. Per qualche tempo stetti così, col capo fra le mani, piangendo silenziosamente la mia Regina sventurata; poi levai il viso alla giovane, che mi guardava sempre, e, senza chiederle altro, le dissi, brevemente, accennandole una seggiola: – Son pronto.

* * *

La bizzarra opera mia, quello strano ritratto di una sconosciuta venuta fino a me non so come, non so donde, cominciò, così, alla luce di una candela, nella stanzetta solitaria, mentre il vento, di fuori, scuoteva le imposte, e il mare gemeva, nell'ombra.

E mai il mio pennello era stato così celere, mai la mia mano cosa sicura e sapiente.

A poco a poco, sul piccolo disco d'avorio, ella riviveva, nel suo viso pallido, nei suoi occhi profondi, magnifici, tutti pieni di un sogno strano, nella breve bocca dolente, nel collo sottile, nel busto grazioso ed agile di cui l'abito modesto non riusciva a mascherare la linea. Le ore passavano, senza che io me ne accorgessi, senza che le mie dita sentissero la stanchezza del lavoro febbrile, senza che ella sentisse la stanchezza della lunga posa.

Più volte, però, sorpresi sul volto di lei dei rapidi segni di angoscia, come dei lampi di terrore, che scomponevano, per un istante, la calma triste della sua fisonomia; più volte vidi dei brividi incresparle la fronte, e gli angoli della bocca tremare, come innanzi alla visione di un pericolo sempre più vicino. Ma, come io la fissavo, ella ritornava immota, impassibile, d'una gelidità di statua.

Tuttavia, qualche volta, la breve bocca si schiudeva, e la voce di lei, la voce che mi pareva sempre così stranamente lontana, mi chiedeva, supplice:

— Il lavoro progredisce? Ne siete contento?

E, alle mie risposte rassicuranti, ella, un momento, aggiunse:

— Anch'egli sarà certamente contento, quando verrà...

Volevo domandarle qualche cosa di più preciso sulla persona misteriosa alla quale il ritratto era destinato, ma ella indovinò nei miei occhi la domanda, e levò la mano sottile, tacitamente, come per dirmi: «Non chiedete...»

Ed io ripresi il mio lavoro, in silenzio. Il ritratto, per un miracolo di celerità, del quale io stesso, oggi, mi stupisco, era a buon punto, quando, tutt'a un tratto, ella mormorò, brevemente, con voce soffocata:

—L'alba...

Guardai alla finestra. Era vero. Un barlume di luce livida passava attraverso le imposte... Avevo dunque lavorato senza tregua tutta la notte?

Mi rivolsi a lei. Non parlava più. La breve bocca era più scolorata, e tremava, un poco.

Per un istante ebbi la sensazione che la sua testa vacillasse e mi levai in piedi, esclamando:

— Signorina!... Vi sentite male?... Soffrite?

Non mi rispose. Sorrise, d'un sorriso doloroso, e riprese la sua posa, immobile. Soltanto, il suo volto, adesso, era d'un pallore mortale, un pallore che non avevo mai visto in una creatura viva...

Stette ancora un momento, poi si levò in piedi, piano, come per non barcollare. Mi sorrise ancora una volta, si avvicinò al tavolino, vi depose alcunché ed uscì...

Mi precipitai ad aprirle l'uscio, e, in quell'istante, alla luce incerta dell'alba, vidi qualche cosa di cui fino allora non m'ero accorto, qualche cosa che ella, per tutta quella notte, – ne ero sicuro, – non aveva avuta: un sottil filo rosso vivo le cingeva tutt'intorno il collo.

Giunta sulla soglia, disparve, d'un tratto, inghiottita dall'ombra, portata via dal vento, senza che gli occhi miei potessero vederne la sottile figurina, sulla spiaggia che la furia del mare batteva e che si stendeva, tutta deserta, in quell'alba di Natale...

Avevo io sognato?

Me lo chiesi per poco, smarrito: ma, come rivolsi lo sguardo alla mia cameretta, due cose mi riapparvero, rassicurandomi sulla realtà della strana, indimenticabile notte passata: la miniatura di lei, quasi finita, e, a poca distanza, un oggetto rotondo, che raccolsi ed esaminai.

Era una borsa di raso azzurro, con una ciocchetta di capelli bianchi: e sul raso, erano cinque impronte di dita femminili, cinque impronte insanguinate...

* * *

Molti mesi trascorsero, e il piccolo medaglione era sempre lì, accanto alla borsa, sul mio tavolino, e il mio sguardo e le mie cure erano per essi, ogni mattina.

E una sera, – una dolce sera di maggio, come quella nella quale la Regina mi parlò, sulla terrazza di Versailles, – fu bussato alla mia porta.

Apersi, credendo che fosse qualche pescatore che venisse a portarmi il prodotto della sua pesca per la cena, ed invece fu un giovane e bel cavaliere, che mi apparve.

—Voi! – egli disse, guardandomi. E soggiunse, subito dopo: – Non mi riconoscete? Lo fissai bene anch'io:

—Voi, Dagoberto!

Era lui, il visconte, lui, il giovane duce di una squadra di realisti, decimati qualche tempo prima dai cannoni repubblicani e che ora, dopo tre mesi di malattia, in seguito a un colpo di baionetta, ritornava in paese, al vecchio castello diroccato, passando per il mio villaggio.

Lo invitai ad entrare. Il sole era tramontato, ma il crepuscolo di maggio era ancora così luminoso, e nell'aria c'era ancora una trasparenza rosata...

Tutt'a un tratto, mentre egli girava per la camera uno sguardo di curiosità, lo vidi impallidire.

— Come... avete questo? – mi chiese con voce strozzata, precipitandosi sulla miniatura che strinse fra le mani.

— È... un ritratto, – balbettai, sorpreso.

— E... come avete conosciuta... lei?... – insistette con un tremito nella voce.

— Io non so chi ella sia... – risposi, aspettando la parola che finalmente mi avrebbe illuminato.

— Non la conoscete? – Mi guardò stupito.— Non la conoscete? Hans Boller, questo è il ritratto di Lucia de Champdelys! —

— Lei! Lei! – mormorai, vacillando. La rivelazione inaspettata mi aveva colpito. La damigella che mi aveva atteso, era dunque venuta!...

— E quando glielo avete fatto? – riprese Dagoberto con gli occhi febbrili.

— È venuta qui.

— Qui? Da voi?

— Sola. Alcuni mesi fa... È venuta la notte di Natale...

— La notte di Natale! – Il visconte mi strinse i polsi con le mani che gli tremavano, poi mi domandò, chinandosi verso di me, con voce fischiante e sempre fissandomi intensamente nelle pupille:

— La notte di Natale! Siete sicuro di non vaneggiare, amico mio?...

—Ve lo posso giurare innanzi a Dio – risposi con forza.

Le sue mani rallentarono la stretta: un brivido lo scosse tutto, poi aggiunse, sordamente:

— Ascoltate, Hans. Io non so se quello che voi dite sia avvenuto. Tutto può avvenire, nella vita. Soltanto so questo, e chi me l'ha detto ha visto le cose con i propri occhi. Lucia di Champdelys, la mia Lucia, – qui s'interruppe per un singulto che gli spezzò la parola, – la notte di Natale era nella prigione della Conciergerie, già condannata dal tribunale rivoluzionario, e all’alba del 25 dicembre è stata ghigliottinata...

Un silenzio grave e terribile passò nella stanzetta, in quel crepuscolo luminoso.

Io fui il primo a parlare.

— Allora, – dissi, – questa borsa... Egli la guardò.

— Era sua! E qui dentro... L'aperse, ne cavò la ciocca e piegò il ginocchio.

— Qui dentro ella ha conservato fino all'ultimo giorno una ciocca di capelli della sua Regina, Maria Antonietta di Francia... —

M'inginocchiai anch'io, piangendo innanzi a quel sacro ricordo, innanzi al dono prezioso che Lucia di Champdelys mi aveva fatto, per compenso dell'opera mia; poi, porgendo a Dagoberto il medaglione, gli dissi, solennemente:

— Prendete. Essa lo destinava a voi. Essa sapeva che sareste venuto...

E ciascuno di noi due pianse, sulla reliquia a lui cara...

* * *

Un giorno, forse, i miei nipotini crederanno che il vecchio Hans Boller abbia vaneggiato: un giorno crederanno che io abbia sognato. Anch'io l'ho creduto, allora: ed anche più tardi, ripensando alla cosa tragica e inverosimile, ho creduto, talvolta, di essere stato vittima di un'allucinazione... Ma se il ritratto non è più con me, la borsa di raso insanguinata e la ciocca di capelli sono sempre fra le mie cose più preziose, e i miei lontani nipoti potranno vederle, un giorno, e ripenseranno, allora, alla tragica notte di Natale, e a tutte le cose bizzarre che avvengono nella vita e delle quali la spiegazione non è nota che a Colui che le volle, per i suoi fini altissimi e sconosciuti ai piccoli mortali.

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