Il ritratto del morto

Daniele Oberto Marrama

Racconti bizzarri

A mia Madre
perché il suo nome mi accompagni
nell’opera come nella vita

Mio caro Marrama,

La cosa è andata così. L’altra sera, per potere, in tutta coscienza, dare due modeste e affettuose parole di prefazione al vostro libro di novelle, io ho preso le bozze di stampa del vostro volume e le ho lette con attenzione, dalla prima pagina all’ultima. Era trascorsa la mezzanotte. Nella mia casa silente e deserta, non un fruscìo, non uno scricchiolìo: ma alto silenzio e alta solitudine fuori, fra questa mirabile piazza Vittoria e il mare. E, a poco a poco, i fantasmi singolari che voi evocate nel vostro stranissimo libro, i fantasmi dolenti, frementi, ploranti, sparenti, che attraversano le vostre bizzarre istorie hanno cominciato ad apparire, prima innanzi agli occhi della mia fantasia e, poi, fra le penombre e le ombre della mia casa, dietro i cristalli nitidi dei miei balconi, in fondo agli specchi oscuri dei salotti, dietro le tende ondeggianti a un lieve soffio notturno. Due o tre volte, con uno sforzo, io ho tentato di sottrarmi alla suggestione di questi esseri, che la vostra arte e la vostra poesia hanno tratto, con parola magica, dal mondo degli spettri, e ho sorriso, debolmente sorriso della mia impressionabilità. E anche il fievole sorriso è scomparso: la suggestione si è fatta più profonda e io ho creduto a quanto voi raccontate e ho veduto quello che raccontate. Un senso imperioso di sgomento, sì, di sgomento, mi ha fatto lasciare, sul mio tavolo, il vostro libro, in fogli sparsi: e a occhi bassi, con passo rapido, sentendo, quasi, che qualcuno mi seguiva, sentendo, quasi, che qualcuno mi arrestava, tirando la mia veste, sono andata in camera mia, ho chiuso tutte le porte, ho acceso tutte le lampade elettriche e vi è voluto un’ora, almeno, perché la paura si dileguasse. Con questo, Marrama carissimo, io credo di aver fatto l’elogio maggiore del vostro libro. Colpire l’immaginazione non di un semplice e ingenuo lettore, ma quella di uno scrittore, immaginazione fredda, diciamo così, immaginazione esperta, e colpirla fino a un’illusione completa; colpire l’immaginazione di uno scrittore che, in venticinque anni di lavoro d’arte, in trenta volumi di romanzi o novelle, ha scritto, forse, due novelle fantastiche, o, forse, una, e che è stato, quindi, un buon servo della realtà e si vanta di questa sua servitù; colpire l’immaginazione di uno scrittore che ha venerato il fantastico, solo in Edgar Poe: ebbene, significa avere scritto con una intensa verità di scopo, con una impetuosa sincerità di visione, con una indicibile efficacia d’arte.

Perché, infine, un lungo romanzo, o un semplice racconto, o una breve novella, non debbono essere un gelido intarsio di frasi intorno a una gelida forma di vita: ma debbono, dentro, palpitare di qualche cosa, per qualche cosa: ma debbono, a chi li legge, dare un palpito segreto; sia la tristezza, sia l’entusiasmo, sia lo sgomento, sia la gioia, sia il terrore, un romanzo, una novella deve ispirare una di queste cose. Se no, è una cosa morta.

E mi rallegro con voi, carissimo Marrama, perché il vostro libro è una cosa viva, perché le vostre novelle sono frementi di una tal singolar vita che… vale meglio leggerle di giorno, alla luce del sole! Così esso irradii voi e l’opera vostra!

Amica Vostra

Matilde Serao

In Napoli, ottobre 1906.

Share on Twitter Share on Facebook