Il ritratto del morto

— Il soprannaturale? – fece Guido Rambaldi, allontanando d’un colpo la tazza di birra che aveva dinnanzi e sulla quale aveva, fino a quel momento, chinato ogni tanto il pallido volto, in silenzio. – Il soprannaturale? E chi può parlarne con cognizione di causa? Chi può dire, sinceramente, se ci sia un limite fra quello che è e quello che pare? Chi ha ancora acquistato il diritto di distinguere la visione dalla realtà? –

Alberto Viscardi, il gobbetto scettico e maligno che gli sedeva di fronte, nella saletta del caffè Fortunio, scrollò le spalle sbilenche ed ebbe un sorriso di superiorità sprezzante. Anche noi altri, che eravamo intorno, e che passavamo quella malinconica serata di novembre a inghiottir birra e a sputar paradossi, alla bianca luce delle lampade elettriche moltiplicate dagli specchi tutt’in giro, avemmo un gesto di stupore.

— Eh, via, Guido! Tu corri troppo, mi pare! – esclamò qualcuno. – Che diavolo! La visione è visione, la realtà è…

— È realtà – completò il gobbetto, con uno scroscio di riso stridulo che gli fece ballonzolare il petto gibboso.

Guido Rambaldi tacque un istante e ci guardò, col suo chiaro sguardo tranquillo.

— No, amici – disse poi, con voce piana – talvolta la visione è realtà… Talvolta quel che pare, è… E, forse, ciascuno di noi, nella sua vita…

— Tu hai una storiella da narrarci! – saltò su Viscardi, interrompendolo e agitando le lunghe braccia di ragno. – Ecco la ragione del tuo esordio strano…

— La storiella! La storiella! – gridammo tutti, con un’improvvisa esplosione d’allegria, battendo i pugni chiusi sul tavolino e facendo traballare le tazze vuote, ciò che decise un vecchio signore brontolone, che da qualche tempo ci spiava, da un angolo della saletta, ad allontanarsi, masticando qualche frase sdegnosa all’indirizzo della gioventù odierna, che noi quella sera avevamo l’onore di rappresentare.

— Non è una storiella – disse Rambaldi, con una certa tristezza, quando noi ci quietammo. – È un breve episodio della mia vita giornalistica; non quella di oggi, la tranquilla vita dell’«articolista»; ma quella di due anni or sono, la vita febbrile, attiva, indiavolata del reporter.

— Favella, o romanzier! – declamò il gobbetto, rovesciando il corpicino indietro e accendendo una sigaretta. – Noi t’ascoltiamo. —

Ma la frase sarcastica dell’amico non trovò eco: era, nel volto di Guido Rambaldi, un’espressione così strana di dolore, come un riverbero di una livida luce lontana, che noi tutti non osammo interrompere la pausa grave e solenne che passò in quel momento nella saletta del caffè, triste anch’essa, nella triste sera di novembre.

* * *

—E sia – fece, abbassando il capo come per riconcentrarsi. – Ho parlato di visioni e di realtà e ho dubitato della linea di confine che separa le une dalle altre. Debbo, ora, darvi ragione del mio dubbio; ed è solo per questo che parlerò.

Tre anni or sono – ero, allora, nel più brillante periodo del mio reportage, il reportage viaggiante – il direttore del mio giornale mi chiamò, una sera, mentre buttavo giù una noticina di cronaca cittadina, e mi disse, senza preamboli:

— Un dispaccio da Foggia annunzia un disastro sulla linea di Napoli. Uno scontro gravissimo allo sbocco di un tunnel; circa trenta morti; dei vagoni di petrolio incendiati; una sessantina di feriti. Occorre che vi rechiate sul luogo del disastro. Partirete fra un’ora: telegrafate i primi particolari per l’edizione del mattino; tornerete domani nel pomeriggio per un’ampia descrizione nell’edizione della sera… Siate efficace

Disse quest’ultima frase con l’imperiosa brevità di un duce che pronunzia, alla vigilia della lotta, la parola eroica che guiderà i suoi uomini alla morte, e mi congedò.

Un’ora dopo ero alla stazione: alle due della notte giungevo sul luogo della catastrofe, armato del taccuino e della mia macchina fotografica.

Descrivervi quello che vidi, l’orrore della scena illuminata dalle fiaccole degli operai, che avevano appena iniziato i lavori di sgombro, i cadaveri sfracellati fra le assi spezzate e le lamine contorte, gli ultimi bagliori dei vagoni di petrolio ammucchiati gli uni sugli altri, che finivano di ardere, è uno sforzo che non potrei fare. D’altra parte, la collezione del giornale è là, e chi voglia rileggere le mie impressioni, non ha che riscontrarla…

— La ricordiamo benissimo tutti – dissi io, con un lieve inchino amichevole.

Fece un breve gesto di ringraziamento e continuò con voce piana, quasi sommessa:

— Ma uno spettacolo, sopra tutto, mi colpì. In disparte, lontano dagli altri cadaveri, cinto dai frantumi del vagone postale, con le braccia distese e le mani dischiuse, quasi a proteggere ancora, dopo morto, i pacchi suggellati, che alcuni carabinieri, in attesa del pretore, piantonavano, giaceva, supino, un impiegato del personale viaggiante, l’addetto alla posta. Giaceva in attitudine composta, tranquillo, come se dormisse; la luce d’una fiaccola, che si proiettò su di lui, ne rilevò la serenità del volto, pallido, affilato, su cui i baffi neri disegnavano una macchia oscura, quasi lugubre. Solo, sulla fronte, era una ruga, diritta e profonda come la cicatrice d’un colpo di spada: in quella ruga soltanto era tutto il supremo dramma dell’ultimo minuto, il dolore di morire, il rimpianto di lasciare, forse, i figli.

Un signore, lì presso, un ingegnere delle ferrovie o un ispettore, dava delle spiegazioni a un tenente dei carabinieri; l’indiscrezione, che nei giornalisti è un diritto, mi spinse ad avvicinarmi e a unirmi ai due.

«Quest’uomo – fece quel signore, accennando al ferroviere, – è l’unico del personale che sia morto, oltre il macchinista. Gli altri hanno avuto appena il tempo di gettarsi dal treno; qualcuno s’è ferito. Il guardafreni che si trovava accanto a lui, nel vagone postale, al momento dello scontro, e che ora è al più vicino ospedale, con una gamba fratturata, ha raccontato così la scena: Si era per uscire dal tunnel; il compagno, a un tratto, sporse il capo dallo sportello e lo ritrasse subito, gridando: Un lume rosso! Nello stesso tempo, la locomotiva lanciava il suo fischio, rauco e acuto come un grido d’allarme e come un urlo di terrore. – Va – gli fece costui» e la mano accennò al cadavere, rigido, tranquillo. «Avvisa, se puoi, i viaggiatori… Salvali e salvati! – E tu? – gli chiese il guardafreni, precipitandosi allo sportello. – Io? Ho la responsabilità della corrispondenza. Resto. – E restò. E, mentre i compagni si gettavano pazzamente dagli sportelli e i viaggiatori, destati all’improvviso, cercavano di seguirne l’esempio, egli non si mosse, supremo custode di quelle lettere e di quei pacchi sui quali doveva vegliare, e sui quali, tuttavia, come vedete, veglia…»

Bianco, sereno, il volto del morto era come assopito in un lungo sogno: ma, alla luce rossastra della fiaccola vicina, la ruga, sottile e profonda, pareva sanguinasse…

* * *

L’alba imbiancava rapidamente il cielo e dava una fosca tinta di rame alla fiamma della piccola lampada a petrolio che ardeva accanto a me, in un modestissimo caffè del paese più vicino.

Avevo scritto, a quella luce fioca, quattro o cinque cartelle che mi sarebbero servite per la cronaca della sera e mi accingevo a stendere il dispaccio che avrei dovuto mandare fra qualche ora, non appena l’ufficio telegrafico si fosse aperto. Ma una specie di oppressione, ora, mi fiaccava i nervi e mi toglieva ogni forza di continuare. Era la stanchezza? Era l’impressione, ancora vibrante nell’animo mio, della tragica scena? Ardeva, accanto a me, la fiammella della lampada, con un sottile sibilo che pareva un rantolo sommesso, e sulle cartelle si disegnava, a tratti, l’ombra vacillante del lume. E una visione, a poco a poco, si ridestava in me, sempre più netta e più decisa, con una persistenza strana: la visione del bianco volto di quel morto, e della ruga profonda e dolorosa che gli segnava il suo solco sulla fronte… Chi era quel martire oscuro, quell’eroe destinato, forse, ad essere ignorato per sempre? Le mani dischiuse, scarne e brune mani di operaio, mi tornavano alla mente, distese a tutela suprema delle cose a esse affidate…

Alla crescente luce del giorno, l’ingegnere, od ispettore che fosse, entrò a prendere un cognac. E fu istintivamente, per un impulso meccanico, che gli domandai, a bruciapelo:

— Come si chiama?

— Chi? – mi chiese stupito, deponendo il suo bicchierino.

— Lui, il ferroviere morto…

— Dossu, mi pare: è un sardo.

— Lascia moglie, figliuoli?

— Non so; può darsi… Gli sventurati hanno sempre una famiglia da lasciare in lutto… – Salutò e scomparve.

Era tutto quel che avevo potuto sapere di quell’uomo. E il pensiero della famiglia lontana, di una vedova, di poveri orfanelli perduti laggiù, fra le brughiere sarde, mi strinse il cuore amaramente.

Essi non avrebbero potuto mai rivedere il loro caro, e la triste notizia della sua morte li avrebbe colpiti, improvvisamente, senza il conforto dell’ultimo bacio sulla gelida fronte di lui…

Non so perché questa idea mi si fissasse nel cervello, con l’oppressione di un incubo.

Certo, una specie di impulso mi spingeva a ritornare là, sul luogo della catastrofe, a riavvicinarmi a quel morto, a rivederlo…

Il mio dovere coscienzioso di reporter mi imponeva di fare delle istantanee della terribile scena, e mi misi al lavoro. Ma, dopo aver eseguito tre o quattro fotografie, sentii più viva la voce che mi gridava dentro e mi accostai al povero Dossu.

I carabinieri, ora, avevano sgombrato tutti i pacchi e gl’involti, caricati gelosamente su un carretto, e il morto era rimasto solo, nella bianca luce del mattino, sognando ancora il suo sogno senza fine. E le mani erano ancora distese, scarne mani veglianti nella morte…

La voce interna, l’oscura voce istintiva, mi parlò, allora, chiaramente: – Fra poco quest’uomo sarà sotto terra, seppellito in un cantuccio perduto di un piccolo e povero cimitero e nulla resterà più, di lui, al mondo, e la vedova, e i figli nulla più ne vedranno... Nulla; e, col tempo, l’immagine cara dileguerà, a poco a poco… No, no! Tu, che lo puoi, serbala, quest’immagine… Che essa si fissi, per sempre, sulla lastra: che il ritratto del morto rimanga, e che la famiglia, alla quale tu lo farai recapitare, possa, almeno, baciare la fotografia del viso bianco, composto nella pace suprema…

Mi parve, allora, di compiere un santo dovere, e, dopo essermi accertato che nessuno mi guardasse, quasi fossi per far cosa che nessuno sguardo dovesse profanare, misi la macchina a fuoco e feci scattare l’otturatore.

Poi, mi allontanai in fretta, più tranquillo, più calmo, quasi contento. Avevo con me l’immagine dell’oscuro eroe, quell’immagine che non avrei mandato a nessun giornale, perché era destinata soltanto al bacio dei piccini di lui, della povera moglie che non lo avrebbe abbracciato mai più…

* * *

In una pausa, si sentirono le prime gocce di pioggia battere all’uscio a vetri del caffè. Uno di noi ruppe il silenzio e chiese:

— E mandasti poi il ritratto? – Guido Rambaldi ebbe un lieve sorriso malinconico e riprese:

— Feci le più minute indagini, scrissi a tutti gli amici che avevo in Sardegna, interessai sottoprefetti e sindaci, ma non potei avere notizia di nessun parente dello sventurato Dossu. Il sindaco del suo paese, infine, un paesello selvaggio perduto fra le rocce, mi scrisse che il Dossu non aveva lasciato nessuno al mondo. Nessuno che lo piangesse: nessuno che s’interessasse di lui. L’unico che aveva avuto un pensiero pietoso per il povero morto ero stato io. E il ritratto, già preparato e pronto a partire, rimase con me, e lo custodii nel mio portafoglio, come un sacro e triste ricordo…

— Passò un anno. – Qui la voce di Guido divenne più grave, più lenta, più solenne, e negli occhi di lui si accese uno strano bagliore, mentre la mano che si agitava nel discorso aveva un lieve tremito. – Nel maggio dell’anno seguente, un principio di sommossa fra i contadini del Tavoliere di Puglia mi chiamava là, per una serie di corrispondenze al mio giornale, che s’interessava di queste agitazioni serpeggianti qua e là nel mezzogiorno d’Italia. Partii la sera del 24, col treno delle 17 e 40, il famoso «1442 bis»...

Uno di noi scattò, impaurito, per interrompere, ma Rambaldi fece un gesto con la mano e proseguì:

— Ascoltate.

La notte era alquanto fresca, e i vetri degli sportelli erano chiusi. Solo, nel mio scompartimento di prima classe, sdraiato sul canapè, avevo leggiucchiato un libercolo di recente stampato e che si occupava di una questione che allora era freschissima: lo spiritismo.

Il silenzio, la solitudine, il movimento oscillante del treno mi avevano fatto scivolare a poco a poco il libriccino dalle dita e cominciavo ad assopirmi. Sentii ancora, vagamente, i nomi di due o tre stazioni strillati dal personale viaggiante, poi più nulla; il «1442 bis» correva, tutto nero, attraverso la campagna, si slanciava nei tunnel, ne usciva guizzando, e portava tutta una schiera di dormienti, lontano, nelle tenebre altissime…

Tutt’a un tratto, un rumore mi scosse dal dormiveglia: mi pareva che qualcuno avesse picchiato ai vetri dello sportello, leggermente.

Tesi l’orecchio: nulla. Il movimento del treno aveva dovuto scuotere quei vetri; nulla di più naturale, che diamine!

Ma, dopo un momento, il rumore si ripetette: un rumore secco, deciso, nervoso, come di chi ha fretta.

Schiusi gli occhi e mi levai a sedere. Qualcuno era lì dietro, nell’ombra della notte, che mi spiava. Intravidi un viso bianco, immoto, e due occhi che mi fissavano…

Saltai in piedi, corsi allo sportello e abbassai il vetro. Nessuno! In quel momento il treno infilava la nera bocca di un tunnel.

— Allucinazioni – dissi allora a me stesso, dando un calcio al libriccino che aveva dovuto accendermi la fantasia. – Allucinazioni di chi ha letto insulsaggini in un’ora inopportuna…

E, per far forza a me stesso, mi ricacciai nel mio cantuccio e chiusi gli occhi, ostinandomi a riaddormentarmi.

Sentivo il rombo del treno che correva sotto la volta greve della galleria e mi sembrava che quel passaggio fosse eterno. Una strana sensazione opprimente pareva mi mozzasse il respiro; ma il letargo mi vinceva, e non avevo la forza di scuotermi, di sottrarmi a quell’oppressione. Ancora un momento e mi sarei addormentato profondamente.

Mi passai una mano sulla fronte, per vincere quel sonno di piombo, e, strana cosa, la mia mano era ghiacciata… Istintivamente, feci per muovere l’altra mano, per sentire se anch’essa mi facesse quell’impressione di freddo sulla fronte e mi accorsi che le mie mani, urtandosi, erano tiepide… E nessuna di esse io avevo mosso, durante il sonno, incrociate com’erano sul mio petto.

Trasalii: quella mano ghiacciata che mi aveva carezzato le tempie non era la mia!

Soffocai un urlo e mi drizzai in piedi. Vidi allora, per un istante, nella mezza luce del vagone, un uomo, dritto, a un passo da me. Quell’uomo aveva le mani distese, come per difendere qualcuno da un pericolo, e il viso pallido era rivolto a me… Sulla fronte, che il berretto da ferroviere lasciava mezzo scoperta, una ruga dritta, profonda come una cicatrice, disegnava il suo solco che pareva sanguinasse… E la bocca scolorata di quell’uomo si agitò, e le labbra livide mormorarono qualche cosa… Sì, io compresi che quell’uomo disse, senza che alcun suono uscisse da quelle labbra, ma chiaramente, distintamente, e in fretta:

— Un lume rosso!...

Un istante; il tempo che dura un guizzo di folgore… E, con un urlo di terrore, spinto da una forza strana e invincibile, nello scompartimento dove non c’era più nessuno, mi avventai allo sportello, lo apersi e, senza riflettere, ciecamente, mi buttai giù…

* * *

Quando, dopo pochi minuti, ripresi i sensi, mi trovai disteso sull’erba, incolume: quasi allo sbocco del tunnel.

Ma a duecento metri di distanza, quale orribile spettacolo! Enorme e sinistro cumulo nella notte, i rottami del «1442 bis» e quelli dell’altro treno, col quale esso aveva spaventosamente cozzato, si confondevano, e i gemiti dei morenti echeggiavano, paurosi, fra quelle rovine. Una delle più grandi catastrofi ferroviarie, una catastrofe che ha reso tristamente celebri la notte del 24 maggio e il disgraziato numero del treno investitore era avvenuta, e io ero lì, vivo, senza una sola contusione, scampato per miracolo…

…Fui tra i primi a portare la notizia al paese vicino e caddi subito dopo, svenuto, fra le braccia di quelli che mi circondavano. Poi una forte febbre mi assalì, ed ebbi il delirio per quattro giorni.

Guarito appena, e prima di ritornare a Napoli, rassettai le mie cosucce e posi mano al portafoglio per saldare il debito col mio ospite. Tutto era a posto; ma il ritratto del morto era sparito

… — Realtà? Visione? Chi può dirlo? – concluse Guido Rambaldi, parlando più a sé stesso che agli altri. – Questo è il fatto. Che cosa è, ditemi, ora, il soprannaturale? Che cosa è la verità?...

Nessuno di noi osò aprir bocca: perfino Alberto Viscardi, lo scettico gobbetto, tacque, fingendo di voler aspirare del fumo da una sigaretta già spenta da cinque minuti. Nel silenzio, l’insistente pioggerella di novembre batteva, lugubremente, alla vetrata del caffè…

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