Il medaglione

— Luigi, – disse il professore Salenti al custode che sorvegliava le quattro stanze dove erano ricoverati, in «esperimento», i delinquenti inviati dall'autorità giudiziaria al manicomio criminale – accompagnate il signore al numero 3. Vedrai, mio caro, – aggiunse poi, rivolgendosi a me, che mi recavo spesso a visitarlo nel suo ufficio di direttore, – che ci troviamo di fronte a un caso veramente importante, che stiamo studiando con passione. Si tratta di un allucinato, di uno sciagurato che un incubo strano tormenta, dopo un delitto da lui commesso per una ragione strana anch'essa. Durante il giorno, egli è perfettamente tranquillo; ma, la notte, il terrore lo assale. Ha bisogno di tener la lampadina elettrica costantemente accesa, per restare in una calma relativa; rifiuta, però, assolutamente, la compagnia di un guardiano. D'altra parte, non c'è pericolo che si faccia del male, né ha mezzi per farselo. Tutte le sue cure, direi tutta la vita sua, non sono consacrate che a custodir gelosamente l'oggetto per cui commise il delitto: un medaglione, che gli abbiamo lasciato appunto per studiare coscienziosamente il suo caso. Se glielo portassimo via, ne morrebbe. Ed ora, – concluse, stringendomi la mano, – va. Tu, che sei uno psicologo, vedrai uno dei più terribili aspetti dell'anima umana.

* * *

Era un ometto magro, un po' sbilenco, pallidissimo, che si levò in piedi, con una strana espressione di paura, quando l'uscio della sua cameretta si schiuse. Gli occhi, sopra tutto, due occhi neri, lucidi, mobilissimi, pareva scrutassero tutt'intorno per scorgere un pericolo che indovinassero celato chi sa dove...

— Rassicuratevi – gli dissi, entrando – sono un amico che s'interessa a voi e che viene a chiedervi se siete contento di questo asilo.

Egli mi fissò, per assicurarsi delle mie parole; ma subito dopo un sorriso gli contrasse le sottili labbra esangui, che una barbetta nera e sparuta faceva sembrare assai più bianche.

— No, no – disse con voce lieve, una voce velata che pareva venisse di lontano. – Io lo so; voi siete uno di quelli. Un medico come essi. Volete sapere, volete che vi ripeta il racconto della cosa, come gli altri... Non è vero?

Feci un vago gesto con la mano; ma egli continuò:

— Sia pure. Ma i medici non comprendono; non possono comprendere... Essi sanno fare un'autopsia; null'altro.

— Badate, amico – l'interruppi, intravedendo che la verità mi avrebbe giovato, per farlo parlare. – Non sono un medico; io mi occupo di letteratura, sono uno scrittore.

— Scrittore? – chiese il disgraziato, con un lampo di gioia negli occhi. – Scrivete romanzi, non è vero? Allora, sì; voi comprenderete!... Ed io vi dirò tutto, tutto... Ho tanto letto, vedete, e capisco certe cose che non tutti sanno capire... È tanto ignorante, la gente!

S'interruppe, girò lo sguardo intorno; poi, visto che non c'era nessun altro, mi si avvicinò e, con voce anche più tenue, quasi un soffio appena distinto, mi domandò, d'improvviso:

— Credete voi alla trasmigrazione delle anime? —

La domanda mi stupì; ma egli dovette credere che il mio silenzio fosse un'affermazione, e riprese, accalorandosi a poco a poco:

— Voi ci credete, come ci credo io; è naturale. Negarla è assurdo... Noi siamo vissuti altre volte, e serbiamo dei vaghi ricordi, delle reminiscenze sbiadite di queste passate vite. A volte, un fatto imprevisto ridesta in noi come una memoria sopita; sentiamo che qualche cosa si risveglia in noi, qualche cosa di lontano e d'incerto che, a poco a poco, si ricostruisce. Non è tutto un edifizio che risorge: ma ne vediamo già tanto da poter rievocare il resto e immaginare l'insieme... E così ci riappare la vita che vivemmo nei secoli morti...

Questa verità io l'intuivo da un pezzo; ma un giorno, due mesi fa, ne ebbi la prova, la sicura, indiscutibile prova. Ed è perciò che...

Ascoltate.

* * *

Nel palazzo dove ho il mio appartamentino di vecchio scapolo, un appartamentino in cui non sono che libri e oggetti antichi di curiosità, ricordi del mio passato di agiatezza raccolti un po' da per tutto, venne ad abitare, poco più di due mesi or sono, un vecchio antiquario, Cristiano Haller, che avevo altra volta conosciuto. Fui assai lieto di rivederlo, quantunque le mie presenti condizioni finanziarie non mi consentissero più di acquistare, come un tempo, cianfrusaglie, armi rugginose e ninnoli incrinati. Bevemmo, la prima sera, una bottiglia insieme; e, poiché egli doveva riordinare il suo piccolo museo, mi offersi di aiutarlo. Accettò; quantunque fosse un vecchio ispido e un po' diffidente, conosceva bene chi fossi, e poteva fidarsi.

Incominciammo, il dì seguente, il nostro lavoro. Le solite cose, le statuette di porcellana del secolo XVIII, i frammenti di marmo dei tempi romani, i pugnali del medioevo, i vecchi quadri offuscati dal tempo, in cui s'intravedevano pallide Madonne o truci guerrieri chiusi in armature livide, presero posto, un po' per volta, negli scaffali e lungo le pareti.

Frugando in un cassetto, in cui erano alcuni ritagli di vecchie stoffe – di quelle stoffe della fine del secolo decimosettimo, in cui corrono trame d'oro e d'argento e si disegnano grossi fiori violacei o turchinicci, alternati a disegni un po' ingenui di paesaggi e a decorazioni ornamentali barocche, stoffe grevi, un po' ieratiche, che sembrano destinate soltanto a tagliarvi delle stole sacerdotali – un piccolo oggetto scappò fuori, a un tratto, e cadde ai miei piedi.

Mi curvai subito a raccoglierlo; ma, insieme, si curvò il vecchio, e la sua mano scarna, rugosa, tutta nodi alle giunture – una mano fantastica, in cui le dita, un po' contorte, parevano zampe di ragno – piombò sull'oggetto, prima ancora che io potessi toccarlo, e se ne impadronì.

— È un medaglione – mi disse, subito dopo, come per spiegare il suo atto un po' brutale: – un medaglione del decimottavo secolo, una miniatura finissima di un pittore sconosciuto.

Aprì un tiretto di un piccolo cassettone rococò e ve lo cacciò dentro, rimettendosi al lavoro di riordinamento di tutte le altre cosucce, che restavano in fondo alle ultime casse, non ancora toccate.

Ma la curiosità mi stimolava; una curiosità viva, pungente, di vedere quel medaglione raccolto così in fretta e chiuso così misteriosamente nel cassettone, quella miniatura finissima di un pittore ignoto. Non osai chiedere a Cristiano Haller che me lo mostrasse; ma il desiderio diveniva in me sempre più intenso, e sentivo quale sforzo mi costasse il dominarlo.

* * *

Improvvisamente, il vecchio, cercando una tela che non trovava fra quelle già messe a posto, uscì dalla stanza in cui eravamo. Rapido, risoluto, con un'audacia della quale non mi sarei mai creduto capace, profittai della breve assenza e mi slanciai sul tiretto, che apersi.

Mi apparve allora... Ah, signore, quel che vi dico ora parrà incredibile a tutti, non a voi, che, come me, sapete che noi vivemmo, altra volta, in altri paesi... —

S'interruppe un istante, girò gli occhi intorno, poi, congiungendo le mani, in una rievocazione che lo accendeva tutto di una fiamma strana, ripigliò:

— Ecco quello che vidi: un viso di donna, un ovale dolcissimo, soffuso di un opaco pallore di alabastro: il pallore di una lampada in cui arda una sottile fiammella. Due occhi azzurri, sereni, temperavano la mestizia di quel viso, e una chioma ondulata, sapientemente incipriata, svolgeva le sue anella sulla breve fronte di avorio. Ma quel che era, sopratutto, vivo in lei, era la bocca: una piccola bocca carnosa, dalle labbra sanguigne, aperte a un sorriso così strano, in quel volto, come sarebbe strano un trionfante fiore purpureo sopra un abito di lutto grave.

Fu un istante; ma, nella rapida occhiata, quel viso mi apparve in tutto il suo rilievo, balzando dall'ombra come cosa viva; e quella bocca si schiuse al sorriso, così ch'io credetti vederne il lampeggiare dei denti. E, d'un subito, sentii che qualche cosa risorgeva in fondo all'anima mia, e che una immagine, sbiadita dal tempo – un tempo assai lontano – ritornava, a poco a poco, emergendo dal fondo oscuro delle cose morte; ed era come lo specchio in cui l'immagine del medaglione si riflettesse.

Io sentii che quella immagine era già dentro di me, che mi era familiare, che altra volta, in un’altra vita, avevo conosciuto quell'ovale così dolce, e quegli occhi azzurri e quelle labbra sanguigne. Dove?... Quando?...

Il passo, un po' strascicato, di Cristiano Mailer, che ritornava, mi scosse; gettai il medaglione nel tiretto e mi ritrassi in fretta. Ma qualche traccia del turbamento e dello stupore che mi avevano assalito doveva esser rimasta sul mio viso: il vecchio, entrando, mi fissò, con uno sguardo strano, lungo, insistente, lo sguardo di chi ha indovinato. Ancora oggi ricordo, con un brivido, quelle pupille verdastre, penetranti come una fredda lama sottile...

Non mi disse nulla; né io gli parlai; e ci separammo con una semplice stretta di mano, augurandoci a vicenda la buona notte.

* * *

La buona notte!... Chi potrà mai ridire come passai quelle ore interminabili? L'immagine della damina incipriata era rimasta in me, come un incubo. La rivedevo, così pallida, con quello strano sorriso sulle labbra, e non più minuscola e delicata miniatura, ma donna vivente e palpitante. Sentivo perfino il fruscìo dell'ampia gonna di seta a fiorami e un lieve profumo, come vaporato da essenze rinchiuse da un secolo e più in una fiala diligentemente sigillata. Era un profumo che io riconoscevo , così come riconoscevo tante cose, di lei, a mano a mano, in una lenta rievocazione che sorgeva dalla mia memoria. E mi riapparivano, così, i suoi gesti, larghi gesti regali, e un frequente socchiudere delle palpebre, quasi a temperare il fulgore dello sguardo, sotto la frangia dorata delle lunghe ciglia, e un vago piegar del capo verso la spalla destra, discorrendo. Il ricordo, ora, si ricostruiva intero, evidente, indiscutibile, con tutte le sensazioni, con tutte le passioni e gli impeti che avevo sentiti altra volta .

Io avevo amato quella donna. Io – comprendete, signore? – avevo vissuto accanto a lei, allora, in un'adorazione sconfinata, folle.

Tutto ciò mi riappariva chiaramente, in uno stato di dormiveglia, delizioso e tormentoso insieme; e non potete immaginare, signore, quanti piccoli particolari insignificanti rivedessi, con una lucidità di mente meravigliosa.

Per esempio, era indubitato che io le avevo parlato del mio amore, la prima volta, un secolo e mezzo fa, in un salottino civettuolo: un salottino tappezzato di celeste pallido a roselline di un giallo chiaro. C'era anche – vedete come tutto mi riappariva, così semplicemente! – uno specchio ovale, in un angolo, e vi si rifletteva un arazzo, nel quale pastorelli e pastorelle intrecciavano una danza.

È chiaro, non è vero? Nessuna prova maggiore di questa. E l'alba mi sorprese livido, sconvolto, sofferente come chi abbia fumato dell'oppio.

Ma una decisione, ferma, irremovibile, s'era formata in me. Io dovevo avere quel medaglione; dovevo riconquistare colei che avevo amata; dovevo comprare la miniatura da Cristiano Haller, a qualunque prezzo, a costo di qualunque sacrificio.

* * *

Fu con una sicurezza e una risolutezza che mai avevo sentite in me che, nelle prime ore del mattino, bussai all'uscio dell'antiquario.

— Cristiano Haller – gli dissi, dopo scambiati i soliti saluti – ho bisogno di confessarvi un mio capriccio: voglio comprare quel medaglione di cui mi parlaste ieri sera.

— Il medaglione? – fece il vecchio, freddamente, fissandomi con le scialbe pupille verdastre.

— Perfettamente. La miniatura di quel pittore sconosciuto.

— L'avete vista, dunque? – La voce del vecchio ebbe una specie di sibilo affannoso, fermandosi su quel «dunque».

— Sì. l'ho vista. E intendo di comprarla. – Le mani scarne si contrassero, le pupille ebbero un lampo, che subito si spense.

— Non la vendo.

— La pagherò al prezzo che vorrete – ripresi, eccitandomi per quel rifiuto inaspettato.

— Non la vendo. —

Seguì un istante di silenzio: le tempie mi battevano disordinatamente, e una specie di nodo mi serrava la gola. Mi pareva che mi si strappasse un brano di carne viva, che quelle mani contorte e nodose mi attanagliassero con branche roventi. Che «diritto» aveva quell'uomo, di tenere quel ritratto? Perché voleva serbarlo così gelosamente? «Sapeva» egli, chi fosse quella donna?

L'angoscia che mi straziò in quel rapido affollarsi di domande, si placò, a mano a mano. Una speranza vaga, confusa, che io potessi dimenticare tutto quello che mi era riapparso la notte, o che il vecchio, più tardi, finisse col cedere, rallentò l'estrema tensione dei miei nervi.

— Cristiano Haller – dissi, con voce che si sforzò di esser calma – verrò un altro giorno, per aiutarvi a mettere a posto le poche cose che son rimaste nelle casse. Vi saluto.

—Vi saluto – rispose lui, brevemente.

L'uscio si richiuse alle mie spalle, con un rumore secco che parve uno stridulo sogghigno.

* * *

Avevo sperato di rassegnarmi: vana speranza! Quell'immagine, ormai, mi si era conficcata nel cervello; la sentivo in me, vivere, agitarsi, parlare, rammentarmi il passato e l'amor nostro, e tendermi le braccia, chiamandomi. Dio! Quella voce, quella voce lontana lontana, implorante nell'ombra, che mi invocava: quella voce, la voce che risentivo, con tutte le sue note vibrazioni, e che ripeteva, ora, piangendo: «Salvami, salvami da lui!...»

Lui! Ed ecco che, quasi un improvviso lampo squarciasse le tenebre ancora addensate in un cantuccio della mia memoria, io rivedevo «il nemico»; l'uomo odiato, il marito di lei! Come, come avevo potuto dimenticarlo? Eccolo, adesso, dinanzi a me, un po' curvo, con un ghigno beffardo sulle labbra vizze e due scialbe pupille verdastre...

«Salvami da lui!» Ma in che modo? Con quali mezzi?

Oh, signore, qual notte tremenda, quale supplizio indicibile!

I progetti più strani, più insensati, più assurdi mi passarono per la mente, durante la giornata che seguì: non so se pensassi a pigliare del cibo: ricordo solo che vuotai parecchi bicchieri di birra, per calmare l'arsura che mi tormentava.

...Come mi trovai, la sera, a tarda ora, in casa di Cristiano Haller?

Evidentemente, ho dovuto picchiare all'uscio; mi pare, anche, di aver detto al vecchio che volevo fargli esaminare un codice del decimoquarto secolo, un piccolo codice manoscritto, in pergamena, con alluminature, che possedevo da qualche anno.

Avevo pensato a tutto quello che dovevo fare? Avevo premeditato la cosa? Ed egli non sospettò di nulla?

Non lo so. Certo, il vecchio si avvicinò, col suo passo un po' strascicato, alla scrivania, e cercò gli occhiali. Alla fiamma della candela, qualche cosa, sulla scrivania, lampeggiò.

Guardai: era un pugnaletto medioevale, uno di quegli acuti pugnaletti a croce che si chiamavano misericordie. Il vecchio doveva averlo acquistato quel giorno stesso; lo stava esaminando, forse, quando avevo picchiato all'uscio.

Lo sguardo mi corse, involontariamente, al cassettone rococò, che era di fronte al vecchio; il tiretto, quel tiretto, era socchiuso...

Il sangue, allora, mi diede un tuffo; da quel tiretto la voce, la dolorosa voce implorante, venne fuori, insistente, come nella notte: «Salvami, salvami da lui!...»

Cristiano Haller si volse a me.

— Il codice?

— Eccolo. – Glielo porsi. In quel momento le pupille verdastre di lui mi fissarono. Trasalii... Non erano gli occhi del «nemico», gli occhi del rivale geloso ed odiato, quelle scialbe pupille che mi guardavano?

«Salvami, salvami da lui!...» La voce piangeva, con un gemito fievole, senza posa.

A tratti, la lama del pugnaletto lampeggiava.

E d'improvviso, mentre Cristiano Haller si curvava sul codice, osservando con profonda attenzione di conoscitore i caratteri gotici e le alluminature, feci un passo verso la scrivania, stesi la mano, poi la sollevai...

Un colpo. Il pugnaletto entrò fino all'elsa fra le spalle del vecchio, e vi rimase confitto.

Ed egli non gridò. Scivolò a terra, senza far rumore, con le mani aggrappate agli orli della scrivania.

Senza perder la testa, calmo, sicuro, mi avvicinai al tiretto, lo apersi e vi cacciai la mano: il medaglione era là. Con quale voluttà lo strinsi al petto!

Poi mi rivolsi. Il vecchio non si vedeva: era caduto dietro il tavolo, e le spalle erano, forse, appoggiate alla vicina poltrona. Ma sull'orlo del tavolo si vedeva una mano, avvinghiata: una mano scarna, fantastica, tutti nodi alle giunture, dalle nere dita contorte. Non so che cosa avrei fatto perché quella mano fosse sparita. Mi pareva che, di quel morto, essa sola fosse sopravvissuta, e stesse in agguato, là, all'orlo di quel tavolo...

Cercai allora con l'occhio qualche cosa – un bastone, per esempio – che mi aiutasse a buttarla giù senza toccarla. E deposi sulla scrivania il medaglione.

Improvvisamente – ecco, signore, la cosa paurosa, la cosa impossibile che mi appariva la prima volta! – la fiammella della candela vacillò, si piegò da un lato e si spense, come se una bocca vi avesse soffiato su. E subito dopo, nel silenzio terribile, un rumore secco, vicinissimo, il rumore di una mano scarna che camminasse sul legno, piano piano, mi fece trasalire.

Con un movimento istintivo, a tentoni, mi precipitai sul medaglione, lo ritrovai e lo cacciai in tasca.

Il rumore si arrestò.

Come un pazzo mi slanciai verso l'uscio, lo apersi; e via per le scale, di corsa.

Nell'ombra della sera, per le strade oscure, mi pareva di vedere una mano gigantesca, delle dita contorte come le zampe di un ragno mostruoso, che mi inseguisse, guadagnando terreno...

* * *

Dove abbia passato quella notte, non so; suppongo di aver vagato per le vie, a rischio di cadere fra le braccia dei questurini di ronda.

Intanto, a misura che la luce del giorno veniva a sorridere sulle cose, un sentimento nuovo sorgeva in me. Non era rimorso per quel che aveva fatto, lo comprenderete agevolmente, signore. Dovevo farlo. Pensavo, però: – Se ti arrestano, te la porteranno via. – E questo pensiero mi rodeva come il più cocente degli strazi.

Avevo una sorella maritata in una cittaduzza vicina e da tanto tempo le avevo promesso una visita: vi andai quella mattina stessa e le chiesi ospitalità per qualche notte. Né lei né il marito sospettarono di cosa alcuna; soltanto, mi trovarono assai pallido.

— Effetto delle prolungate veglie; leggo troppo – spiegai io.

Che pace, in quella cittaduzza, e come, a poco a poco, la serenità dello spirito sarebbe tornata in me, lontano dal luogo ove la cosa terribile era avvenuta!

Lo credereste, signore? Quella notte dormii tranquillamente, come un bimbo che si sia stancato a correre. E dormii anche la notte seguente.

La terza notte... Ecco, ecco ancora una volta, signore, che la cosa paurosa, impossibile, ricominciava... Avevo messo il medaglione nel tiretto d'uno scrittoio, nella mia camera, e mi preparavo a mettermi a letto, quando la fiammella della candela ondeggiò, si piegò violentemente da un lato, come investita da un soffio, e si spense.

Ed ecco il rumore orribile, il rumore secco e deciso delle dita scarne d'una mano che trascorresse piano sullo scrittoio... Essa tornava, comprendete, signore! Essa mi aveva ritrovato, e veniva a ripigliar la sua preda!

Con i capelli drizzati dallo spavento e le mani che mi tremavano, accesi un fiammifero, corsi al tiretto, lo apersi. Il medaglione era ancora là! Lo ghermii, lo strinsi e uscii sul terrazzino, come mi trovavo, restando là, al fresco della notte, ma illuminato dalle stelle, che nessun soffio può spegnere, fino all'alba.

Quel giorno stesso mi congedai da mia sorella.

* * *

Da allora, signore, la caccia spietata, raccapricciante, non ha avuto più sosta. Dovunque andassi, in qualunque asilo cercassi rifugio, dopo una notte o due, essa , la mano del morto, mi ritrovava, veniva per ripigliare il medaglione, e la bocca ignota preparava la complicità delle tenebre. Perché è solo nelle tenebre che essa viene, piano piano, come una traditrice. Ed essa conosce, o signore, il ripostiglio dove nascondo il medaglione, quel medaglione che è mio, soltanto mio, e che nessuno deve vedere dove sia celato; è per questo che non voglio guardiani, la notte. Ella non vuole intrusi, la mia fanciulla dagli occhi azzurri e dal sorriso strano, ed io son geloso. Noi due, soli!

E l'ho nascosta dovunque, per sottrarla a quella mano... Nei cassetti, sotto i mobili, nei cantucci più segreti, perfino sotto i mattoni del pavimento. Inutile! Inutile! Dopo una notte o due, ecco, a tradimento, il soffio, ecco il rumore secco, deciso, delle dita tremanti sui cassetti, in faccia alle imposte, sull'ammattonato... Dovunque, signore!

È per ciò che una mattina, smarrito, ansante, perseguitato dal nemico invisibile, mi precipitai nell'uffizio di polizia e dissi tutto, tutto. Speravo che le sbarre della prigione mi salvassero? Può darsi: ogni speranza è giustificata, quando si è sotto l'incubo di una maledizione.

Stetti una sola notte in prigione; poi venne un magistrato ad interrogarmi, seguito, più tardi, da un medico, e la sera fui mandato qua. Vi sono da otto giorni, signore, ed essa non è venuta ancora. Il medaglione è sempre con me; ma questa volta è in luogo più sicuro. È qui. —

La voce si abbassò ancora di un tono, gli occhi guardarono in giro, e le mani febbrili, dischiudendo lievemente la camicia, mostrarono un sottile cordoncino, dal quale pendeva un oggetto che non giunsi a discernere.

— È qui, sul mio petto. Voi solo lo sapete; ma di voi mi fido. Siete un uomo che mi comprende, l'unico che può comprendermi, e manterrete la parola, se mi giurate di non rivelarlo. Giuratelo! —

La voce gli fischiò in gola e le mani mi strinsero il polso. Giurai, un po' per sgomento, un po' per tranquillarlo. In fondo, quel segreto non mi pareva pericoloso per nessuno: mi faceva tanta pietà, quell'infelice!

Il lampo degli occhi si estinse, le mani ricaddero e, poco dopo, egli riprese, con amarezza:

Essa non è venuta ancora. Ma verrà; lo sento. Verrà. E questa volta la lotta sarà terribile. Ed io, signore, non potrò sfuggirle... Come, come lo potrei?

— Qui – conclusi, per rassicurarlo – non avete candele: e le lampadine elettriche non vi fanno temere la complicità delle tenebre. E poi, se non vi ritrovasse più?

Un lugubre sorriso gli schiuse le labbra esangui che la barbetta nera e sparuta faceva sembrare assai più bianche; e crollò il capo.

— Mi ritroverà – disse.

Fu l'ultima sua parola; tacqui ed uscii, addolorato da quello spettacolo.

Il custode, impassibile, richiuse l'uscio del «numero 3».

* * *

Convien dire che le vicende della vita facciano dimenticare anche le scene più impressionanti. Tre o quattro giorni dopo, la figura del povero allucinato cominciava già a sbiadirsi man mano nella mia memoria: ancora poco, e avrei finito per dimenticarlo. Ma fu proprio il quinto giorno che, in un giornale della sera, una strana, inaspettata notizia mi fece sussultare. La notizia, terribile nella sua concisione, diceva:

«Il nostro manicomio criminale è stato funestato da una tragedia spaventosa e piena di mistero, insieme.

Il guardiano dei detenuti in «esperimento», verso le tarde ore di stanotte, ha inteso un rantolo soffocato partire da una delle quattro celle del corridoio. In due di esse i detenuti dormivano tranquillamente. Nella terza, c'era buio perfetto. Egli girò la chiavetta della lampadina, ma invano. Alla luce di una candela, allora, ha potuto scorgere il ricoverato del numero 3, orribilmente contorto, ai piedi del letto, che conservava le tracce di un'agonia dolorosissima. L'infelice, come si è subito constatato, era morto da pochi istanti, strangolato da un cordoncino aggrovigliato strettamente, in nodi fantastici, intorno al suo collo. Pare che da quel laccio dovesse pendere un medaglione, come abbiamo appreso dalla Direzione. Il medaglione non s'è potuto trovare.

Quale dramma strano si sarà svolto nelle tenebre? Nessuno potrà, forse, saperlo mai. Come nessuno potrà dire per quale strana coincidenza la lampadina del numero 3, si sia, questa notte, fulminata».

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