Di là dalla Vita

V'è qualche cosa di più triste di una tomba abbandonata, perduta in un cantuccio di cimitero, che non ha più fiori, che non ha più ceri, che nessuna mano pietosa sbarazza dalle erbe che la soffocano, vincitrici; di una tomba su cui nessuna fronte si china, più, nessun ginocchio si piega, nessuna bocca tremante si posa, singhiozzando, mormorando l'amara parola dello sconforto o la rassegnata parola della fede; v'è qualche cosa di più triste di un vecchio sepolcro dimenticato, da anni, ma che pure sente, nel tiepido meriggio, il dolce bacio del sole che indugia, sul marmo ingiallito, in una lunga carezza; e a primavera si ricopre d'una fiorita di piccole corolle gentili, semplici fiori senza nome, che l’aprile dissemina su tutto ciò che è abbandonato, su tutto ciò che è morto; e, forse, sente, nelle fenditure e nei crepacci che il tempo aperse nei suoi fianchi, la dolcezza del nido, un piccolo, soffice nido che schiude la vita sul sasso della Morte. Ed è, questa cosa assai più triste, infinitamente triste, un vecchio chiostro che non ha più suore, che non ha più canti, che non ha più preci; un vecchio, silenzioso chiostro su cui l'ombra incombe, e che domani, forse, cadrà sotto il piccone demolitore. Quanti ne cadono, così, giorno per giorno! L'acuto ferro intacca con ebrezza selvaggia le mura che furono fino a ieri impenetrabili, le morde, le fora, le sventra. E il sole irrompe, vittorioso, in quelle celle dove la penombra conciliò alla preghiera, in quei corridoi oscuri dove una piccola lampada, solamente, ardeva, in fondo, vivo occhio luminoso che vegliava ai piedi d'un crocefisso insanguinato. E penetra, col sole, tutta l'onda irrompente della vita, la torbida onda tempestosa che fino a ieri cozzò contro quelle mura e si ritrasse, vinta dalla salda barriera che le si levava di fronte e che pareva inespugnabile. E le cellette mostrano la loro nudità verginale che nessun occhio profano doveva violare, e le pareti delle cappelle, istoriate di mistiche imagini, cadono a pezzi, disfacendosi in polvere...

Tutti i sogni di fede, i pii sogni delle claustrali anime miti, i sogni deliranti delle anime passionali, tutto ciò che fu preghiera, invocazione, palpito, estasi, tutto ciò che fu pensato, o mormorato in preci sommesse, o singhiozzato in frasi monche, in quelle celle, in quelle mura, confidato al silenzio di quelle pareti, a piè del crocefisso che ascoltò, immobile, silenzioso, china la fronte cinta di spine e stillante sangue, tutte le segrete amarezze che solo quel crocefisso seppe, tutti gli slanci di fede che esso soltanto conobbe, sono strappati a quelle celle, a quelle pareti, e il soffio del mondo brutale li investe, li sconvolge, li disperde.

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Pure, le povere vecchie suore avevano sognato di morire, lì dentro, in quegli austeri conventi dove esse entrarono, forse, giovanette, recidendo, sulla soglia, le chiome e le fallaci illusioni del mondo; lì dentro, lontane dalla vita, di là dalla vita, come in una sepoltura che le sottraesse ad ogni contatto, che ne facesse delle anime morte al mondo, solo viventi nella preghiera. Esse videro morire, a poco per volta, le loro compagne; e, poi che nessun'altra vergine varcò mai più quelle soglie, strinsero le loro file, e l'una vecchiezza fu di sostegno all'altra, e si aggirarono per i vuoti corridoi, per gli scaloni deserti, sotto i taciti porticati – lì dove altre ed altre erano passate, in lunghi cortei, negli anni, nei secoli –, ultime e vigili custodi di tutte le sacre, gloriose memorie onde ogni cantuccio, ogni pilastro, ogni sasso parlava, col muto linguaggio solenne delle cose che ricordano.

Fuori, il turbine della vita imperversava, battendo alle porte del chiostro che si andava spopolando; ma quelle porte restavano chiuse, fedeli alla regola, nella rigida osservanza dell'ordine. E l'eco delle umane tempeste si smorzava, innanzi ad esse, e nulla turbava l'alta pace di quelle piccole celle, ormai quasi tutte vuote, e degli ampii, magnifici «cori», ormai quasi deserti, dove poche voci tremanti si levavano, nelle preghiere al Signore. Spegnersi, così, lì dentro, chiuse nelle bianche bende, le ceree mani incrociate sul seno, intrecciate alla corona; spegnersi, fra le mura familiari, innanzi alle imagini che si erano adorate, sul letticciuolo bianco che sapeva le notti insonni, le tristi ore di abbattimento, le ore dolci di pace e di serenità, i lunghi colloquii con Dio... Questo, soltanto, volevano, questo aspettavano, supremo conforto, le superstiti; e il passo lieve, scivolante sui pavimenti silenziosi, pareva preludesse al trasvolare d'un'ombra, che nell'ombra si dileguasse, tacitamente.

Una mano scoperchiò quella dolce tomba volontaria e una voce intimò che le morte tornassero alla vita. E le superstiti, scacciate, smarrite, involte dal turbine che aveva infrante le mura del chiostro, cercarono, affannosamente, un altro asilo, un'altra tomba che offrisse loro la pace e il silenzio, dove altre superstiti aspettassero, forse, com'esse, l’ora suprema, in una lenta attesa di speranza e di fede.

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Un chiostro, un antico chiostro solenne, ospitò, fino a ieri, qui, in Napoli, queste profughe, che da novantaquattro anni, a volta a volta, furono disperse e mandate via da quegli asili che esse si erano scelti: fin dal 1808, quando fu soppresso un monastero dedicato a S. Francesco, il vicino chiostro di Santa Chiara ospitò quattordici coriste, nove converse e cinque educande, che furono, più tardi, con lettera di Mons. Nunzio Apostolico del 14 agosto 1822, incorporate con le monache di S. Chiara. Dopo di allora, vi si ricoverarono, al 1828, le Benedettine di Donna Romita; al 1829 alcune monache di Donnalbina; e poi, più tardi, al 1864, le religiose di Donna Regina; al 1866 le monache del Divino Amore – a cui, il 16 gennaio di quell'anno fu intimato, al mezzodì, che facessero legale consegna del monastero, all'Ave Maria, e, nello sgombero frettoloso, molti affaristi seppero fare sparire parecchi e preziosi oggetti –; al 1886 le monache della Sapienza, a cui eransi unite quelle di S. Giovanni; ed oggi, credo, le poche superstiti della Croce di Lucca.

Dolce chiostro ospitale! Come, attraverso i secoli, seppe serbare l'impronta che una piccola mano regale aveva lasciata, indelebile, nella sua regola di fondazione! Come seppe serbarsi grande e gloriosa, così come lo volle Sancia regina, la pia e bella compagna di Roberto d'Angiò, che lo aveva edificato e ne aveva voluto compilare le Costituzioni!..

Ed era in quel chiostro, lungi dai tornei e dalle cacce rumorose, che ella amava rifugiarsi, sovente, indossando l'abito delle Clarisse e servendo le monache alla mensa, per umiltà, come l'ultima delle converse. Il numero delle religiose, di cento da prima, salì fino a duecento, e fu vietato, con pubblico istrumento, che esso fosse sorpassato; e da Roberto d'Angiò a Carlo III di Barbone, che, nel 1735, riconosceva e confermava tutto quello che si era disposto dai suoi predecessori, i sovrani largirono privilegi e donazioni a quel monastero, del quale la cura spirituale, con gli originarii strumenti di donazione, fu affidata ai frati Minori.

E a lungo l'ombra benefica della regina Sancia vegliò sull'opera sua, che diveniva sempre più grande e sempre più gloriosa; ed era, anche, fra quelle mura austere e solenni, il riflesso della corona gemmata che cingeva la bianca fronte di lei, e che dava alla Badessa di s. Chiara una maestà così grande che ella, nelle funzioni solenni, faceva uso delle insegne regali: la corona, il suggello e i reali paludamenti. E, nel giorno della Santa, «un battaglione di soldati, dopo aver ascoltata la santa Messa come si usava una volta nei regni cristiani, recavasi alla spaziosa porteria del Monastero; ed ivi la Badessa, adagiata sopra una sedia dorata sulla soglia della porta maggiore, fiancheggiata da due converse, che in ricchi vassoi tenevano la corona e il suggello, riceveva a vista di un popolo festante gli onori militari. Il battaglione sfilava dinanzi a quella regina in cocolla, ed abbassava la bandiera nazionale in segno di reverente sudditanza.»

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Tutto ciò è sparito. Anch'esso, il chiostro ospitale, che fu magnifico nei secoli, è condannato, oggi, a morire. L'asilo che esso offerse alle profughe delle altre comunità è un asilo di morte; nessun altro giovane tralcio verrà a germogliare sul vecchio tronco che si va disfacendo, e la vita sfugge a poco a poco, come una lampada a cui l'alimento manchi.

Sparita, ogni grandezza. – Forse, l'ombra della pia regina non veglia più, dall'alto, sulle sue buone suore.

Non più insegne regali, non più battaglioni sfilanti dinanzi a una cocolla; della magnificenza antica, oggi, non restano che le alte mura silenziose del chiostro e i corridoi deserti, dove poche suore trascorrono, tacite. Poche suore: le ultime.

Ed è una tristezza grande, infinita, in questo morire di un chiostro, in questo ruinare d'una bianca tomba solenne, dove è sepolto tutto quanto avanza d'una Napoli ricca, gloriosa, possente; d'una bianca tomba, a guardia della quale veglia un vecchio frate, l'ultimo custode, che ne sa le glorie e ha voluto consacrarle in uno scritto «prima che sparisca», come egli ha detto, «questo prezioso avanzo di passata grandezza.»

Nessuno può metter piede nel monastero, nessuno può violare la clausura: l'agonia è rispettata. Ma nell'ampia chiesa austera, contigua al chiostro col quale nacque, col quale visse la possente, fastosa vita dei secoli, si sente passare il gelido soffio di morte, e il lampeggìo delle corone che posano sugli avelli degli ultimi Borboni pare che abbia il corruscare d'una face funeraria, e la voce delle suore, salmodianti dietro le grate, pare un lamento di morta gente che piange il passato, d'un tristo pianto sommesso.

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