La Vasca

(NOVELLA)

— Paolo Orsini – interrogò il presidente – voi persistete a negare, anche innanzi ai giurati, nonostante gli indizi gravissimi che pesano su voi?

L'accusato si levò in piedi, pallido, ma calmo.

— No – egli disse, con voce piana – Io non nego più. Voi, giurati, potete comprendere quello che un magistrato non può e non deve comprendere; ecco perchè confesso a voi. Contro di me non vi sono che indizi: nessun testimone ha visto. Tuttavia, oggi confesso. Sì: sono io che ho ucciso quella donna.

Perchè? Ella non aveva commessa nessuna colpa, verso di me; ella mi amava, sinceramente; le sue parole erano schiette e buone, come lei. Pure, io l'ho uccisa; ed è per questo, che l'ho uccisa.

Ascoltate, giurati. Io dico oggi a voi una verità che ignorate ancora e che, forse, più volte, nella vita, avete sentita gravarvi sul capo, più fredda e tagliente di una spada. E questa verità io la intuivo, da prima; poi la studiai, con l'affannosa ricerca di uno scienziato che voglia scoprire un nuovo bacillo mortale; infine, la trovai, come una legge fissa, sicura, immancabile. La trovai, attraverso tante donne, attraverso tanti amori. Da prima, la scoperta mi spaventò: mi parve di affermare qualche cosa di troppo grave, di troppo audace; anche, di troppo doloroso. Sperai di essermi ingannato, così come il medico che s'accorga di una malattia mortale che covi, latente, nell'organismo d'una persona cara. Poi, l'orgoglio della scoperta mi prese, mi vinse: conoscevo il male, potevo guardarmene. Ma anche questa ebrezza non durò a lungo: io pensai, allora, che il pericolo potesse assalirmi, quando io non avessi modo di difendermi, e che io cadessi, vittima di quello che io conoscevo, soffrendo tutte le sofferenze che io avevo prevedute. La triste legge allora mi apparve in tutta la sua inesorabile gravezza, inevitabile, fatale come il destino.

Avete mai pensato a qualche cosa di spaventoso, di terribile, che vi aspetta nell'ombra, come un nemico, in un agguato che voi indovinate ma dal quale non potete salvarvi? Avete mai pensato a questa spaventevole sensazione: sapere che il pericolo c'è, sentirlo maturare, invisibile, e, all'ora che si prevede, piegare sotto il suo peso come sotto un improvviso colpo di mazza che vi piombi sulla nuca, fulminandovi? Ebbene, tutto ciò io ho provato, non una volta, ma più volte, sempre, con l'incessante ripetersi delle cose che sono governate da una regola fissa, cieca, immancabile. Se c'è mai una verità, nel gran cumulo di menzogne onde è intessuta la vita degli uomini, è quella, la terribile verità che io avevo intuita, che io ho scoperta; quella l'unica, forse, la suprema: la Verità. Che cosa si può fare contro la fatalità, giurati? Lottare? È vano. Lamentarsi? È vile. Reprimere il pericolo che niuna forza può vincere? No: prevenirlo. È quello che io ho fatto.

Ascoltate.

Voi avete amato, così come io ho amato; una donna sola, o più donne, non importa; e le avete amate molto, o poco, per otto giorni o per un anno, per un bisogno del cuore o per uno svago dello spirito; ma tutti, tutti, avete dovuto sentire che c'è, nell'amore, in ogni amore, un quarto d'ora di sincerità reciproca, assoluta, piena, che vi mette un fremito nell'anima, che vi dà una dolcezza grande, scorrente, come un'onda d'un tepore delizioso, per le vostre vene: voi sentite di amare e vi sentite amare; voi date tutto, in un largo dono cosciente ed avete tutto: tutto ciò che potete dare e tutto ciò che vi si può dare: la carezza folle e intera di una amante o il bacio timido ma ardente di una innamorata, una stretta o uno sguardo: ma, in quel momento, avete la certezza che siete sinceri, tutti e due, voi e lei, e il Dono vi appare tanto più grande in quanto ne sentite l'offerta schietta, che nessuna menzogna macchia.

A un tratto (ecco la cosa terribile, o giurati!) l'anima vostra sente un brivido: una ignota bocca ha soffiato su di essa qualche cosa di gelido... Nell'attimo che passa e che non torna più voi sentite come l'eco di un crollo... È un istante; ma quell'istante è l'avvertimento. Voi non sapete intenderlo, voi dimenticate subito quel brivido: ma che importa? Credete che ciò basti a fermare il cammino di ciò che verrà? Anche il tisico dimentica il primo colpo di tosse che lo scuote un giorno, all'improvviso, e la prima macchia rossastra che ne tinge il fazzoletto: e dopo mesi, dopo anni, giunge, fatalmente, la condanna...

Quel soffio, che sfiora appena l'anima vostra e dilegua, vi preannunzia il pericolo. Ed esso verrà. E deve venire: imperocchè la legge è questa. Ascoltatela, o giurati: Non si è sinceri che una volta sola: l'Amore finisce non appena il quarto d'ora della sincerità è giunto. Nella compenetrazione sincera delle due anime, esso si uccide. Ma la sua morte – ascoltate! – è lenta, negli uomini, nei quali permane il ricordo: essi credono di amare ancora sol perchè amano di ricordare l'amore. Negli esseri più sensibili, che vivono più d'impulso che di riflessione, la morte, invece, è rapida, quasi immediata. Nessun ricordo; è la fine, netta, recisa. E perciò, ecco l'assioma: Una donna v'inganna sempre il giorno seguente a quello nel quale essa vi ha dato tutto quel che poteva darvi.

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* *

Così, per tutte le donne, o giurati: tutte, intendete? tutte. Voi pensate, con quella ingenuità profonda nella quale ogni anima umana vuole illudersi, che, forse, v'è una donna, una soltanto, che sfugga alla legge: voi pensate, nel grande inganno che cercate di tendere a voi stessi: questa donna, è la mia. Inganno: doloroso, amaro inganno! Essa, come le altre.

Eppure, bisogna amare! Eppure, bisogna affrontare l'inganno! E voi, quando la triste legge vi si è rivelata, come a me, o giurati, dite, con uno schianto che vi strazia l'anima: La donna che io amo, la donna che mi ama, deve essere infedele, deve tradirmi: e forse anch'essa non lo sa, anch'essa non suppone questo! Colpevole! E ciò non può evitarsi!

Non può evitarsi! È questo che dite anche voi, giurati, non è vero? Voi avete compreso, allora, tutto intero il terribile problema? E adesso, adesso soltanto, potete capirmi. Ed io vi racconto perciò, come è andata la cosa.

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Il mio primo amore, uno di quegli amori che non si scordano più, era, appunto, finito così: dopo la dedizione, il tradimento. Sentivo già che nell'anima mia si ammucchiava della cenere, e che la chiara fiamma brillante che aveva un giorno divampato si assopiva, tiepida brace, quando, d'improvviso, ebbi la certezza che ella aveva già tutto obliato, che, nell'anima sua, nulla, nulla, di quell'amore, era rimasto: nè brace, nè cenere. Ella m'ingannava: ella mi tradiva, da un pezzo. Il colpo mi stordì: la prima disillusione vien sempre come una pugnalata che colpisca alle spalle: si cade senza essersi fatta ragione della cosa: è uno schianto fatto più di stupore che di dolore. Non mi ribellai, non mi vendicai: a che scopo? Piegai, sotto il colpo, in silenzio, comprimendo la mia ferita perchè non sanguinasse. Non indagai: ma finii col sapere ogni cosa. In lei l'amore era morto, così, tutt'insieme. Il tradimento era stato consumato semplicemente, senza rimorso; era la spontanea fioritura che sbocciava sulle rovine dell'amore morto. E tutto ciò, subito. Avevo avuto tutto da lei, un giorno, nel quale sentii l'anima sua, nuda, palpitare accanto alla mia: in quel giorno l'amore divampò nella sua piena gloria di luce, libera fiamma di sole che nessuna nube velava. Credetti che fosse un'alba radiosa: era un tramonto... Fu il giorno seguente...

….Ho amato, dopo, altre donne. La fede rinasceva in verdi germogli pullulanti sul tronco spezzato, ostinandosi a rivivere. Diffidente, da prima, guardingo, sospettoso, dimenticavo, a poco a poco. Veniva, un giorno, fatalmente, il quarto d'ora in cui non si dubita, il quarto d'ora in cui si crede, perchè l'anima legge nell'altra anima; mi abbandonavo all'inganno di quella sincerità che sfolgorava tutta, al momento di spegnersi per sempre; pensavo: Questa, non come le altre. Poi...

Tutte così, giurati. Tutte. E ho imparato, attraverso le amarezze, attraverso lo schianto, soffrendo da prima perchè ogni nuovo inganno mi pareva una ingiustizia e non una sorpresa, poi perchè dubitai che esso fosse una necessità logica, immancabile, e mi tormentai nella ricerca di questa verità che intuivo; infine, perchè ne fui convinto, e vidi tutta la inflessibilità della legge che avevo saputo scoprire.

E allora pensai a questo gran laccio che l'amore, da secoli, tende agli uomini: pensai alla fatalità dell'inganno che colpisce l'umanità tutta, cosciente o incosciente. Ed ebbi il riso sprezzante del filosofo che ha visto ciò che gli altri non sanno vedere. E dissi: – Io so: dunque non temo.

Ma sull'anima mia passò il triste soffio della bocca ignota, e trasalii. Qualcuno aveva sussurrato: – Bada!

Ed ebbi paura.

*
* *

Quando ho conosciuto Cristina Heinemann, ella non aveva ancora perduto la madre. Il padre, un commerciante bavarese stabilitosi in Roma da molti anni, che, alla vigilia del fallimento, si era tirato un colpo di rivoltella alla tempia, l'aveva lasciata in condizioni assai modeste, quand'essa era ancora bambina. Ora, faceva l'istitutrice in una piccola scuola di suore, ed aiutava così la vecchia madre che passava le giornate fabbricando fiori di carta per le chiese di provincia. La sera, dopo aver rivisto i compiti delle alunne, Cristina si metteva anch'essa, alacremente, a tagliare i petali nella sottile carta colorata, a foggiarne dei calici, delle corolle, avvolgendoli intorno a uno stelo di fil di ferro, rivestendo questo di un involucro verde, attaccandovi delle foglie, aggiustando, ripiegando, ingommando...

La incontrai la prima volta, un giorno, al cancello di una vecchia villa abbandonata nella quale io mi recavo, ogni tanto, per dipingere; non ho fatto mai il pittore per professione, ma ho amato sempre, nelle ore d'ozio, fissare sulla tela un riflesso di cielo sereno, un pezzo di bosco ombroso, delle luci, delle ombre, tutto ciò che rispondeva a quello che passava nell'anima mia... Ella abitava lì, accanto al cancello; una casetta modesta che un tempo era servita di abitazione al custode della villa. Ora, la vecchia villa abbandonata serviva, di estate, per la villeggiatura di un collegio feminile, e si diceva che l'avessero comprata i gesuiti: d'inverno, non era guardata che da un giardiniere che abitava in fondo a un viale di querce, ed era sempre occupato intorno a una piantagione di agave, delle agave superbe che egli vendeva per conto suo. Il cancello era sempre aperto, meno che in settembre ed ottobre, quando veniva il collegio: e ivi andavano spesso pittori, a dipingere.

La figurina di quella fanciulla, presso il gran cancello rugginoso, mi colpì: aveva negli occhi, assai chiari, e nel taglio della breve bocca, come un'impronta di dolore. Vestiva di nero, semplicemente, e portava un fascio di carte fra le mani, assai bianche e sottili. Passò, senza guardarmi. Seppi, poi, di lei dal vecchio giardiniere, che conoscevo.

— Un angelo di figlia – mi disse, curvo al suo lavoro, rincalzando il terreno intorno a una splendida agave gialliccia, screziata di bianco come un serpente. – Instancabile, attiva, sempre. Mai uno svago... Al tramonto, scende un po' qui, in giardino. Quattro passi, sola, fino alla vasca. Poi, a casa...

— Sempre? – chiesi, con più curiosità che interesse.

— Sempre. La vasca è la sua meta. Là resta, a lungo, a guardar l'acqua, con gli occhi chiari... Chi sa che vede? Il suo paese, forse? Il suo destino? Chi sa?...

Sputò, cavando di bocca la corta pipa di creta, e passò appresso, ad un'altra agave, un mirabile cespo massiccio che pareva fuso nel bronzo, irto di punte brune, solide, diritte come lance aguzze.

Quella vasca, io la conoscevo. Era una grande cisterna quadrata, intonacata di bianco, profonda. In fondo, vi dormiva un'acqua verde, quieta, senza luccichìi e senza riflessi, come morta. In alto, tutt'intorno all'orlo della vasca, senza parapetto, senza ringhiera, era una fitta cornice di foglioline, una capigliatura arruffata di piccoli rosai del Giappone, che a giugno si coprivano di roselline bianche, come una gran nevicata.

«Chi sa che vede? Il suo paese, forse? Il suo destino?» La domanda del giardiniere mi ritornò, anche più tardi, alla mente; mi ci fermai anch'io, col pensiero, indugiandovi un poco. Poi, sorrisi di me stesso. Che m'importava questo? E andai via, senza dipingere, quel giorno.

Tornai alla villa dopo tre giorni, per ripigliare un tramonto che avevo schizzato qualche tempo prima.... Appena varcato il cancello, una strana curiosità mi punse: rivedere la vasca. Era una cosa stupida, irragionevole, lo capivo: pure, qualcuno mi spingeva là, verso la cisterna bianca, in fondo alla quale dormiva l'acqua verde, opaca, immobile, come morta... Esitai, sorrisi: vi andai. Nel pomeriggio di marzo qualche precoce bocciuolo timido metteva il suo bottone bianco nella chioma dei rosai, all'orlo della vasca, tutt'in giro. Intorno, pesava un grave silenzio umido, come un alito che piovesse dai grandi alberi che si drizzavano in cerchio, protendendo le chiome, dall'alto, sull'acqua verde. E una tentazione mi prese: di piantare lì il cavalletto, cancellando quei pochi tratti di carbonella che erano già sulla tela e che dovevano servirmi per lo studio di un tramonto, e d'incominciare subito a schizzare quella vasca, e quei rosai; sentivo, non so perchè, che c'era, nella verde pace di quell'acqua, una suggestione nova, dalla quale ero conquistato, a poco a poco...

Ero là, intento al lavoro da circa un'ora, quando ella giunse: mi accorsi della sua presenza prima ancora di vederla. Venne, dal viale che era alle mie spalle, col suo passo silenzioso, e si arrestò, un po' stupita; forse, anche, un po' contrariata. La presenza d'un intruso presso quella vasca, che essa era avvezza a considerare quasi come cosa sua, dovette dispiacerle. Poi, un lieve senso di curiosità la spinse a dare uno sguardo fugace alla tela, e si accostò. Io mi levai in piedi, vinto da un'improvvisa timidezza, e arrischiai un saluto. Ella disse, semplicemente: – Continui.

Continuai; sotto il pennello, a poco a poco, la vasca apriva la sua profondità bianca, di una tragica bianchezza di tomba, all'ombra della cupola fosca degli alti alberi, intorno: all'orlo, tutt'in giro, la fitta cornice dei rosai del Giappone metteva la nota allegra della sua capigliatura arruffata, spenzolante nel vuoto, d'ogni parte...

La fanciulla guardava, soggiogata; quel senso di diffidenza pareva che l'abbandonasse, rapidamente, a misura che il pennello progrediva nel suo lavoro. La vasca la riconquistava, anche sulla tela, ed ella la fissava con i suoi occhi chiari che pareva vedessero qualche cosa: il suo paese, forse, come aveva detto il giardiniere, o il suo destino...

Rimase là, finchè l'ombra crescente della sera non m'impedì di continuare.

Andando via, per riporre la tela e il cavalletto nel casotto del giardiniere, dissi, macchinalmente: – A domani.

A domani! Come se ella avesse potuto ritornare là per me! Come se avessi potuto darle appuntamento, senza che mi conoscesse, senza che la conoscessi!

Ella rispose, con grande semplicità: – A domani.

*
* *

E ritornò. Finchè il quadro non fu terminato, venne tutti i giorni, un poco, fermandosi accanto al cavalletto, guardando la tela con gli occhi chiari nei quali passava una visione di lontane cose dolorose...

Facemmo, così, amicizia: le dissi il mio nome, mi disse il suo. Poi, mi parlò di sua madre, che amava tanto i fiori e ne rifaceva, di carta, per le chiesette di provincia, e, con quella serena semplicità delle fanciulle tedesche, mi chiese se volessi vedere come sbocciavano, sotto le agili dita feminili, le rose di carta. Ed una sera fui presentato alla madre, nella piccola stanza da pranzo dove una lampada a petrolio illuminava una tavola rotonda tutta ricoperta di ritagli di carta colorata, di fili di ferro, di foglie di carta lucida, e passai due ore, due buone e dolci ore di pace, ad assistere a quel lavorio di bianche mani giovanili, di sottili mani pazienti a cui la vecchiezza imminente dava già un tremito lieve, intente a creare, l'una dopo l'altra, delle rose, sempre delle rose... Quella sera, era tutto uno sbocciare di rose bianche; una fiorita di neve che si ammucchiava sul grosso tappeto verde della tavola, sotto la mite luce della lampada a petrolio. Cresceva, cresceva il mucchio, e l'una rosa cadeva mollemente sull'altra, senza rumore, in una pioggia incessante che veniva giù dalle dita feminili, come per un miracolo... A momenti, il grosso tappeto ne era tutto ricoperto, sepolto, e venivano giù ancora rose, senza tregua...

— Per una chiesa dell'Immacolata – disse ella, a un tratto, nel silenzio. E la mano sottile accennò al bianco mucchio sterminato. – La Vergine vuole le rose bianche.

Quando andai via, quella sera, avevo ancora negli occhi la fiorita di neve, e le parole di lei mi suonavano dentro l'anima, con la persistenza delle cose che ci colpiscono senza che ne sappiamo il perchè: – La Vergine vuole le rose bianche...

Due volte ci tornai, di sera; e la rividi, anche, nella villa, qualche volta. E mai, vi giuro, mai, io pensai che potessi amarla, o che ella potesse amarmi.

Un giorno (era passato qualche mese dalla mia prima visita alla madre) il giardiniere mi disse, incontrandomi al cancello, che la povera signora era morta, due sere innanzi, e quella mattina era stata portata via, al cimitero.

— E... lei? – chiesi, preso da un'improvvisa emozione che mi strozzò la parola.

— È qui, a prender non so che robe. Va via. Domani si carica quel po' di mobili...

— Sola?

— Credo. – Si strinse nelle spalle e imboccò il viale, col suo passo un po' strascicato, ritornando, forse, alle sue agave.

«Sola!» pensai, guardando a quell'uscio.

In quel momento ella apparve. Era più pallida del solito, e il cappellino nero, di lutto grave, le metteva un'ombra fosca sulla fronte bianca. Negli occhi chiari, nel breve taglio della bocca, m'apparve più viva l'impronta del dolore ch'io vi avevo sempre scorta.

— Signorina... – mormorai, appena.

Ella disse, come in sogno: – Addio.

Aveva fra le mani un involto di carta; qualche cosa le sfuggì, andandosene, e volò fino ai miei piedi. La raccolsi: era una rosellina di carta bianca.

*
* *

Quando ho cominciato ad amarla? Io l'ho chiesto a me stesso più volte, me lo domando ancora adesso, e non so rispondere. Forse, fu allora: quando ella disparve, abbassando la fronte bianca sulle sue roselline, quando un soffio di vento portò fino a me una di quelle roselline bianche. Forse, fu dopo, quando io la rividi, nel maggio, mentre tornava dall'istituto, tutta sola, nel tramonto, per una via solitaria, tanto lontano di là, da quella villa... E per quella via la rividi, qualche altra volta, ritornandoci per incontrarla, ma salutandola appena, senza parlarle.

Fu in un pomeriggio di giugno che io la fermai. Sentivo in me qualche cosa che mi spingeva a parlarle, e sentivo, anche, che ella avrebbe risposto.

— Avete mai pensato di rivedere la villa? – le chiesi, fissandola negli occhi.

Ella tacque, in un silenzio doloroso che le mise un tremito all'angolo della breve bocca scolorata.

— È giugno – ripresi. – I rosai del Giappone saranno in fiore; la vasca avrà tutta una fiorita di rose...

— Le rose... – ella mormorò, vagamente.

— Quante, quante, ce ne saranno... – insistetti, come se seguissi anch'io un sogno.

— Ci siete tornato, voi? – mi chiese, a un tratto, trasalendo.

— Domani, ci vado – E aggiunsi: – Venite?

Non rispose: e se ne andò, come quel giorno, curvando la bianca fronte; e disparve.

...Nel crepuscolo di giugno la villa era invasa tutta da una dolcezza nova: era, da per tutto, come il calmo respiro della natura che riposasse. Qua e là, sui cespi, morivano rose, disfacendosi in silenzio, con un molle cader di petali sul terreno che la luce crepuscolare tingeva di riflessi d'oro. Intorno alla vasca, il silenzio era più grave, più solenne, quasi direi più religioso: spirava, dagli alti alberi che la circondavano, una pace grande, che dava a quella penombra un raccoglimento di tempio.

La vasca schiudeva la sua bianca profondità di tomba, nella rigidezza gelida delle sue pareti intonacate: in fondo, l'acqua verde dormiva, senza luccichìi e senza riflessi, come morta: e tutt'in giro, all'orlo, era un fiorire di roselline bianche, una nevicata fitta, costellante di candide macchie le verdi chiome arruffate, penzolanti nel vuoto... Quante, quante rose, in cespi, in mazzi, in grappoli, tutta una fiorita sterminata come quella che si ammucchiava sul grosso tappeto verde, quella sera, nella piccola stanza da pranzo...

A un tratto, sentii che ella era là. Come la prima volta, mi accorsi della sua presenza prima ancora di vederla. Era venuta dal viale che era alle mie spalle, silenziosamente, e si era arrestata a qualche passo da me.

— Cristina... – dissi, semplicemente, e le tesi le mani, come se tutto questo fosse stato preparato da tutti e due, per il supremo colloquio.

Venne a me, con la bianca fronte chinata: negli occhi chiari e nella breve bocca l'impronta del dolore era più cupa, più intensa: tremava.

— Cristina – ripetetti, e le piccole mani di lei furono nelle mie, lievi, come timidi uccelli che si posassero, pronti a spiccare il volo.

Non parlammo, per poco.

Intorno, veniva dalla vecchia villa un gran soffio di pace: nel crepuscolo di viola le cime degli alberi avevano un lento ondeggiare come di acqua che venisse a lambire una spiaggia invisibile e si ritraesse. Morivano rose, sui cespi, disfacendosi in silenzio.

L'ora dolce mi vinceva: dovevo confessare: non potevo esitare più oltre. Le strinsi le mani, la guardai negli occhi; le dissi, con voce breve, rapidamente: – Io v'amo. M'amate?

Seguì un silenzio. Il crepuscolo mancava, dietro le cime degli alberi; le chiome ondeggianti scoloravano, nel cielo viola.

Ella si strinse a me, quasi presa dal freddo. Gli occhi chiari mi fissarono: la breve bocca sussurrò, sommessamente:

— Vi amo.

Allora io vidi tutta l'anima sua, negli occhi: io lessi dentro, fino in fondo, sicuramente: io scorsi, in un lampo, ogni cosa: ella non mentiva.

Non mentiva! Il brivido terribile, il brivido della condanna mi scosse, d'improvviso. La bocca ignota aveva soffiato sull'anima mia.

Ah! Perchè, perchè ella aveva confessato? Perchè aveva detto tutto? Perchè era stata sincera?

Un affanno mi assalì, mettendomi un tremito strano nelle vene e subito io intravidi quello che sarebbe avvenuto, fatalmente, domani!

— Oggi ella è sincera: domani m'ingannerà. È la legge, la terribile legge, la legge inesorabile che non falla mai.

Ed io non potrò far nulla! Io soffrirò che ella così pura, oggi, così buona e schietta, oggi, mi tradisca. Io soffrirò che ella si macchi d'una colpa, che diventi rea, che segua il destino, io, io che prevedo, io che so!

Domani, ella sarà diversa! E va incontro a questo domani, inconscia; e nulla sa; eppure, domani non vi sarà più nulla, in lei, di quel che v'è oggi; nulla, nemmeno il ricordo, forse! —

La vasca, nella penombra, appariva bianca, d'una gelida bianchezza di tomba: l'acqua verde dormiva, in fondo, come morta.

Ella mi guardò: forse, qualche cosa di quel che passava, come fosca nuvola investita dal vento, nell'anima mia, le apparve, negli occhi miei.

Chiese, timidamente: – Dubiti?

La domanda, allora, la terribile domanda che mi lacerava dentro, mi venne alle labbra, fischiante come un colpo di scudiscio:

— Se tu m'ingannassi? Se domani sentissi di non potermi più amare?

Chiuse gli occhi, un istante, come innanzi a una paurosa visione: poi li riaperse, e disse, sorridendo: – Ne morirei.

Morire!

Ella lo aveva detto! Ella aveva pronunziato la parola terribile. Nella morte, dunque, ella voleva cercare il rifugio? Morire, perchè non amerebbe più? Morire, forse – sì anche questo, anche questo! – perchè non sarebbe stata più amata?

Ah, impedire il triste domani, il domani della menzogna, il domani del tradimento! Conservarla così, per sempre, pura, schietta, sincera!

Ella aveva appoggiata la testa sul mio braccio, placidamente.

—Ti credo – dissi, – domani non m'ingannerai.

La strinsi fra le braccia, la sollevai come una piuma. Non feci che un passo.

— Che fai? – chiese, aprendo gli occhi.

—T'amo – le dissi.

Nessun grido. La vasca le aveva aperto la sua gelida bocca di tomba: l'acqua verde non ebbe che un cerchio, largo, silenzioso, e si rinchiuse, nella sua quiete di morte.

Ella non riapparve, a galla. Attesi un istante, sull'orlo, senza un tremito; poi, mi curvai come un pazzo sulle roselline che fiorivano in cespi, in mazzi, in ciuffi: le raccolsi a piene mani, colle dita brancicanti, e le gettai giù, in pioggia infinita, spogliando i rosai, coprendone l'acqua. Era una nevicata bianca, continua, che cadeva, cadeva sull'acqua morta, distendendosi su quella come un soffice strato... Ella era lì sotto, invisibile. «La Vergine vuole le rose bianche»...

*
* *

Ella non poteva più mentire: ella sarebbe rimasta sempre così, pura e schietta. Io ho troncata la via al Destino.

Questo, signori giurati, io ho fatto. Quello che il giardiniere aveva sospettato, vedendomi uscire in fretta, stralunato, io l'ho confessato. Voi, ora, sapete tutto.

Così che – concluse Paolo Orsini, con voce ferma, guardando innanzi a sè, nel silenzio grande – io non l'ho uccisa: io l'ho salvata.

Pentima (Aquila)

Dicembre 1902

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