L'ARTE NELLA PAROLA

(CONFERENZIERI E CONFERENZE)

Evidentemente, quel signore – un arabo o un cinese, senza dubbio – che mise, per primo, in circolazione il famoso adagio: la parola è d'argento, ma il silenzio è d'oro, doveva essere un nemico spietato delle conferenze e dei conferenzieri. Come gli fosse sorta questa inimicizia, in fondo all'animo, io non so capire, quando penso, sopra tutto, che ai suoi tempi – tempi beati! – conferenzieri non ce n'erano; ma se quel signore aveva il gran privilegio di prevedere il futuro e di sapere che un giorno la conferenza sarebbe divenuta un'epidemia, ha tutto il diritto, oggi, di esser tenuto in considerazione grandissima... La conferenza, questa forma di arte così alta e così efficace – quando è alta ed efficace –, questa manifestazione intellettuale che avvince e soggioga il pubblico più che la fredda lettura di un libro, perchè trasfonde direttamente l'anima di chi parla nell'anima di chi ascolta, questa purissima forma che dovrebb’essere il privilegio di pochi, di quelli che sanno e che possono, è divenuta, poco a poco, fatalmente, il facile sport di tutti quelli i quali non possono tentare diversamente la conquista della réclame, perchè non sanno scrivere un libro, nè sceneggiare una comedia, nè dipingere un quadro... Il primo dottorino in medicina che abbia sulla coscienza due o tre clienti ammazzati secondo tutte le regole d’arte, il primo avvocatino che sappia discretamente come si mandi un infelice all'ergastolo, il primo studente in lettere, più o meno laureando, che abbia qualche reminiscenza del latino che studiò al liceo e che abbia perpetrato un paio di delitti, in versi o in prosa, sulle più accreditate riviste letterarie di provincia, crede di avere, oggi, il sacrosanto diritto di fare una conferenza; ed egli si serve di questo diritto, e mette insieme venticinque cartelle, e gli amici vanno a sentirle leggere, eroicamente... E poi si dica pure che l'amicizia è un mito!...

A tutto questo io ho pensato, rifacendo mentalmente il bilancio della «stagione intellettuale» napoletana che, con i primi giorni dell’incombente Messidoro, chiude le sue sale, dove si soffoca troppo... Ed ho pensato che Napoli ha rivisto tante care persone, ha inteso tante voci amate, ma ha visto e inteso, anche, – ohimè – tanti ignoti, troppi ignoti!

Il nostro Filologico, così simpatico nelle tradizioni napoletane, ha piegato da un pezzo, un po' troppo, dimentico del suo bel passato, a una indulgenza che nuoce, ed ha aperto, troppo paternamente – come «la bontà infinita» dell'Alighieri – le sue porte a chiunque sia andato a picchiarvi credendo di picchiare, come Carducci, «alle porte dell'avvenire»... Indulgenza che nuoce, e che offusca – in parte – il merito di quelli che avevano il diritto di ascendere alla bigoncia con la fronte alta e la coscienza di avere qualche merito. Oh, se non avessimo intesi che questi! Se potessimo ricordare, soltanto, i nomi illustri di Pinchia, di Molmenti, di Mazzoni, di Fradeletto! Se tutti i giovani conferenzieri si fossero chiamati Gennaro de Monaco! Ma la visione di Napoli Nobilissima, la cara Napoli nostra gloriosa e bella, in faccia al suo mare azzurro, in faccia al suo cielo azzurro, così efficacemente descritta dal Pinchia, e la rievocazione di Venezia la Serenissima, la Venezia pittoresca dei canali dormienti sotto la luna e delle calli caratteristiche, palpitante nella parola sapiente di Pompeo Molmenti e nella lirica suggestiva di Giacomo Fradeletto, e la grande, pensosa figura di Leonardo da Vinci, cuore di artista, mente di scienziato, ricordata, in una profonda analisi psicologica, da Guido Mazzoni, non bastano, no, a far dimenticare tutte le altre cose, povere, insignificanti, meschine, che sono cascate negli anni scorsi dalla bigoncia, ogni tanto, scivolando, perdendosi nei cantucci della sala semivuota... E ogni napoletano, che ama la città sua e le sue cose belle, vuole dimenticarle, le piccole cose brutte, e vuole augurarsi, sinceramente, che il Filologico nostro ritorni alla sua nobile ed alta dignità di un tempo.

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Fra un ballo e l' altro, senza chiasso e senza pretensione, ma con discreta e signorile semplicità, il Circolo Calabrese ha avuto, in quest'inverno, parecchi oratori simpatici e tre o quattro di nome e di fama indiscussi. E, fra gli specchi e le bianche lampadine elettriche, mentre, in fondo alla sala, fra le palme, s'indovinavano degli archetti di violini impazienti di attaccare un boston, hanno parlato, brillantemente e piacevolmente, Bruno Chimirri, storico e poeta della sua forte e nobile Calabria, così generosa e così poco curata e conosciuta; Giulio Scalinger, narratore e critico del Teatro sociologico, e Nicola Misasi, romanzatore e sognatore di una Femminilità conventuale più intravista in una visione lirica – veramente – che notomizzata nella fredda realtà del chiostro.

Un movimento intellettuale simpaticissimo e riuscito abbastanza bene è stato – bisogna convenirne – quello che ha portato nel pubblico nostro l'istituzione della Lectura Dantis. E l'ampia sala del liceo Vittorio Emanuele ha visto, ogni domenica, le nostre più belle signore, i nostri letterati ed artisti più noti, affollarsi, insieme con la legione – così degna di ammirazione – di tutti gli ignoti e gli oscuri che vogliono sinceramente apprendere, per sentir leggere e commentare la parola del Poeta, così vivo e gigantesco e possente, attraverso i secoli!

O rievocazione delle dolci primavere fiorentine, delle rosate primavere aulenti, come l'animo sentiva la soavità vostra!.. O nobile, cavalleresca figura del Boccaccio, curvo sulle pagine dell'immortale poema, a spiegare, nella bella prosa del trecento, il velame «de li versi strani», come la fantasia ti rivedeva, sognando!..

E ciascuno dei conferenzieri, dal Porena al Del Lungo, dal Bovio all'Agresti, dal Torraca al Colagrosso, dal Cimmino allo Zingarelli, hanno portata, coscienziosamente e devotamente, la loro pietra, salda e sicura, all'edifizio che da secoli l'Italia leva al divino Poeta, a quell'edifizio che non sarà mai terminato, perchè non potrà aver, mai, confine...

E in quella stessa sala, in una limpida, sfolgorante domenica di maggio, quando tutti gli altri, i professori, i letterati, erano già passati, quando il libro dell'Alighieri s'era chiuso, religiosamente, sulla cattedra, una Donna ha parlato. Matilde Serao, nome caro agli italiani, nome carissimo ai napoletani, Matilde Serao, la scrittrice profonda e passionale di tutto ciò che è passionale e profondo, dalla Fede all'Amore, ha parlato, innanzi al pubblico più bello e più numeroso che Napoli abbia mai visto, di Santa Teresa.

«Aut pati aut mori»: soffrire o morire! Ed ella ci ha parlato di Colei che di questa nobilissima divisa cinse, come di un cerchio di fiamma, l'anima sua. E non mai la Passione, e non mai il Dolore, queste due grandi sorgenti di vita e di morte che sono in fondo al cuore umano, hanno avuto un poeta o un filosofo che le cantasse e le anatomizzasse meglio e più umanamente!.. E nella sala passavano lunghi fremiti, come di messi al vento, quando la parola di lei vibrava come uno squillo o si spegneva, in una frase dolorosa, come una nota d'arpa; e quando ella, concludendo, ha parlato della missione del Dolore, e di questo Dolore ella ha voluto fare una fonte di purificazione e una forza, quando ella, donna, ella, madre, ha proclamata la parola dell'eroe e del martire, con slancio di fede, con coscienza di verità, gli occhi di tutti noi hanno avuto lacrime, e noi, tutti, abbiamo inteso il Bene che ella ci faceva, e tutto quello che, di buono e di grande, rifioriva in noi, sulle rovine delle cose malvagie e velenose che il soffio della sua parola aveva spazzato via...

....Il silenzio è d'oro? No: signor cinese o arabo, che siate. Qualche volta vi sbagliate: qualche volta, credetemelo, anche la parola è d'oro...

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