IL DELITTO L’ORA DELLA VILTÀ

(4 AGOSTO 1909)

Una torbida e tragica ora ha imperversato sulla vecchia e gloriosa terra del Cid: uno di quei soffi di ribellione cieca e violenta che sembrano convulsioni di un popolo e che erompono improvvisi, e si propagano, e conquistano terre e città come un contagio di follia, e bagnano il suolo di sangue fraterno. Una folla di donne e di fanciulli, all’avanguardia di un esercito di ribelli, ha divelto i binari delle ferrovie, ha demolito i ponti, ha rivolto le armi contro gli stessi soldati ai quali voleva far salva la vita, impedendo che partissero per il Marocco, dove la bandiera spagnuola era stata crivellata di colpi e spruzzata di sangue generoso, nell’impeto della reazione dei Mauri: una plebaglia inferocita ha scatenato le sue furie contro le chiese e i conventi, incendiando, ferendo, uccidendo religiose innocenti e tranquilli sacerdoti; e tutto questo in nome di una protesta contro la guerra, di una ribellione contro l’ordine di partenza di nuove truppe, di un rifiuto energico a un’azione militare che lavasse l’onta della sconfitta e risollevasse la bandiera nazionale piegata sopra un mucchio di morti.

— Abbasso la guerra! – È il fosco e selvaggio grido della viltà che coperse di barricate le vie di Parigi, mentre il cannone prussiano tuonava dalle alture circostanti e bruciavano i villaggi sotto gli obici di von Moltke; è il grido furioso che scatenò gli impeti demagogici contro le truppe italiane, e spezzò loro il cammino, mentre un esercito di prodi sventurati trascinava la catena della prigionia per le ambe sassose, sotto la sferza dei cavalieri gallas di Menelick.

– Abbasso la guerra! – È l’imposizione di una gente che i colpi del nemico fiaccano, che si piega più volentieri al giogo dell’ignominia che all’eroismo di una rivincita, che ha paura della lotta proprio quando la lotta l’ha prostrata, e non osa risollevarsi.

— Abbasso la guerra! – È il panico che invade le masse e le rende furiose e fratricide. L’armento disperso dall’eco dei lontani colpi di cannone diventa feroce contro suoi custodi: la plebe che strappa i soldati agli ufficiali e rovescia i vagoni perchè i suoi fratelli non partano, scaglia i suoi sassi e tira le sue schioppettate contro questi soldati, quando essi vogliono riprendere il loro posto e la loro via.

È la grande e terribile ora della viltà che si leva sulle razze latine, quando la nazione chiama i suoi figli alla riscossa: è l’indice della decadenza nostra, dello spirito nostro che non sa più esser forte nelle avversità, che non sa più temprarsi a nuovi cimenti, che preferisce la guerra civile alla guerra dello straniero, soltanto in odio all’esercito, soltanto perchè l’entusiasmo patriottico non accende più nessun bagliore nei cantucci vuoti dell’anima nostra, in cui della gente arida e perversa ha soffiato il suo cinismo che nega, soltanto perchè, a poco a poco, hanno distrutto in noi ogni tradizione di fede alta e bella, della fede per cui si vive, della fede per cui si muore.

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La Comune, le giornate di Milano del novantotto, le giornate di Barcellona della scorsa settimana: nessun trittico potrebbe essere più perfetto, per sferzare i degeneri figli di Roma.

Non è più l’onore che preme alla razza infrollita, disfatta dal veleno sovversivo: è la vittoria, che dia buoni frutti e lasci tranquillamente la gente a casa. La sconfitta non agisce da pungolo incitatore ma colpisce come una iniezione tossica nell’albero spinale: è la convulsione della stricnina, che agita questo corpo disfatto e gli dà una falsa energia, e lo scaglia contro se stesso, e lo spinge a ferirsi, a dilaniarsi, per abbreviare la sua agonia.

Che cosa è la patria, quando non provvede ad assicurare il pane e la tranquillità? Una pericolosa utopia, per la quale è stolto morire. Abbasso la patria!

Queste orde così sguinzagliate, nell’ebrezza della distruzione, si trovano, d’un tratto, innanzi a qualche cosa che non è una caserma: un convento, un tempio, drizzano la loro croce in faccia alle loro bocche urlanti, alle loro braccia minacciose. Ed esse intendono subito che, se c’è chi può arrestare la loro marcia, è l’idea di Cristo: Cristo, che è fede e amore, Cristo che è la tradizione nostra, dei nostri morti, la voce che ci parla del dovere, del sacrifizio, di tutto ciò che lo spirito ribelle nega. La patria e Cristo: non è forse in questo duplice nome che il soldato giurò? Non è nel nome dell’una e per la fede dell’altro che egli muore?

Il sottile veleno sovversivo, che il contatto con l’amara anima nordica ci inoculò, ha dovuto intaccare prima le radici della religione, per distruggere quelle della patria: la gente nostra, docile alle voci che vengono di fuori, assorbì quel veleno a poco a poco. Ora, esso ha agito, e dall’anima è caduto ogni ideale. Bisogna, però fare di più: bisogna che anche il ricordo ne sparisca. Ed ecco che questi bruti, che nel nome della fraternità massacrano i fratelli, indirizzano i loro colpi contro i sacerdoti di quella fede che hanno bandita dal loro spirito, o appiccano il fuoco alle chiese ed ai monasteri. La dimostrazione è completa e prova che c’è tutta una logica del male, voluta ed attuata da menti che sanno organizzare: nell’idea di Dio è l’idea della patria; soffochiamo la prima, perchè sia spenta la seconda!

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Che importa, se il cannone ha spazzato le vie e la marmaglia sanguinosa si è dispersa nell’ombra? Che importa, se l’ordine, ristabilito con la forza delle armi, abbatte le barricate, e la spugna cancella le macchie di sangue dal lastricato?

Ben altro occorre, alla razza nostra; occorre che essa ritrovi se stessa, le sue tradizioni, la sua fede, occorre che essa si rifaccia uno spirito nuovo, occorre che essa abbia il coraggio di espellere dal suo organismo, dai suoi tessuti, dalle sue vene, tutto il tossico che le si è andato infiltrando nei suoi contatti con gli spiriti ribelli delle razze slave. Bisogna che tutti, tutti, quelli che sono in alto e quelli che sono in basso, quelli che sanno e gli ignoranti, quelli che guidano la pubblica opinione e quelli che sanno soltanto offrire le loro braccia muscolose, abbiano la forza di purificarsi, di smettere questo dilettantismo di rivoluzione che ci fa aprire le braccia e le coscienze ai peggiori nemici della patria che esulano dalle terre loro, che ci fa complici condiscendenti ai loro delitti, che ci fa piangere tutte le nostre lagrime sentimentali innanzi alle forche punitrici che soffocano nelle loro gole l’ultima bestemia e l’ultima negazione. Bisogna rifare la serena anima latina, con le sue idealità, con i suoi entusiasmi, con i suoi sogni, magari con le sue chimere; bisogna ritrovare in noi lo spirito dei padri, che seppero vincere perchè non temettero la morte.

Chiudiamo le porte a questo dilagare di cinismo e di nichilismo che fluisce sulle soglie di casa nostra, che avvizzisce gli ultimi germogli che nacquero sul vecchio tronco.

Assai ci curvammo a bere alle fonti avvelenate; lasciamo, ora, che i tristi rivoli si disperdano altrove, e rincalziamo i solchi, perchè la corrente non ci tocchi.

Finchè sorrideremo alla villana rettorica della socialistaglia, finchè consentiremo a una scuola di ribelli la propaganda che prepara il delitto all’ombra della cattedra e del libro – assai più colpevole della stessa azione violenta della plebaglia che scende in piazza – finchè in Francia come in Italia, come in Ispagna, lasceremo libera la via ai nemici della patria e di Cristo, o, magari, li aiuteremo a farsi un piedistallo delle loro colpe, saremo condannati alla disfatta e piegheremo le fronti e le schiene, in un’ora di viltà atroce come quella di ieri, come quella di oggi, a una gente che è più forte di noi, perchè ha ancora una fede.

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