Una pagina di storia

Daniele Oberto Marrama

Qualcuno mi ha detto, quando ha letto queste pagine, nate da pochi articoli di giornali che ho scritti in tempi diversi, sulle orme degli eventi: Tu ti metti contro la folla.

Io rispondo: No. Io mi metto all’ombra della Verità, e la folla sarà con me, perchè la Verità è fatta per essa.

Chi non ha mentito, in questi giorni, ad essa? Chi non è stato colpevole, molto o poco, di trascinarla a un movimento che pochi sapevano di indirizzare a un fine rivoluzionario, ma che i più seguivano ciecamente, con la docilità che hanno anche i ribelli quando formano un armento?

L’ora dolorosa che è trascorsa interessa non soltanto la Spagna, dove una salda mano ben ferma sulla spada che gli Avi le hanno confidata, ha saputo tener fronte all’impeto sovversivo, ma tutto il mondo latino. Sono le nazioni sorelle che l’ebrezza ha vinte e che hanno levato un grido di protesta per una sentenza che non avevano letta e che aveva colpito un uomo che non conoscevano.

La vecchia rettorica, gridata dalle bigonce improvvisate nelle piazze, ha parlato di un delitto, e i più hanno ignorato che una sentenza di condanna è una dolorosa necessità di difesa, quando il condannato ha trascinato il suo paese a un impeto di rivolta e di strage e ha acceso intorno al suo piedistallo un rogo di conventi; ha parlato di un apostolo, e i più hanno ignorato che questo apostolo deve rispondere di fronte alla Storia di un’ora criminosa che ha insanguinata la bella terra di Spagna e di fronte alla sua coscienza di qualche cosa che è anche più grave: di aver uccisa la fede in un’anima che si era aperta a lui e che a un’opera di fede aveva destinato il suo patrimonio.

Che sapevano di ciò le nazioni sorelle? Troppo sollecito è stato il gesto di chi ha voluto lanciare le turbe a un’agitazione violenta perchè quelli che hanno ingrossato le file potessero veder chiaro nella parola incitatrice.

Oggi, il soffio ribelle è passato, e bisogna raccogliere nei solchi la Verità che vi era stata calpestata. Questo compito spetta a noi; a noi che scriviamo sui giornali i commenti quotidiani agli avvenimenti. Noi siamo quelli che preparano il cammino alla Storia, e la pagina che scriviamo oggi è una pagina amara, ma sincera.

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Così, questi articoli sono pubblicati come io li scrissi. Sono pagine frettolose, dettate nell’ora stessa in cui gli avvenimenti incalzavano, pagine che nessun legame fonde in un’opera sola, ma che hanno un legame celato: quello stesso che ha guidato gli eventi, e che dalle stragi di Barcellona è giunto all’esecuzione di Montjouich e da questa ai tumulti anarchici di piazza. L’ordine è quello stesso che la Storia segnerà: l’ora del delitto, l’ora dell’espiazione, l’ora della mala ebrezza.

L’anarchia segnò l’inizio, e per farsi strada mascherò il pugnale sotto la veste del pensiero laico: la scuola celò, compiacente, il regicidio. Per giungere al trono si schierò contro Cristo. E la Massoneria le fu compagna.

Più tardi, esse si sono incontrate novellamente sulla stessa tomba: l’alleanza ha giurato il suo patto sopra un cadavere. Occorre che il mondo civile sappia, e ricordi.

Altri morti, e assai, chiedono dalle fosse in cui i loro resti calcinati sono stati deposti che il cuore delle genti pianga su essi, che non fecero male: altri caduti, che il piombo e le fiamme spensero, per spegnere in essi e con essi la fede, e che la gente non ha ricordati, ora che si è agitata per un morto solo, chiedono che il loro martirio sia pesato nella stessa bilancia in cui si pesa un atto di fatale giustizia.

Risparmiate il sangue umano! Il grido che è echeggiato sotto gli spalti di Montjouich doveva levarsi tre mesi prima: la vita di cento uomini vale cento volte la vita di un uomo, chiunque esso sia!

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La Spagna credente e fedele ha levato, nell’ora del pericolo, il suo sguardo a Colui che guidava i suoi destini, al suo Re, e lo ha visto dritto in piedi, vigile sul suo trono, e si è rinfrancata.

Alfonso di Borbone, giovine ancora, è stato chiamato al suo aspro compito, e lo ha accettato con la fermezza e la fede dei Borboni.

Due volte provato dall’insidia nemica, due volte è stato temprato dalla fiamma, come una salda lama toledana che il fuoco rende infrangibile. Ma il battesimo della fiamma gli ha insegnato un eroismo novello e maggiore: vincere la sua bontà, quando la bontà può essere una debolezza. I Re non debbono esser deboli: debbono essere giusti.

E la storia scriverà che Alfonso è stato giusto, e degno dei suoi Avi, e degno della sua razza: e dirà che, mentre i suoi cugini, che portano gloriosamente il nome di Lui, si battevano da oscuri ufficiali, in linea, al Marocco, sfidando la morte, Egli è rimasto al suo posto di soldato, dove maggiore era l’eroismo e sacro il compito: sul trono.

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