L’ESPIAZIONE LA LOGICA DELLA GIUSTIZIA

(15 OTTOBRE 1909)

Il tacito gesto di una spada balenante che ha segnato, l’altro giorno, l’istante supremo per colui che una tragica sentenza condannava alla morte, nel fossato erboso di un tetro castello, quel gesto breve e solenne che ha spezzato una vita, in nome della legge, rappresenta la suprema e inesorabile forma di difesa di una società.

Francisco Ferrer ha gridato alto, nelle sue difese, di non aver partecipato all’opera sanguinaria che ha coperto di morti, due mesi or sono, le vie di Barcellona; Francisco Ferrer, il fondatore della Scuola Moderna, ha proclamato sdegnosamente di non essere sceso in piazza con la fiaccola in pugno, di non aver appiccato con le sue mani il fuoco ai conventi nei quali dei vecchi frati innocui e delle tranquille suore preganti sono stati arsi vivi. E sia pure.

Ma egli non ha rinnegato la sua propaganda, egli non ha rinnegato sue teorie di distruzione, egli non si è scagionato dall’accusa di aver scritto dei proclami che avevano, tra le righe, un fiammeggiare di roghi e un rosseggiare di sangue. Egli ha detto soltanto di essere un «teoretico» e ha mostrata l’unica arma che avesse stretta in pugno: la penna. E tutta la vecchia mentalità che innacqua il sangue della gente nostra, sempre pronta a gemere intorno alla prigione del vivo, mentre ha dimenticato troppo presto il morto, la sentimentalità della massa anodina, che scivola sulle lagrime verso la meta a cui un sapiente duce la spinge, ha ripetuto con convinzione che Francisco Ferrer è una vittima innocente, perchè egli non ha «preso parte» ai moti sovversivi, perchè egli non è mai stato un uomo d’azione, perchè la sua penna non vale una scure o un pugnale.

Così per tre giorni o quattro, intorno al capo del condannato, si è andato tessendo un usbergo di spiriti infiammati e commossi, e i comizi si sono succeduti ai comizi e le proteste alle proteste. In Francia come in Italia, le due sorelle latine che le stesse epidemie contagiano, assemblee di cittadini, convocate da grandi cartelli di color rosso fiammante, hanno minacciato l’anatema del popolo al governo spagnuolo se la sentenza fosse eseguita. Qua e là vi sono stati anche dei conflitti e si è sparso del sangue fraterno per impedire che si spargesse quello di uno straniero: logica dei momenti di convulsione di una folla inconscia!

E quando infine la notizia che il telegrafo ha sparsa in tutto il mondo, seccamente, è giunta, quando, ieri l’altro, nelle ore mattutine, nelle nostre redazioni un dispaccio o un fonogramma di poche parole è giunto, che diceva: «Ferrer è stato fucilato stamane» è parso che uno stupore improvviso e profondo piombasse sulla folla, prima che gli spiriti agitatori risollevassero la fiaccola ribelle. La morte di Ferrer è parsa una cosa inattesa, inconcepibile, mostruosa. Ognuno di coloro che si è agitato, in questi giorni, un poco o molto, o che ha assistito alle agitazioni, fraternizzando, simpatizzando, commovendosi, infine, ognuno di coloro che ha gridato che non si può uccidere l’apostolo di una idea, il sacerdote di una teoria, l’uomo che è armato di una piccola penna, ha sentito sinistramente crepitare le schioppettate che hanno risuonato laggiú, nella livida cerchia dei bastioni, e ha visto, con lo spirito febbrilmente agitato e scosso, una figura umana piombare d’un colpo a terra, col viso sull’erba, e restarvi, immota, nella prima luce del giorno. E ha gridato, intorno a questo ucciso, che un delitto si è compiuto, perchè non si deve spegnere chi bandisce un’idea, chi predica una teoria, chi fa della sua penna un vessillo.

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Certo, è triste, assai triste fare un processo ad un morto, e l’uomo che la terra ricopre, adesso, e a cui pochi soldati, silenziosamente, hanno reso gli ultimi onori, ha il diritto di essere lasciato in pace. Ma nel divampare degli odii, risorgenti intorno a quel cadavere, in un’ora che può essere pericolosa per gli eccessi di chi in questo sciagurato episodio cerca gli elementi per una campagna contro il Trono e contro l’Altare, è doveroso dire la parola serena e sincera, la parola che ogni onesto deve ripetersi, quando la torbida plebe infuria e la demagogia riaccende le sue fiamme per cingere di un anello rovente e distruttore l’ultima chiesa e l’ultima caserma.

Non è il sentimento che salva la società, e non è la debolezza, che rassicura una istituzione: è doveroso, ma è fatalmente logico. Francisco Ferrer era un «teoretico», ma le teorie trovano i loro esecutori; Francisco Ferrer era un apostolo, ma ogni apostolato ha dei soldati che lo traducono in azione; Francisco Ferrer ha scritto del proclami, ma quei proclami si indirizzavano alla plebe, e la plebe li ha intesi e ne lame e faci per uccidere e per incendiare. Le stragi di Barcellona erano la conseguenza di una preparazione oscura: questa preparazione si è diramata attraverso le torbide coscienze dei molti, partendo dai cervelli istigatori di pochi, di qualcuno, forse. Non basta dire: Io non ho agito. Bisogna ricordarsi di «aver voluto».

Molti colpevoli i fucili dell’esercito spagnuolo hanno abbattuti, nei fossati del castello: ma erano degli sciagurati che erano vissuti di rapine e di colpi di coltello, delle magre e fameliche figure di sciacalli umani che si erano lanciati alla strage quando il vento aveva loro portato l’odore delle prime schioppettate tirate contro i preti o i gendarmi, quando il primo filo di fumo che si era levato nell’aria aveva fatto pensare alla facilità della buona preda. Costoro, i cenci della rivoluzione, che si trascinano nel fango e nel sangue, quando la repressione s’inizia, sono stati rinnegati da quelli che avevano seminato il germe dell’odio nell’anima loro. L’uomo che dice: «Io non sono responsabile delle stragi e dei saccheggi» non difende sè stesso, ma accusa gli altri, e spezza, nell’ora del pericolo, ogni suo legame con quelli che sono i figli dell’opera sua. Francisco Ferrer ha voluto troncare il vincolo fatale che lo univa alla plebaglia omicida; ma questi vincoli sono troppo tenaci, quando è il sangue che li ha alimentati. E gli altri morti, i morti che lo hanno preceduto, per il triste cammino di Montjuich, i morti oscuri, quelli che nessuno ha difesi, quelli per i quali nessuno si è agitato, nessuno ha chiesta la grazia, lo hanno voluto con loro, lo hanno chiamato a loro, hanno preteso che egli li raggiungesse, nei solchi erbosi tinti di sangue.

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V’è qualcuno, a quest’ora, che deve essere assai triste, profondamente triste, per la sentenza che ha dovuto fare eseguire: il giovine e cavalleresco Sovrano del popolo Spagnuolo, Alfonso di Borbone. Ma egli ha dovuto vincere la voce dell’anima buona, quando è giunto l’istante in cui la ragione di Stato gli ha imposta la via. La giustizia che avea condannati gli esecutori materiali degli eccidi non poteva arrestarsi innanzi a colui che aveva armato le mani degli assassini. La Spagna ha vinto, due mesi fa, una terribile battaglia col rigore: una debolezza, oggi, poteva esserle fatale. Ed egli ha pensato che non doveva commetterla, per salvare ciò che gli è stato affidato e che saprà conservare, ed ha chiesto a Dio la forza di fare il suo dovere, interamente.

Così Iddio faccia che su tutte le salme, su quelle che l’odio disperse e su quelle che la giustizia radunò, l’alba di domani distenda lo stesso manto di fiori, e sui campi della Spagna l’inno al lavoro fecondo celebri la rinascenza fraterna d’un popolo generoso, unito in solo vincolo, in una sola fede!

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